sabato 31 dicembre 2011

"PER AMORE DEL MIO POPOLO". DOPO VENT'ANNI IL DOCUMENTO SCRITTO DA DON PEPPINO DIANA E' SEMPRE ATTUALE

A Natale di vent’anni fa, don Giuseppe Diana pubblicava il documento: “Per amore del mio popolo”. La curia di Casal di Principe lo distribuirà il 25 dicembre prossimo al popolo dei fedeli proprio come quel Natale del 1991. Lo farà per riannodare il filo della memoria con un martire della Chiesa, ma anche per indicare una via d’uscita a quanti ancora oggi sono imbrigliati nella rete dell’illegalità e della violenza. Quel documento, che è di un’attualità straordinaria, fu una delle cause della uccisione di don Diana per mano della Camorra, avvenuta il 19 marzo del 1994. Il parroco della chiesa di San Nicola di Bari di Casal di Principe tuonava contro la politica e le sue collusioni con la camorra. Puntava il dito contro la sua chiesa che non parlava con voce chiara. Denunciava la presenza di un’imprenditoria collusa e corrotta. Ma lo faceva quasi in solitudine, in un clima di violenza diffusa che ha prodotto decine e decine di morti. Don Peppino credeva nella “forza della parola”. La usava per spiegare, convincere e disarmare i giovani che erano affascinati dalla violenza camorristica. Alzava la voce per difendere la parte più debole del suo popolo. L’amore per la sua gente e la sofferenza di tante famiglie lo aveva spinto ad uscire dalla sagrestia per cercare di impedire a tanti giovani di percorrere i sentieri che portavano direttamente alla morte. E per questo era diventato il simbolo del riscatto della propria terra. Non glielo hanno perdonato. Ha pagato con la vita il coraggio di ribellarsi.

“La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Scriveva don Diana in quel documento del 1991. Fotografava la vita nelle contrade del suo territorio con una chiarezza unica: “I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”. Conosceva fin troppo bene la sofferenza di tante mamme che temevano di vedere distrutte le vite dei propri figli. Perciò scriveva: “Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra”. Era consapevole che la Chiesa deve svolgere un ruolo di primo piano nel costruire la speranza. Perciò parlò con le parole dei Profeti. Utilizzò le parole di Ezechiele per richiamare la denuncia. Le parole di Isaia per guardare avanti. Le parole di Geremia per richiamare la Giustizia sociale” e la “Genesi” per vivere nella solidarietà.

La politica la metteva sul banco degli accusati: “E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale”. Si appellò soprattutto ai suoi confratelli, ai Cristiani, al popolo di Dio, per aprire un varco nei clan della camorra che nel 1991 apparivano, nonostante le divisioni, come un unico monolite di violenza. Si appellò soprattutto al Popolo di Dio e ai sacerdoti:

“Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. (…) Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

E’ stato ucciso per quello che ha scritto. Ma il suo sangue è stato il seme che ha dato buoni frutti. Ora, il territorio che in tanti conoscevano come il regno della camorra, sta cambiando pelle grazie anche al suo martirio e sta cambiando anche nome: Casal di Principe non è il paese di Sandokan, ma è il paese di don Peppino Diana.

BOSS DELLA MAFIA SI DISSOCIA ED EVITA IL 41BIS. PROTESTANO FAMILIARI VITTIME GEORGOFILI

“Mi dissocio fisicamente e moralmente dalla condotta dell’associazione e dai miei sodali di un tempo”. Il boss di Cosa Nostra, Gaetano Giovanni D'Angelo ha pronunciato queste parole  in video conferenza durante l'udienza del processo "Green Line"  il 17 ottobre scorso in svolgimento a Caltanissetta e gli sono bastate per evitare il carcere duro e l'isolamento previsto dall'art. 41bis riservato ai detenuti perisolosi affiliati alla  criminalità organizzata. La notizia l'ha riportata il 30 dicembre il sito del "Fatto Quotidiano", con un articolo a firma di Giuseppe Pipitone. In cambio della dissociazione, il ministro della Giustizia, Paola Severino, gli ha revocato il regime del carcere duro, dopo il parere favorevole della Dda di Caltanissetta. Il boss era  già stato condannato in primo grado a sei anni e quattro mesi.


Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra familiari delle vittime di Via dei Georgofili, ha commentato duramente la vicenda: “ L’annullamento del carcere duro costituisce un affronto che riteniamo gravissimo ha detto Maggiani Chelli - Vedere accettata  la  dissociazione dalla mafia, uno dei punti cardine del papello di Riina presentato allo Stato nel 1993, in sede di trattativa, con il conseguente passaggio a un regime di carcere normale  è il più bel regalo di Natale che la mafia tutta, anche quella che la notte del 27 maggio 1993 ha massacrato i nostri figli in via dei Georgofili, potesse aspettarsi in questo Natale 2011, durante un governo tecnico. Da questo momento in poi  la mafia potrà sperare davvero in un futuro migliore e tutto questo mentre le nostre vittime non hanno ancora avuto giustizia penale completa.”

Secondo quanto riportato dal sito del Fatto Quotidiano, il suo legale,  l’avvocato Antonio Impellizzeri, dopo la dissociazione del detenuto, ha inoltrato immediatamente istanza al Ministero della Giustizia e alla vigilia di Natale è arrivato il via al trasferimento per D'Angelo.

Nell'articolo si fa anche riferimento alla dissocazione come una delle strategie di Cosa Nostra adottata al solo fine di evitare il carcere duro per i suoi affiliati. Una strategia che Totò Riina, il capo della mafia siciliana, indicò nel suo famoso "Papello".


Ecco il link dov'è possibile leggere l'articolo completo.

DEDICATA AI VIVI

Quelli che sono morti
 di Birago Diop - poeta senegalese
(da Souffles - 1947)


Ascolta più spesso le cose
più che le persone.


La voce del fuoco si intende;
ascolta la voce dell'acqua.
Ascolta nel vento
il cespuglio in singhiozzi:
E' il respiro degli Antenati.


Quelli che sono morti non sono mai andati via
Essi sono qui nell'ombra che si dirada
e nell'ombra che si ispessisce.

I morti non sono sottoterra
essi sono nell'albero che stormisce,
nel bosco che geme
essi sono nell'acqua che scorre,
sono nell'acqua che dorme.

essi sono nella capanna essi sono nella folla,
i morti non sono morti.

Quelli che sono morti non sono andati via,
essi sono nel cuore della donna,
essi sono nel bambino che vagisce
e nel tizzone che brucia.

I morti non sono sottoterra:
essi sono nel fuoco che muore,
essi sono nelle rocce che gemono,
essi sono nelle foreste, sono nella casa,
i morti non sono morti.

NUOVO ANNO NUOVO BLOG

Anno nuovo, veste grafica nuova e anche indiririzzo web nuovo. Dal primo gennaio 2012 ho attivato quest'altro blog: www.dallapartedellevittime.blogspot.com, che per un pò camminerà parallelo all'altro: www.raffaelesardo.blogspot.com. che ha cominciato a dare problemi tecnici di funzionalità. I contenuti saranno sempre gli stessi e riguarderanno le vittime innocenti della criminalità e del terrorismo. E' un lavoro enorme che grazie anche alla Rete, diventa sicuramente più agevole. Ho trovato tante persone che già si occupano di questi temi. E questo è un bene perché è un lavoro collettivo che tiene viva la memoria e in molti casi contribuisce a ricostruirla.  Voglio intanto augurare a tutti i lettori e a familiari delle vittime, un 2012 più sereno e, soprattutto, voglio augurare a tutti quelli che aspettano giustizia per i loro cari che il 2012 sia l'anno buono.

giovedì 29 dicembre 2011

STRAGE TRENO RAPIDO 904. ANTONIO CELARDO: "NON C'E' SEGRETO DI STATO, MA VOGLIAMO APERTURA DEGLI ARCHIVI DEI SERVIZI"

