mercoledì 28 agosto 2013

INTERVISTA DELLA FIGLIA DI RIINA AD UNA TV SVIZZERA. FACEVA MEGLIO A STARSENE ZITTA


La figlia di Totò Riina, Lucia, la terzogenita,  in una intervista alla tv svizzera Rts,  dichiara di essere  dispiaciuta per le vittime della mafia, ma di essere onorata di portare il cognome del padre. Un video che ha  già suscitato molte polemiche e, soprattutto le stizzite reazioni della presidente dell’associazione vittime di via Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli.

 «La smetta di rilasciare interviste a tanto il chilo - scrive Maggiani Chelli -, suo padre non ha ucciso qualcuno durante un raptus, ma ha macellato e fatto macellare scientificamente centinaia di poveri cristi che si sono trovati anche solo sulla sua strada come i nostri figli. Inorridisca una buona volta Lucia Riina davanti a tanto sangue innocente versato perché quelle come lei potessero fare la bella vita». «La prossima volta che rilascia una intervista del genere - scrive Maggiani Chelli - penseremo seriamente a cercare la possibilità di querelarla per lesa memoria dei nostri morti torturati e massacrati come cani dal macellaio di via dei Georgofili Salvatore Rina. Inoltre bastano le nostre di televisioni che esaltano i figli dei criminali , non ci si mettano anche quelle svizzere, guardino in casa loro e scopriranno così che capi mafia come Riina Salvatore non ne hanno mai avuti e che non è il caso di dare voce alla loro progenie».

Il commento della sociologa Alessandra Dino. «Nulla di nuovo. Ancora una volta la strategia comunicativa della mafia, e in particolare quella della famiglia Riina, passa attraverso l'utilizzo di rassicuranti figure femminili, come accade in questo caso in cui a parlare è la figlia minore del boss». Così la sociologa Alessandra Dino, docente dell'università di Palermo e autrice di numerosi saggi sul rapporto tra la mafia e le donne, commenta l'intervista rilasciata a una Tv svizzera da Lucia Riina. «Quello che più mi ha colpito - sottolinea la studiosa - è la continuità familiare: nell'intervista in studio Lucia ha la stessa facies, lo stesso look, perfino la stessa pettinatura che aveva la madre, Antonietta Bagarella, quando negli anni '70 fu intervistata dal giornalista Mario Francese, poi ucciso dalla mafia. Ed anche gli argomenti sono gli stessi, come il richiamo alla tradizione cattolica familiare e la difesa del cognome che porta. Insomma, lascia riflettere non poco il fatto che una donna di 32 anni usi gli stessi clichè della madre, a quarant'anni di distanza». Riferendosi infine alla frase di Lucia Riina che si è detta «dispiaciuta» per le vittime di mafia ma «onorata» di portare il cognome del padre, la sociologa osserva: «C'è un corto circuito logico in queste dichiarazioni, un forte distacco emotivo, come se nessuno fosse responsabile della morte di queste persone. Una separazione tra sfera privata e responsabilità pubbliche. Il fatto che Lucia Riina non riesca a condurre una vita 'normale’ non dipende certo dallo Stato ma è legato alla storia della famiglia cui appartiene»

Maria Falcone  - «Provo sconcerto e biasimo per le dichiarazioni di Lucia Riina. Pur rispettando il suo ruolo di figlia e consapevole che le colpe dei padri non possano per nessuna ragione ricadere sui figli, non accetto che una donna cattolica praticante, come lei sottolinea più volte nell'intervista, non prenda le distanze da un padre assassino. Un padre che ha provocato lacrime e dolore disumano alle tante famiglie delle vittime colpite dalla sua efferata violenza e ferocia». Così Maria Falcone, sorella di Giovanni, il giudice antimafia ucciso da Cosa nostra nel 1992, commenta l'intervista rilasciata a una tv svizzera dalla figlia di Totò Riina, Lucia. «Sarebbe stato meglio, per etica, moralità e discrezione verso gli italiani - prosegue -, non sbandierare il proprio 'onorè di portare un cognome tanto scomodo e relegare al proprio privato i sentimenti che si nutrono verso un genitore. Così come è altrettanto grave che per facile audience una tv svizzera si interessi alla figlia di un boss italiano, raccogliendo le sue opinioni su fatti tanto drammatici per la storia del nostro Paese e per le famiglie dei martiri colpiti dalle azioni mafiose ordite dal boss Salvatore Riina».

Sonia Alfano - «Lucia Riina proprio non ce la fa a stare lontana dalle luci della ribalta. È più forte di lei. E non ce la fanno giornali e tv a mantenere la decenza evitando di darle spazio» commenta Sonia Alfano, presidente della Commissione Antimafia Europea. «È francamente esasperante e disgustoso assistere a tale reiterato spettacolino da parte di Lucia Riina: - aggiunge - si dice dispiaciuta per le vittime del padre, ma al contempo orgogliosa del cognome che porta, perché corrisponde alla sua identità. Una contraddizione in termini, senza dubbio. Del resto Lucia Riina non è nuova a queste uscite e da lei non mi aspetto nulla di meglio di quanto fino ad ora fatto (o non fatto) e detto (o non detto)».

