lunedì 18 febbraio 2013

FEDERICO DEL PRETE, UN UOMO, UN SINDACALISTA VERO

Il brano è tratto dal  mio libro "La Bestia" (Melampo Editore)



18 febbraio del 2002. Quella sera faceva freddo a Casal di Principe. 
C’era poca gente per strada e Federico Del Prete, giacca e cravatta come sempre, stava parlando al telefono nella sede del sindacato in via Baracca. Per arrivare nel suo ufficio bisognava passare da Corso Umberto, la strada che divide San Cipriano d’Aversa e Casale e che porta a Frignano e poi ad Aversa. Ci si infila passando vicino all’unico cinema della città, il cinema “Faro”, che sino a qualche anno fa proiettava solo film a luci rosse. Pochi negozi lungo questo tratto di via: alcuni bar e circoli ricreativi. A Casal di Principe ce ne sono tanti di circoli ricreativi. Sono i tipici luoghi di aggregazione dei giovanissimi, usi passare il loro tempo tra tavoli da biliardo e videopoker, che qui hanno dimensioni e offerte fantasmagoriche. Dal corso principale, fino all’ufficio dove Federico aveva aperto la sede del sindacato, erano sì e no cinquecento metri in linea d’aria. I vicoli si presentano con portoni grandi e muri spessi e alti, colorati per lo più in giallo ocra. Da sotto i balconi del primo piano ogni tanto
spunta l’occhio vigile di una telecamera. È la sicurezza fai-da-te dei camorristi, che temono sorprese dalle forze dell’ordine.




Quando i portoni si aprono, offrono alla vista le caratteristiche strutture a corti con l’aia dove non molti decenni fa si svolgevano tutte le attività agricole delle famiglie casalesi. Oggi al posto dei trattori ci sono le Mercedes. In molti casi i Suv fanno bella mostra al centro del cortile. Anche da queste parti sono simboli da esibire su strade rappezzate alla meglio. Strade che al visitatore distratto sembrano tutte uguali e anonime. Le conosceva bene, una per una, invece, chi quella sera di febbraio di sei anni fa aveva deciso di chiudere i conti con il sindacalista che s’era messo in testa di intralciare gli affari della camorra. Doveva essere uno del posto quello che arrivò fino al suo ufficio per chiudere i conti. Doveva sapere a menadito dove andare, quando colpire e per quali strade fuggire. Mancava qualche minuto alle 19,30. Poco prima alcuni commercianti ambulanti avevano lasciato il piccolo ufficio di Federico. Una stanza a piano terra con una porta a vetri. Ai muri qualche manifesto del sindacato e una piccola bacheca per gli appuntamenti. Alle sue spalle un croficisso. Fuori dall’ufficio una targa con la scritta Snaa, il sindacato dei commercianti ambulanti, i “mercatari”, come si chiamano tra loro. Federico era un ambulante anche lui. E aveva fondato il sindacato qualche anno prima, dopo essersi conquistato la fiducia di molti suoi colleghi denunciando gli abusi subiti da chi frequentava la fiera settimanale di San Giovanni a Teduccio.

La telefonata che stava facendo quella sera non era breve. La voce tesa tradiva la tensione accumulata nei giorni precedenti. La porta dell’ufficio non era chiusa. Nessuna serratura di sicurezza, nessun filtro per le presenze indesiderate. Da questo punto di vista la stanza era davvero un porto di mare. Chiunque avesse voluto entrarci, poteva farlo senza problemi. Federico si era slacciato la cravatta. Non lo faceva mai, evidentemente la telefonata lo stava stancando o innervosendo. A un certo punto entrò di botto una persona dando una spinta violenta alla porta. Gli si parò davanti. Aveva in mano una pistola calibro 7,65. Federico lo guardò impietrito. Capì che era un killer della camorra. Non  se l’aspettava, anche se da qualche settimana aveva incominciato a temere seriamente per la sua vita. Forse urlò. E forse dall’altro capo del telefono si sentì quello che stava accadendo. Poi, cinque colpi in rapida successione lo colpirono allo stomaco e al torace, lasciandolo a terra senza vita. Accadde tutto in pochi istanti. Poi il killer girò le spalle. Due passi veloci e fu sulla strada. Fuori lo aspettava una macchina. con il motore acceso. «Andiamo. È fatta», disse il killer ai complici. Una sgommata e via. Nel giro di qualche minuto l’auto venne inghiottita dai vicoli (...)