“Per la strage del  treno rapido 904 non è stato mai apposto il Segreto di Stato. Abbiamo chiesto, in generale, che sia tolto laddove è stato posto e che si aprano gli archivi dei servizi segreti, perché riteniamo che la consultazione di atti e documenti ritenuti riservati potrebbero far luce anche sui mandanti della strage del 23 dicembre 1984”. Antonio Celardo, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage del treno rapido 904, fa chiarezza sulle parole echeggiate alla cerimonia per ricordare le vittime della strage  il 23 dicembre scorso, quando anche il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, intervenuto alla manifestazione, aveva chiesto l’abolizione del segreto di Stato. “Il ragionamento che facciamo – afferma Antonio Celardo – è che dietro una strage del genere non ci possono essere solo i manovali che hanno piazzato la bomba. Non si arriva a fare 16  morti e 267 feriti se non si hanno coperture ad un certo livello, soprattutto politiche. Nei processi ci sono state molte lacune. Troppi fatti non esaminati, a partire dell’esplosivo utilizzato che è simile a quello utilizzato per altre stragi. Abbiamo sempre ritenuto che dietro la bomba ci sia un intreccio tra mafia, camorra, servizi segreti, terrorismo nero e politica. La prima sentenza accennava a tutto questo. Ma le altre sentenze non hanno approfondito questo legame. Ad aprile dello scorso anno un avviso di garanzia è stato notificato a Totò Riina, capo della mafia corleonese, da parte dei magistrati della DDA di Napoli, Paolo Itri e Sergio D’Amato, quale mandante della strage. Dopo 27 anni, dunque, si ritorna alle origini. Anche se per arrivare ad un nuovo processo ci vorrà del tempo. Bisognerà stabilire, infatti, anche la competenza territoriale che la Procura di Firenze rivendica per sé, perché la strage si consumò in territorio fiorentino. Ecco, questi elementi, insieme a molti altri, andrebbero analizzati più approfonditamente, andando a scavare anche negli archivi dei servizi segreti, in quelle carte nascoste per anni “negli armadi della vergogna”, nelle carte presentate o occultate per altri processi simili”.

Nel 2007 con la legge n. 124 "Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto" c’è stato un tentativo di modifica al Segreto di Stato, che ha limitato la riservatezza degli atti fino a 30 anni. Questo non aiuta a fare chiarezza? “La strada è quella giusta - aggiunge Celardo – ma mancano ancora i decreti attuativi. Sono passati quattro anni e tutto resta in alto mare. Ci sono arrivate lamentele anche da parte di qualche storico che vorrebbe consultare le carte negli archivi dei servizi. Ma non è riuscito a farlo. Si è ritrovato di fronte a muri di gomma. Senza norme chiare il segreto, anche quando non è apposto ufficialmente, è ancora un dato di fatto”.

GIUSEPPE PIANI, CARABINIERE SCELTO, UCCISO IL 29 DICEMBRE 1967

La storia di Giuseppe Piani, il carabiniere scelto che andò ad arrestare un pregiudicato con la sua Fiat 500, è tratta dal mio libro: "Al di là della notte" ed. Tullio Pironti
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«Vi auguro di trascorrere un buon Natale. Aspettatemi per il capodanno». Come ogni anno, il carabiniere scelto Giuseppe Piani aveva inviato una cartolina di auguri ai suoi anziani genitori. Il capodanno del 1968 lo doveva trascorrere in Sicilia, a Santa Teresa di Riva, in provincia di Messina, nella frazione di Misserio, dov’era nato trentotto anni prima, esattamente il 6 aprile del 1929. Gli piaceva ritornare tra gli aranceti che da bambino aveva attraversato in lungo e in largo sentendo l’inebriante profumo delle zagare che lo avvolgeva tutto intorno. Quel profumo che sentiva uscire dal bouquet della sposa ogni volta che andava a qualche matrimonio di un parente. Il profumo si diffondeva per l’aria circostante fino a creare atmosfere rilassanti. Gli piaceva guardare per ore i mandorli che fioriscono copiosi, anticipando la primavera e disegnando nell’aria nuvole bianche profumate. Gli mancava tutto questo da quando si era arruolato nell’Arma dei Carabinieri. E, ogni volta che poteva, scappava in Sicilia per ubriacarsi di quei profumi che avrebbe portato sempre con sé. In Sicilia, però, non ci sarebbe mai più arrivato. Si era mosso dalla sua isola a diciotto anni per il servizio militare. Dopo, la scelta fu quasi obbligata. Si arruolò nell’Arma dei Carabinieri. Per alcuni anni prestò servizio a Gaeta, poi a Bergamo, a Genova, a Milano, a Salerno e successivamente venne a trasferito a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Qui conobbe una giovane donna, Vittoria Cerrato, che sposò nel 1959. Erano andati ad abitare nella vicina Sarno, in provincia di Salerno e la loro vita, fino a quel momento, era stata quella di una famiglia come tante, che aveva tra le prime preoccupazioni quella di crescere nel migliore dei modi le due figlie nate dal matrimonio, Carmelinda e Antonietta. Il Natale di quell’anno l’avevano passato a casa dei suoceri di Giuseppe Piani. La moglie, Vittoria, stava preparando le valigie per scendere finalmente in Sicilia. L’anno nuovo l’avrebbero festeggiato nella casa paterna. Ma nel giro di qualche ora, tutto sarebbe cambiato nella vita della famiglia di Giuseppe Piani.