«È figlia di uno dei più cruenti mafiosi che la storia ricordi ed orgogliosa di esserlo. - prosegue - Questo, per me, basta a qualificarla. Mi aspetterei però maggiore prudenza e dignità da parte dei media. I familiari delle vittime, loro sì giustamente orgogliosi dei nomi che portano, vengono spesso ignorati. Si riesce a dare maggiore spazio e visibilità ai figli dei mafiosi che ai figli degli eroi civili che i mafiosi li hanno combattuti con coraggio e sprezzo del pericolo, rimettendoci la vita».


Intanto,  è sparito dal sito della tv svizzera TSR il video dell'intervista a Lucia, la figlia di Totò Riina. Lo annuncia Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell' Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. «Ci aspettiamo ora - aggiunge l'associazione - che quanti, nel mondo, hanno in queste ore divulgato il video contenente l'intervista alla figlia del Capo di »Cosa nostra«, facciano altrettanto». «L'enormità della strage di Firenze in via dei Georgofili il 27 Maggio 1993 ha fatto il giro del mondo , perché erano stati colpiti gli Uffizi , ma quella notte morirono sotto 277 chili di tritolo distribuito da Salvatore Riina per salvaguardare i suoi affari e quelli dei suoi eredi, due bambine piccolissime, un ragazzo di venti anni e due giovani di poco più di 30 anni. Va tolta quindi ogni voce ai mafiosi terroristi eversivi del 1993 e ai suoi eredi, a meno che non vogliono verbalizzare ciò che sanno nella procura della Repubblica di Firenze» conclude l'associazione.

martedì 27 agosto 2013

TESTIMONI DI GIUSTIZIA ASSUNTI NELLA P.A. UNA NUOVA BEFFA PER AUGUSTO DI MEO CHE FECE CONDANNARE IL KILLER DI DON DIANA

Augusto Di Meo
“Il Decreto che assume i testimoni di giustizia nella Pubblica Amministrazione? Una buona norma, ma per me sfuma anche questa possibilità di aiuto, perché lo Stato non mi ha mai riconosciuto come testimone di Giustizia”. Augusto Di Meo, il fotografo di Casal di Principe che fece condannare il killer di don Giuseppe Diana, è amareggiato e deluso, perché nonostante la sua testimonianza sia stata determinante ai fini del processo e delle condanne comminate, non è stato mai riconosciuto come “testimone di giustizia”. Ora, con l’approvazione del decreto da parte del governo di norme che prevedono l’assunzione per “chiamata diretta nominativa” e che dovrebbe riguardare circa 80 persone in tutt’Italia, Di Meo rischia di perdere un altro treno che potrebbe contribuire a rendere meno difficoltosa la sua attuale condizione lavorativa e familiare, penalizzata dai problemi derivanti della crisi economica. Augusto Di Meo ha  citato in giudizio il Ministero dell’Interno per ottenere un riconoscimento che a diciannove anni da quei fatti, non è mai arrivato.  Fu grazie al suo coraggio se gli inquirenti cominciarono da subito la caccia a colui che aveva osato profanare una chiesa con l’uccisione di un prete.  Appena dopo il delitto, Di Meo riconobbe in fotografia la persona che aveva sparato quella mattina: “Si è lui, è Giuseppe Quadrano"  disse deciso il fotografo ai carabinieri che lo interrogavano 
Dopo quella testimonianza, Augusto Di Meo,  temendo probabili ritorsioni, fu costretto a chiudere  la sua attività di fotografo a Villa di Briano. Si recò in Umbria, insieme con la moglie e i due figli piccoli, dove tentò di trasferire la propria attività di fotografo professionale, ma senza successo. “Negli anni passati in Umbria – racconta Di Meo -  ho dovuto attingere a tutti i miei risparmi per poter continuare a svolgere la mia attività anche dopo il trasferimento e  mantenere la mia famiglia. Nel frattempo ho maturato anche diversi debiti, perché lo Stato non mi ha mai fornito alcuna protezione, nè mi ha mai aiutato dal punto di vista economico”.  
 
         Di Meo, oggi 52enne,  è ritornato  da quindici anni a vivere facendo il fotografo nei suoi luoghi di origine. La moglie Silvana 55 anni,  insegna nelle scuole materne del Comune di Roma. Tutte le mattine parte da Villa di Briano da casa poco prima delle 5  e torna a sera, poco prima delle 20, con un disagio familiare non indifferente. I figli, Antonio  (laureato in ingegneria) è disoccupato. La ragazza,  Livia Rosa,  è laureata in scienze della formazione ed è anche lei disoccupata. Per di più, Di Meo si trova anche a fronteggiare un forte un debito con Equitalia dovuto proprio al fatto di non aver avuto la possibilità di far fronte a tutte le scadenze economiche perché per anni non ha potuto svolgere pienamente la propria attività.
 Augusto, intanto, continua a raccontare come sono andati i fatti quella mattina del 19 marzo del 1994. Lo fa con  centinaia di ragazzi che passano nelle “terre di don Diana”, per i campi di lavoro promossi da Libera. Per questa sua attività , il 30 novembre del 2012 gli è stato assegnato il “premio Nazionale don Giuseppe Diana”, insieme al procuratore della DDA, Federico Cafiero De Raho e al padre comboniano, Giuseppe Zanotelli.
 