martedì 12 febbraio 2013

FU UN OMICIDIO "TURPE E SPREGEVOLE" QUELLO DI TERESA BUONOCORE



Fu un omicidio «turpe, spregevole e vile secondo il comune sentire della coscienza collettiva». I giudici della Terza sezione della Corte di Assise di Napoli definiscono così l’omicidio di Teresa Buonocore, la donna uccisa il 19 settembre 2010 per aver denunciato l’orco che aveva abusato  delle sue bambine. La frase si trova nelle motivazioni della sentenza di condanna all'ergastolo di Enrico Perillo, il mandante di quell’omicidio. È invece «nobile che la madre di una giovane vittima di un sì grave reato – scrivono ancora i giudici -  ne denunci l'autore e, costituendosi parte civile, agisca per garantire alla vittima quantomeno un risarcimento monetario».



Per i giudici, Perillo ha dato vita a «una vera e propria escalation criminale che non sembra essersi interrotta neanche con il più grave dei reati a lui contestati», vale a dire proprio l'omicidio. L'omicidio avvenne il 19 settembre 2010. Le figlie di Teresa Buonocore, amiche di quelle di Perillo, frequentavano la casa dell'uomo, a Portici (Napoli). Proprio nell'abitazione, mentre la moglie era assente per lavoro, Perillo, che un lavoro non l'ha mai avuto, abusò di una delle bambine. Fu un vicino di casa ad accorgersi di quanto avveniva e a rivolgersi alla Polizia: solo allora Teresa Buonocore venne a sapere e non esitò a costituirsi parte civile nel processo per gli abusi sessuali al termine del quale Perillo fu condannato a 15 anni di reclusione. In 62 pagine il presidente della Corte di Assise Carlo Spagna (giudice a latere era Nicola Russo) ricostruisce innanzitutto gli incendi fatti appiccare dall'uomo alle porte della casa di un suo vicino, che lo aveva denunciato per abusi edilizi, e dello studio dell'avvocato Maurizio Capozzo, «colpevole» - a suo modo di vedere - di assistere il comandante della polizia municipale di Portici (Napoli), intervenuto per bloccare gli abusi edilizi e a sua volta denunciato da Perillo.
Quindi si sofferma sulla passione per le armi nutrita da Perillo, condannato per il possesso di pistole, fucili, esplosivi e migliaia di munizioni, che fabbricava egli stesso in casa e vendeva poi a non meglio identificati esponenti della criminalità organizzata di Torre Annunziata (Napoli). Infine affronta gli abusi sessuali compiuti dall'imputato su due bambine, una delle quali è figlia di Teresa Buonocore: Perillo le mostrò una pistola dicendole che l'avrebbe usata contro sua madre se le avesse rivelato le violenze cui la sottoponeva, mentre tentò di convincere l'altra bambina a ritrattare le accuse offrendole ricariche telefoniche da 50 euro e un paio di scarpe Nike. L'omicidio, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza, fu commissionato da Perillo, che era in carcere per gli abusi sessuali, ad Alberto Amendola tramite una lettera criptata. «Fai fare i lavori alla casa in Calabria, trova il muratore adatto, la pala non ti manca; ci stanno 15.000 euro». Il «muratore adatto» fu individuato da Amendola in Giuseppe Avolio, condannati a 21 anni, il primo, e a 18 anni, il secondo, per omicidio al termine del processo con rito abbreviato. Nelle pagine finali delle motivazioni, Spagna si sofferma sugli ultimi episodi della «escalation criminale», in particolare sulle minacce rivolte ad Alberto Amendola, che per questo fu trasferito in un altro carcere, e le minacce rivolte addirittura in aula ad un altro teste che lo aveva accusato.

martedì 5 febbraio 2013

LA FAMIGLIA DI DON DIANA CONTRO IL PENTITO CARMINE SCHIAVONE

Ancora un tentativo di infangare la memoria di don Giuseppe Diana. Stavolta è un collaboratore di Giustizia, Carmine Schiavone a tirarlo in ballo. Ma la famiglia di don Diana non ci sta e passa al contrattacco. "Abbiamo dato mandato al nostro legale di fiducia affinché avvii tutte le iniziative giudiziarie a tutela del buon nome di don Peppe Diana". Emilio Diana, il fratello del sacerdote ucciso il 19 marzo del 1994,  è offeso e amareggiato da questa nuova offensiva diffamatoria nei confronti di don Diana. "Non sono bastate tre sentenze per  mettere la parola fine sulla vicenda del nostro congiunto - dice Emilio - ora arriva altro fango su una persona che non si può più difendere e non può contestare quello che viene detto. Mio fratello non trova pace. Dopo 19 anni ci sono ancora tentativi così maldestri per offuscare la figura don Peppe".