Era il 29 dicembre del 1967. In caserma pochi militari. Molti erano in congedo per le festività natalizie. Alle ore 16,30 arriva una telefonata anonima al centralino della caserma e segnala la presenza in una barberia della città di un pregiudicato ricercato: Giuseppe Cosenza. Nei suoi confronti è stato emesso un ordine di carcerazione firmato dal Pretore. Doveva scontare dieci giorni di carcere. Erano giorni di festa e non c’erano disponibili auto di servizio. Diventava complicato arrestare un latitante senza auto. Giuseppe non si perse d’animo. Prese le chiavi della sua Fiat 500 e insieme al suo collega, il brigadiere Antonio Pizzo, entrambi appartenenti alla squadra di polizia giudiziaria della Tenenza di Torre del Greco, si avviò verso la barberia di Leonardo Ascione, dov’era stato segnalato il latitante. Lo trovarono effettivamente all’interno del salone di barbiere. I due carabinieri scesero dall’auto ed entrarono nel salone. «Sei in arresto», disse Giuseppe Piani rivolgendosi a Giuseppe Cosenza che era in attesa di radersi. Il pregiudicato, benché sorpreso, non oppose resistenza. «Va bene. Ma non c’è bisogno delle manette. Andiamo, vengo spontaneamente». Salì nella 500 di Giuseppe Piani (targata SA-106204) nella parte posteriore dell’abitacolo, mentre i due carabinieri erano davanti. Nessuno dei due militari si era accorto, però, che Giuseppe Cosenza aveva nascosto una pistola sotto la giacca. E nessuno dei due provvide a perquisirlo. Pensarono, forse, che una persona che deve scontare solo dieci giorni di carcere non girasse armato, e dunque non valeva la pena ammanettarlo. Fatti pochi metri le loro considerazioni furono smentite dal fatto che il pregiudicato estrasse la pistola dal giubbotto e cominciò a sparare alle spalle dei due carabinieri. Fu una sequenza rapidissima che nessuno si aspettava.

Cinque colpi andarono a segno sul brigadiere Pizzo, mentre Giuseppe Piani, che era alla guida del mezzo, fu colpito da quattro colpi alle spalle. Si accasciò sul manubrio e la piccola utilitaria andò a sbattere vicino al marciapiedi. Giuseppe Piani perse quasi subito conoscenza. I colpi erano stati sparati da distanza ravvicinatissima. Erano andati a segno su organi vitali. Il pregiudicato riesce con la forza ad uscire dall’abitacolo della piccola utilitaria. L’altro militare, Pizzo, benché ferito, esce anche lui fuori dalla cinquecento. Non ce la fa a stare in piedi. Cade faccia a terra, ma riesce ad estrarre la pistola. Spara alcuni colpi che vanno a vuoto. I due carabinieri sono stati beffati. Uno resta a terra ferito, l’altro in macchina. Passeranno alcuni minuti prima che qualcuno si fermi per soccorrerli. È un giovane il primo a fermarsi. Li carica sulla sua auto e si avvia di corsa verso l’ospedale Maresca di Torre del Greco. Ma quella è una corsa vana, perché Giuseppe Piani muore poco dopo per emorragia interna. Il brigadiere Pizzo, invece, ferito alle gambe, all’inguine e alla spalla sinistra, se la caverà. Dell’assassino nessuna traccia. Ma la sua latitanza durerà poco. Viene arrestato dopo pochi giorni proprio dai colleghi di Giuseppe Piani. I carabinieri lo trovano a casa sua, alla periferia di Torre del Greco, il primo dell’anno del 1968. I militari circondano l’abitazione e fanno irruzione con i mitra in casa, mentre Giuseppe Cosenza, dopo aver sparato un colpo di pistola contro i militari, tenta di nascondersi sotto il letto. Processato per direttissima, Cosenza viene condannato all’ergastolo. Saranno i carabinieri della stazione di Santa Teresa di Riva ad avvertire i familiari di Giuseppe Piani della sua morte. Per primo fu avvisato il fratello Edoardo, proprietario di una macelleria nel quartiere Bucalo a Santa Teresa e successivamente assieme si avviarono a Misserio per avvisare l’altro fratello Saro e gli anziani genitori di Giuseppe. Un’altra sorella, Caterina, da qualche anno viveva in Svizzera. All’anziana madre, che era a letto ammalata, in un primo momento non le fu detto niente.

