venerdì 13 gennaio 2012

LA SERA DEL 13 GENNAIO 2011, DUE KILLER AMMAZZANO VINCENZO LIGUORI. L'APPELLO DELLA FIGLIA "CHI HA VISTO PARLI" ANCORA SENZA RISPOSTA

Il raid la sera del 13 gennaio 2011, poco prima delle 19. I killer arrivano in sella ad una moto coperti da una casco integrale in via San Giorgio Vecchio, a San Giorgio a Cremano.  L’obiettivo è un pregiudicato, Luigi Formicola, 56 anni, titolare di un circolo ricreativo. La sede del circolo si trova a fianco ad una officina meccanica dove da anni Vincenzo Liguori, 57 anni, ripara moto, la sua passione da sempre. Il raid omicida si compie in pochi minuti. I killer abbattono con una raffica di colpi Luigi Formicola che tenta di sfuggire ai suoi assassini e cerca di ripararsi proprio nell’officina di Liguori. Dopo la missione di morte i due scappano a tutta velocità. Ma fanno pochi metri e tornano indietro. “Il meccanico ci ha visto. Può essere un testimone pericoloso”. Nonostante i caschi integrali, i killer non risparmiano nemmeno Vincenzo Liguori. Pochi colpi e per lui non c’è più nulla da fare.
La figlia di Vincenzo, Mary, che fa la corrispondente per il quotidiano “Il Mattino”, per la zona vesuviana, allertata dalla redazione, si avvia all’indirizzo che le hanno fornito per seguire l’ennesimo fatto di cronaca nera. E’ la strada dove ha l’officina meccanica il padre. Conosce bene la zona. Dalla redazione del “Mattino”, si rendono conto solo più tardi che una delle persone uccise è il padre di Mary. Tentano di richiamarla, ma è troppo tardi. La ragazza arriva in via San Giorgio Vecchio è scopre che uno delle persone uccise è  proprio suo padre Vincenzo, ucciso da un colpo al cuore.
Mary, due giorni giorno dopo, scriverà questa lettera che riportiamo, pubblicata sulle pagine del quotidiano “Il Mattino”, anche su consiglio della madre. Scrive per fare soprattutto un appello a chi è stato testimone del delitto di suo padre, affinché dica ciò che visto.
NAPOLI - 15 gennaio 2011 -  «Scrivo questo articolo perché me lo ha chiesto mia madre che in questo momento, forse più di me, crede nel potere dei mezzi di comunicazione. Mia madre spera che un appello possa smuovere le coscienze di testimoni che hanno visto il marito morire da innocente. Chi sa parli, collabori con i carabinieri, ci aiuti a fare giustizia», dice mia madre. Faccio mio quest’appello e non da giornalista, ma da figlia. La figlia di un uomo che ha cominciato a fare il meccanico ad appena otto anni ed è morto mentre lavorava. Quando i killer sono entrati nell’officina, per scovare l’uomo che cercavano e trucidarlo, mio padre stava cambiando l’olio ad un motorino. È morto lavorando, mio padre. Ed è morto per errore, perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era un uomo onesto, che amava vivere in disparte, stare lontano dai riflettori.
Oggi si ritrova sui giornali, vittima inconsapevole di una violenza inaudita e noi non possiamo che sperare che un giorno si trovino i suoi assassini, che la giustizia possa prevalere sull’omertà. Quante volte, da giornalista, ho raccolto appelli del genere: familiari di gente ammazzata che si aggrappano alla speranza della giustizia, pur sapendo che nulla farà tornare in vita il proprio caro.
Oggi tocca a me e alla mia famiglia fare i conti con questo sentimento. Posso solo dire che sto vivendo un incubo, il peggiore degli incubi. Per anni i cronisti come me coltivano il sogno della firma in prima pagina, oggi mi è toccato finirci nel modo più orrendo, quello che mai avrei voluto e nemmeno lontanamente immaginato.
Sento intorno a me tanta solidarietà: i colleghi giornalisti, i fotografi, i rappresentanti delle forze dell’ordine. Il Prefetto di Napoli mi ha inviato un telegramma, che mi ha molto colpito. Ripenso a quello che mi diceva sempre mio padre: «Non importa il lavoro che fai né quanto ti pagano, l’importante è che ti piaccia davvero». So di non essere sola, ma so anche di essere molto più debole senza di lui.
Spesso, dinanzi alla prospettiva di andare via da qui, mi sono risposta: che andassero via gli altri, quelli violenti, quelli che hanno reso questa città invivibile! Perché dovrei essere io ad abbandonare il campo? Io faccio la giornalista anche per cercare di cambiare le cose, per migliorarle. Oggi ci credo un po’ meno, mi chiedo se vale ancora la pena lottare. Ma un secondo dopo mi rispondo che sì, vale la pena. Devo farlo per mio padre, per mio marito che il suo papà l’ha perso appena un anno fa, per i miei fratelli. E per mia madre che, tramite me, vi dice: «Chi ha visto, parli».
Le indagini sono ancora in corso. Dei killer  nessuna traccia

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