Il suo legale, l’avvocato Alessandro Marrese, per ottenere il riconoscimento da parte dello Stato quale testimone di Giustizia, ha scritto una prima lettera  alla Commissione Centrale che definisce e applica le misure di protezione presso il Ministero dell’Interno,  il 6 febbraio del 2012. Ma non ha ottenuto risposta. Ho sollecitato   tre mesi dopo un nuovo intervento, ma niente. E così il 16 gennaio 2013 ha presentato un atto di citazione al tribunale di Napoli contro il Ministero dell’Interno per un giudizio che è cominciato il 13 maggio, perché Di Meo e la sua famiglia non possono essere abbandonati così.
“Il Ministero dell’Interno si è opposto con motivazioni che se conosciute pubblicamente – spiega l’avvocato Marrese -  sicuramente non invoglierebbero altre persone a testimoniare contro la criminalità organizzata”.
 
La prossima udienza del giudizio contro il Ministero dell’Interno è stata fissata per il mese di dicembre 2013.
“Non mi fermo – dice Augusto con un volto che diventa rosso dalla rabbia – aspetto giustizia. Ho ancora fiducia nello Stato anche perché so che don Diana da lassù non mi abbandonerà”.

LIBERO DI NOME E DI FATTO


L'imprenditore palermitano Libero Grassi
29 Agosto 1991, un killer aspetta sotto casa un imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo. Il killer è Salvatore Madonia. L’imprenditore è Libero Grassi, non un eroe, ma un uomo qualunque, un uomo Libero di nome e di fatto. Anzi, la libertà l'aveva nel dna Libero Grassi. La portava con sé ogni giorno, scolpita in quel nome che i genitori, convinti antifascisti, gli avevano dato in ricordo del sacrificio di Giacomo Matteotti. Libero Grassi, l'imprenditore tessile che disse di no al pizzo, che non si piegò all'imposizione mafiosa, perché, spiegò a Michele Santoro durante una puntata di Samarcanda dell'aprile del 1991, «non mi piace pagare. È una rinuncia alla mia dignità d'imprenditore». La sua impresa, la Sigma, era sana, produceva biancheria intima ed aveva un bilancio in attivo. «La prima volta mi chiesero i soldi per i 'poveri amici carcerati’, i 'picciotti chiusi all'Ucciardone’ - scrive Grassi in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera -. Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: 'Attento al magazzino’, 'Guardati tuo figliò, 'Attento a tè. Il mio interlocutore - racconta - si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli». Libero Grassi denuncia agli investigatori e pubblicamente. Chiede l'aiuto degli altri industriali, cerca solidarietà, sostegno, ma trova silenzio ed indifferenza. Di più ostilità. La mafia non esiste, gli imprenditori siciliani non pagano il pizzo, dice il presidente di Confindustria. Ma lui, quell'uomo austero, convinto sostenitore della libertà d'impresa non ci sta. Non si piega, non accetta, non ammicca.

E la sua ribellione la grida. Forte e chiara perché possa varcare i confini di Palermo e della Sicilia. Prende carta e penna e il 10 gennaio del 1991 scrive al Giornale di Sicilia. È una lettera indirizzata al suo «Caro estortore». «Volevo avvertire il nostro ignoto estortore - dice Libero Grassi - di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al 'Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui». Poche semplici parole, che hanno l'effetto, però, di una deflagrazione. Troppo per Cosa nostra. Un affronto da punire con la morte, perché non sia di esempio ad altri, perché la ribellione non diventi contagiosa. Il 29 agosto del 1991 Salvatore Madonia lo attende sotto casa, in via Alfieri, e lo uccide sparandogli alle spalle. Per quell'omicidio molti anni dopo fu condannato all'ergastolo e, come lui, altri boss del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ad uccidere materialmente Libero Grassi è stata la violenza del piombo mafioso, ma le colpe, le responsabilità di quella tragica morte vanno ricercate altrove: nel silenzio, nell'indifferenza di una città troppo compiacente, abituata a convivere con la prepotenza mafiosa. Una città fragile squassata dall'esempio eversivo della dignità e del rispetto delle regole. Ci sono voluti 13 anni perché Palermo si risvegliasse, perché nascesse il primo comitato antiracket, AddioPizzo, e a distanza di tre anni 'LiberoFuturo’, la prima associazione di imprenditori e liberi professionisti che hanno detto no al pizzo.