Ai funerali di Stato, che si svolsero prima a Torre del Greco (NA) e poi a Sarno (SA) il 31 dicembre 1967, parteciparono i fratelli, Saro e Edoardo e il padre Graziano. Erano presenti anche le più alte cariche dello Stato. Il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri conferì a Giuseppe Piani la promozione alla memoria al grado di appuntato, concedendo la medaglia d’oro al valor militare «per benemerenza d’istituto» con la seguente motivazione: «Militare di spiccate doti morali, militari e di carattere, dedicava con infaticabile energia, slancio vibrante ed entusiasmo ammirevole tutte le sue possibilità fisiche, morali, intellettuali e professionali, nell’adempimento dei suoi compiti, collaborando con intelligenza ed operosa fedeltà i superiori, offrendosi sempre primo fra tutti e spesso volontariamente con sublime abnegazione, non comune generosità e sprezzo del pericolo nelle operazioni più rischiose, nei servizi di maggiore impegno e di più gravosa esecuzione, mercè la sua fervida, ininterrotta e determinante attività il reparto poteva effettuare l’esecuzione di tutti gli ordini e mandati di cattura perpetui a debellare, in breve, vaste e pericolose organizzazioni delinquenziali operanti nella zona destando l’ammirazione delle popolazioni locali ed il plauso delle autorità».

mercoledì 28 dicembre 2011

SONIA ALFANO VICINA A IGNAZIO CUTRO', TESTIMONE GIUSTIZIA, CHE HA RICEVUTO CARTELLA ESATTORIALE DA 85MILA EURO

Lo Stato deve essere più vicino a chi lo aiuta a sconfiggere la magia. Invece...«Ancora una volta Ignazio Cutrò subisce la scandalosa inefficienza dello Stato italiano. La cartella esattoriale da 85mila euro notificata al testimone di giustizia, infatti, doveva essere bloccata dalla sospensione prefettizia. Purtroppo lo Stato continua a non dare risposte esaurienti a chi ha denunciato e si è ribellato all'oppressione mafiosa mettendo a repentaglio la propria vita, e questo non può certo indurre commercianti e imprenditori a fare la scelta giusta, ovvero denunciare». Così Sonia Alfano, europarlamentare e responsabile nazionale del Dipartimento Antimafia di Italia dei Valori, commenta la vicenda che vede il testimone di giustizia Ignazio Cutrò «in balia di debiti legati alle proprie denunce che hanno fatto condannare la cosca Panepinto a un totale di oltre settant'anni di carcere». «Sono al fianco di Cutrò nella sua battaglia contro Cosa Nostra - prosegue l'europarlamentare - e soprattutto invito le istituzioni a non voltarsi dall'altra parte. Ignazio ha deciso di stare dalla parte dello Stato, dimostrandosi cittadino onesto e coraggioso, e per questo merita rispetto e sostegno. Come può Cutrò pagare i debiti - chiede Alfano - se gli è impedito persino di far ripartire la propria azienda? Lo Stato deve garantire ai testimoni di giustizia non solo la sicurezza personale ma anche la propria gratitudine. Con fatti concreti e massima attenzione su ogni singolo caso», conclude.

venerdì 23 dicembre 2011

STRAGE RAPIDO 904. DE MAGISTRIS: "TOGLIERE SEGRETO DI STATO SULLE STRAGI"

«È una vergogna che ancora oggi in Parlamento non si riesca a trovare un accordo per eliminare il segreto di Stato sulle stragi e sui delitti di mafia». Lo ha dichiarato il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, in occasione della cerimonia in memoria delle vittime della strage del rapido 904, avvenuta il 23 dicembre 1984. Con l'abolizione del segreto di Stato, ha detto de Magistris, «si farebbe luce su tante stragi, da quella del 1984 ad altre successive». Il sindaco di Napoli ha condiviso quindi l'appello lanciato dal palco allestito nella Stazione Centrale di Piazza Garibaldi dal presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage sul rapido 904, Antonio Celardo: «È una battaglia che porto avanti da quando sto in politica e che condividevo quando ero magistrato. Per la magistratura non c'è cosa più odiosa del vedersi porre un muro e un silenzio da parte dello stesso Stato. È una cosa inaccettabile», ha sottolineato de Magistris, ricordando che «nei momenti più bui del nostro Paese ci sono sempre state le mani e le menti raffinatissime di elementi deviati dei servizi e delle istituzioni. È molto importante togliere il segreto di Stato, ci dicono sempre che sono tutti d'accordo ma non lo fanno mai, chiediamoci perchè».