Carmine Schiavone, il primo pentito del clan dei casalesi nel corso del processo a carico di Nicola Cosentino, in corso di svolgimento a Santa Maria Capua Vetere, ha sostenuto che il sacerdote si era schierato con l'ex sottosegretario all'Economia: "Cosentino mi chiese di coinvolgere il prete. Portava molti voti. Gli chiesi di appoggiarlo per le elezioni provinciali. Era il 1991".
  Dichiarazioni che hanno provocato sconcerto a Casal di Principe tra i cittadini che conoscono la storia di don Giuseppe Diana e la storia di Carmine Schiavone.

"Chi attacca la memoria di don Diana - dice Valerio Taglione, coordinatore del Comitato don Peppe Diana - vuole delegittimare tutto il movimento anticamorra che nel suo nome sta cercando di cambiare questi territori".

"Provo solo indignazione per questo tentativo di coinvolgere in un processo politico la figura di don Diana  -  don Stefano Giaquinto, parroco  a Casagiove, che ha sempre difeso a spada tratta la memoria di don Diana, è categorico: lo devono lasciar stare. Don Diana ha dato la vita per difendere quello in cui credeva. E' un martire della Chiesa".
 

In casa don Diana, in via Garibaldi a Casal di Principe, è un via vai di persone. Abbracciano Iolanda, la mamma, che vicino al camino ascolta in silenzio e con le lacrime agli occhi. Continua solo a dire sottovoce: "Perché ancora tutto questo? Perché non gli fanno trovare pace a quel figlio mio?”

sabato 2 febbraio 2013

UNA MESSA PER RICORDARE GIANLUCA CIMMINIELLO UCCISO TRE ANNI FA



Gianluca Cimminiello
Una messa in ricordo di Gianluca Cimminiello è prevista per le 18,15 di oggi presso l'istituto Fratelli Maristi, in via Fratelli Maristi 21, Giugliano in Campania.
Gianluca Cimminiello fu ucciso il 2 febbraio del 2010 a Casavatore davanti al negozio di tatuaggi “Zendar” di cui era titolare. Aveva scatenato l'invidia di un altro tatuatore in seguito alla pubblicazione su Facebook di una foto con il calciatore del Napoli, Ezechiel Lavezzi. Temeva che quella foto gli avrebbe fatto perdere clienti a favore di Gianluca. Cominciò anche a mandargli messaggi sempre più minacciosi fin quando, per “chiarire” definitivamente la questione, non inviò da Gianluca alcuni emissari del clan Amato-Pagano. Si presentarono il 30 gennaio nel suo negozio di tatuatore. Erano in quattro, armati di coltelli. Ma non avevano fatto bene i conti. Non sapevano che Gianluca era esperto di arti marziali. Li fece scappare con la coda tra le gambe nonostante fossero armati. Tra essi c’era anche un cognato del boss Cesare Pagano. Tre giorni dopo una persona entra nel negozio e chiede a Giannluca informazioni su una foto di un tatuaggio che è in vetrina. Ha in testa un cappellino di lana che gli lascia fuori solo gli occhi. Lo attira fuori dal negozio e appena arriva sull’uscio, estrae una pistola dal giubbotto e fa fuoco. Un colpo alla gamba e uno al torace che gli perfora il polmone. Gianluca muore quasi subito. Erano le 19.10 del 2 febbraio 2010. Giancluca aveva 31 anni e amava la pesca, il canto, le arti marziali, i tatuaggi, ma più di ogni altra cosa, amava la sua famiglia.







 