LA QUESTURA DI UDINE RICORDA TRE POLIZIOTTI UCCISI ALL'ANTIVIGILIA DI NATALEDEL 1998

La questura di Udine, per onorare la memoria dei tre agenti di polizia vittime della strage dell'anti vigilia di Natale del 1998, ha deposto una corona alla lapide posta in piazzale D'Annunzio, all'angolo con viale Ungheria. Sempre nella mattinata sarà celebrata una santa messa presso la chiesa del Carmine di via Aquileia, officiata dal cappellano della polizia, don Olivo Bottos. I tre agenti della squadra volante di Udine -Paolo Cragnolino, Adriano Ruttar e Giuseppe Guido Giannier- furono dilaniati da una bomba esplosa all'ingresso di un negozio di telefonia cellulare di viale Ungheria. I tre poliziotti erano accorsi perchè alle 6 del mattino era scattato l'allarme antifurto nel negozio.

giovedì 22 dicembre 2011

PRESENTATO A NAPOLI IL "MEMORIAL VALLEFUOCO" DEDICATO AD ALBERTO VALLEFUOCO, VITTIMA INNOCENTE DI CAMORRA


E' stato presentato oggi a Napoli il primo "Memorial Vallefuoco" il torneo di calcio per bambini dedicato ad Alberto Vallefuoco,  vittima innocente della Camorra. La manifestazione si terrà a Mugnano il 5 gennaio nel rinnovato stadio dedicato proprio ad Alberto.
Alberto Vallefuoco - vogliamo ricordarlo - fu trucidato il 20 luglio 1998  in Via Nazionale delle Puglie a Pomigliano D'Arco, nella zona nord-est di Napoli, insieme ad altri due suoi colleghi di lavoro:  Salvatore De Falco e Rosario Flaminio. Insieme furono ammazzati durante l'ora di spacco, davanti al bar nei pressi del pastificio Russo dove stavano partecipando ad un corso di formazione. Furono scambiati per tre camorristi.
Per questo triplice omicidio sono stati condannati all'ergastolo Modestino Cirella, Giovanni Musone, Pasquale Cirillo, Pasquale Pelliccia e Cuono Piccolo come mandanti ed esecutori.

Al torneo partecipano  dieci squadre della categoria pulcini  provenienti da tutta la regione con l'aggiunta delle giovanili del Foggia. Le partite saranno precedute dalla marcia per la legalità che sfilerà dal Municipio allo stadio. Ad ogni partecipante sarà distribuita una calza dono per l'epifania. La manifestazione sarà a costo zero per il Comune grazie all'ausilio di alcuni sponsor privati ed al contributo dell'Associazione Pol.i.s.

La presentazione è avvenuta nella sede della Fondazione  Pol.i.s. che con Libera ha patrocinato l'iniziativa. Per Enrico Tedesco segretario generale della fondazione "Trovare sulla propria strada Sindaci come quello di Mugnano è per noi una grande fortuna, abbiamo un assoluto bisogno di esempi positivi da propagandare e da veicolare." Con lui anche Geppino Fiorenza referente campano di Libera "Non dobbiamo mai fermarci perché ognuno di noi deve fare la propria parte e nessuno deve sentirsi a posto con la propria coscienza. La camorra la battiamo stando uniti." Proprio sull'importanza di fare squadra si è soffermato Franco Malvano delegato del Presidente della Regione: "E' la rete positiva che sconfigge quella negativa, è la voglia di costruire insieme un muro per la legalità che arginerà i fenomeni mafiosi". Oltre al Sindaco a rappresentare il Comune di Mugnano anche il Presidente del Consiglio Gennaro Mastromo che ha sottolineato come "su questi temi non ci sia maggioranza ed opposizione" e il Presidente della Commissione Sport Nino Porri che ha illustrato come tecnicamente si svolgerà la manifestazione.
"Abbiamo fortemente voluto questo evento perché nelle nostre città devono divenire più famosi gli esempi positivi che quelli negativi, Alberto era un ragazzo per bene è stava uscendo da lavoro quando è stato ucciso, troppo spesso ci si dimentica di quanto male la camorra può fare" ha spiegato il Sindaco Porcelli a cui ha fatto eco il padre di Alberto, Bruno Vallefuoco: "Siamo sulla giusta strada, bisogna raccontare le storie delle vittime, queste iniziative non devono essere episodi ma devono rappresentare lo sforzo che quotidianamente si fa sui territori e che l'Amministrazione di Mugnano sta portando avanti con serietà".


IL 23 DICEMBRE E' L'ANNIVERSARIO DELLA LA STRAGE SUL RAPIDO 904: SEDICI MORTI E 267 FERITI. DOMANI UNA CERIMONIA CHE RICORDA LE VITTIME ALLA STAZIONE DI NAPOLI E A SAN BENEDETTO VAL DI SAMBRO

Domani, 23 dicembre,  è  il 27° anniversario della strage del treno Rapido 904.  In memoria di uno dei più efferati episodi della storia della Repubblica l'Associazione tra i familiari delle vittime della strage sul treno rapido 904 promuove un momento di riflessione presso l'atrio della stazione centrale di Napoli. Alla cerimonia interverrà anche il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris e sarà deposta una corona di fiori al binario 11, da dove partì il treno carico di pendolari napoletani diretti al nord. La strage avvenne poCo dopo le 19 di sera. Il treno era partito da Napoli alle 11,55, del 23 dicembre 1984, destinazione Milano. Ma nella stazione del capoluogo lombardo il rapido 904 non è mai arrivato. Una bomba scoppia nella carrozza n. 9 alle ore 19,08 nella galleria tra Vernio e San Benedetto Val di Sambro. A causare la morte di 16 persone e a il ferimento di altre 267, fu una bomba. Un attentato le cui motivazioni non sono mai state chiarite fino in fondo nonostante i vari processi che ci sono stati in questi anni. Un intreccio tra mafia, poteri occulti e ambienti della destra eversiva che è stata sempre la miscela che ha connotato anche le altre stragi avvenute in Italia. Un attentato. Un intreccio tra mafia, poteri occulti e ambienti della destra eversiva che è stata sempre la miscela che ha connotato anche le altre stragi avvenute in Italia. 

Ad aprile dello scorso i magistrati napoletani della DDA hanno notificato notificato un'ordinanza di custodia cautelare in carcere a Totò Riina per strage. Sarebbe lui il mandante secondo alcuni collaboratori di giustizia che hanno cominciato a squarciare il velo di omertà su quella tragedia. Interrogato l'8 giugno 2010, Brusca ha raccontato: "Quanto alla strage del rapido 904, fin da subito a noi di Cosa nostra fu ben chiaro che si trattava della risposta dell'organizzazione ai mandati di cattura di Falcone e Borsellino del settembre 1984".

A San Benedetto Val di Sambro (BO), teatro della strage, alle ore 11 presso il piazzale della stazione sarà depositata una corona di fiori ai piedi della lapide che ricorda le vittime. Alle 21, presso la Chiesa di San Giorgio Montefredente si svolgerà un concerto gospel.

martedì 20 dicembre 2011

IL GIUDICE CANTONE SCOPRE LAPIDE CHE RICORDA MENA MORLANDO



Ricordata nel pomeriggio a Giugliano Mena Morlando, vittima innocente di camorra. Fu uccisa il 17 dicembre del 1980 perché il boss Francesco Bidognetti si fece scudo del suo corpo durante un conflitto a fuoco con clan rivali, proprio sotto la sua abitazione. Mena, giovane venticinquenne, era scesa per andare in lavanderia. Incappò, invece, nella furia omicida dei clan della camorra che all'epoca si facevano la guerra per spartirsi la torta degli appalti per la ricostruzione delle zone terremotate. A scoprire la lapide che la ricorda, proprio sotto casa sua, in via Monte Sion, oltre alla famiglia, tantissimi giovani delle scuole di Giugliano che sventolavano le bandiere di Libera. Presenti anche Bruno Vallefuoco, del coordinamento dei familiari delle vittime innocenti, Geppino Fiorenza, referente regionale di Libera, i fratelli di Mena,  i ragazzi di "Contro le mafie".A tirare giù il panno che  copriva la lapide, il magistrato Raffaele Cantone, che di  Mena ne ha parlato nei suoi libri. 