venerdì 1 febbraio 2013

FECE CONDANNARE IL KILLER DI DON DIANA MA NON E' MAI STATO RICONOSCIUTO COME TESTIMONE DI GIUSTIZIA


Augusto Di Meo
La sua testimonianza è stata determinante per far arrestare e condannare l’assassino di don Giuseppe Diana, ma non è stato mai riconosciuto come “testimone di giustizia”. Augusto di Meo, il fotografo amico del sacerdote di Casal di Principe che la mattina del 19 marzo 1994  vide in faccia il killer che sparò cinque colpi di pistola per ammazzare don Diana, ha  citato in giudizio il Ministero dell’Interno per ottenere un riconoscimento che a diciannove anni da quei fatti, non è mai arrivato.  Fu grazie al suo coraggio se gli inquirenti cominciarono da subito la caccia a colui che aveva osato profanare una chiesa con l’uccisione di un prete.  Appena dopo il delitto, Di Meo riconobbe in fotografia la persona che aveva sparato quella mattina: “Si è lui, è Giuseppe Quadrano – disse deciso il fotografo ai carabinieri che lo interrogavano -  è entrato in chiesa e prima di sparare ha chiesto: “Chi è don Peppe?”. Quadrano era uno dei killer del cartello De Falco-Caterino, in guerra contro il gruppo camorristico degli Schiavone-Bidognetti. Di Meo  lo riconobbe anche in Televisione, per la seconda volta, quando lo vide scendere da un aereo che lo riaccompagnava in Italia dopo una breve latitanza in Spagna. Aveva poi confermato la sua versione nel dibattimento processuale fornendo anche molti particolari del killer, contribuendo così a scagionare Vincenzo Verde, accusato dalla stesso Quadrano di essere l’autore materiale dell’omicidio.  “La testimonianza di Augusto Di Meo – dice l’avvocato Alessandro  Marrese, che ha curato il ricorso contro il Ministero dell’Interno  – è stata riconosciuta come fondamentale dalla corte di Cassazione nella sentenza emessa  il 4 marzo del 2004. Grazie a lui la versione fornita dal collaboratore di giustizia, Giuseppe Quadrano, non è stata ritenuta credibile. Quadrano si era prima dichiarato completamente estraneo all’omicidio. In una seconda fase aveva dichiarato di aver partecipato all’organizzazione dell’omicidio, ma sostenendo che l’autore materiale dell’uccisione di don Diana fosse Vincenzo Verde. E, inoltre,  che alla base del delitto vi fosse il mancato funerale in chiesa di un parente dello stesso Quadrano e  il fatto che Don Diana avesse custodito armi per conto del clan De Falco, e consegnate  tre anni prima al clan Schiavone”. Tutto falso. Don Diana fu ucciso perché  - è la motivazione della Cassazione  - “Quella morte appariva come un gesto simbolico e dirompente che avrebbe dovuto accendere la guerra di mafia tra il clan dei casalesi e quello facente capo a De Falco. Una morte simbolica che contemporaneamente costituiva una vendetta personale di Quadrano e un obiettivo per  l’intero gruppo facente capo a De Falco, un’affermazione di potere nel territorio di pertinenza degli Schiavone”.



Augusto di Meo con Emilio Diana
mentre gli consegna il premio "Don Diana"
“Dopo quella testimonianza, Di Meo – continua l’avvocato Marrese - temendo probabili ritorsioni, fu costretto a chiudere  la sua attività di fotografo a Villa di Briano per l’impossibilità di continuare una vita serena. Così si recò in Umbria, insieme con la moglie e i due figli piccoli, dove tentò di trasferire la propria attività di fotografo professionale, ma senza successo. Negli anni passati in Umbria, intanto, ha dovuto attingere a tutti i suoi risparmi per mantenere se stesso e la sua famiglia, maturando anche diversi debiti, perché lo Stato non gli ha mai fornito alcuna protezione, nè lo ha mai aiutato dal punto di vista economico”.  Eppure Augusto Di Meo, oggi 52enne, che è ritornato  da quindici anni a vivere facendo il fotografo nei suoi luoghi di origine, continua a raccontare di quella mattina a centinaia di ragazzi che ogni anno passano nelle “terre di don Diana”, per i campi di lavoro promossi da Libera. Il 30 novembre del 2012 gli è stato assegnato il “premio Nazionale don Giuseppe Diana”, insieme al procuratore della DDA, Federico Cafiero De Raho e al padre comboniano, Giuseppe Zanotelli. “In tanti sanno chi è Augusto il fotografo, a partire dai magistrati che seguirono i caso, i vertici dei carabinieri della provincia di Caserta – afferma ancora l’avvocato Marrese -  ma lo Stato sembra ignorarlo. Ho scritto una prima lettera  alla Commissione Centrale che definisce e applica le misure di protezione presso il Ministero dell’Interno,  il 6 febbraio del 2012. Ho sollecitato una risposta  tre mesi dopo, ma niente. E così il 16 gennaio scorso ho presentato un atto di citazione al tribunale di Napoli contro il Ministero dell’Interno per giudizio che comincerà il prossimo 13 maggio. Di meo e la sua famiglia non possono essere abbandonati così”.