Francesco Morlando, uno de fratelli della ragazza uccisa trentuno anni fa,  nel suo breve intervento, si è rivolto, tra l'altro, ai camorristi con queste parole: "Andate via. Liberate queste terre dalla vostra schifosa oppressione. Ridateci la dignità di uomini liberi. Regalate un sogno ai vostri figli perché vivano in pace senza vergognarsi dei loro padri. Il vostro potere è le vostre richezze sono effimere, non vi apparterranno per sempre. Siete destinati, prima o poi, al carcere duo o a essere ammazzati. Ed io vi chiedo: "Ne vale la pena di fare questa vita? Credo proprio di no".

giovedì 15 dicembre 2011

LUIGINO CANGIANO, UCCISO COI SUOI SOGNI A SOLI 10 ANNI

La storia di Luigino Cangiano, ucciso a soli 10  anni, la sera del 15 dicembre 1983, è una di quelle vicende tragiche difficile anche da ascoltare. E quando ti capita di ascoltarla, poi non ci dormi la notte.

La storia di Luigino è tratta dal mio libro "Al di là della notte" ed Tullio Pironti
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«E chi se la scorda più quella sera... Sono passati ventisette anni, ma ho tutto impresso nella mente come se fosse accaduto ieri». Maria Sarnataro, la mamma oramai settantottenne di Luigino Cangiano, capelli bianchi e fisico appesantito, ricorda con lucidità i fatti e i particolari di quella sera. Tira fuori la foto di Luigino da una scatola di latta. È la stessa pubblicata su un giornale dell’epoca. La guarda e dice: «Eccolo qui, vedete?, mio figlio Luigino a dieci anni. È possibile che me lo abbiano ucciso così, senza una ragione?».

Luigino con la scuola non ci andava tanto d’accordo. Per lui era una perdita di tempo. Aveva dieci anni e frequentava ancora la prima elementare. Preferiva scorazzare per il suo popoloso quartiere con altri suoi coetanei. Si sentiva libero, senza vincoli, come un uccellino che vola tra i rami di un albero. La maggior parte del tempo lo impiegava a giocare a pallone con gli amici. Il calcio era la sua passione. Il suo sogno era quello di diventare calciatore e magari giocare proprio nella sua squadra del cuore, il Napoli. Abitava con la famiglia nel popoloso quartiere del rione Siberia, dalle parti di Poggioreale. Un quartiere che poco più di dieci anni fa è stato raso al suolo e gli abitanti trasferiti in case edificate in un altro rione a poche centinaia di metri.

Luigino abitava al primo piano di un casermone grigio, isolato 6. Tutt’intorno fiorivano attività illegali con tanta gente che faceva i mestieri più disparati per “arrangiarsi”, per cercare di arrivare al giorno dopo. La vita da quelle parti non garantiva il futuro, ma solo il giorno per giorno. Luigino era l’ultimo di dodici figli. Nella sua famiglia nessuno era andato a scuola. Solo il primo dei suoi fratelli, Antonio, ventinove anni, aveva fatto la quinta elementare. La mamma, Maria Sarnataro, cinquantadue anni, vendeva bibite e cianfrusaglie a bordo di un furgone. Girava per tutta la città per cercare di vendere la sua mercanzia, accompagnata da altri quattro figli. Il padre, Gennaro Cangiano, cinquantacinque anni, faceva il muratore a giornata presso una ditta impegnata nella ricostruzione del dopo terremoto. La tragedia si consumò quasi alle dieci di sera del 15 dicembre del 1983, quando mancavano pochi giorni al Natale.

Due poliziotti in borghese della sezione narcotici arrivarono nel quartiere a bordo di un’auto civetta. Cercavano spacciatori di droga. Bloccarono due persone in via Cannola al trivio, proprio davanti all’abitazione di Luigino. Gli agenti li perquisirono dopo averli identificati. Gli trovarono addosso quindici dosi di droga e una pistola. I due erano Antonio Cangiano, il primo dei fratelli di Luigino, e Stanislao Spavone, un ragazzo di venti anni. Antonio era disoccupato. Sposato con due figli. L’altro ragazzo, invece, era incensurato.

«Arrivarono all’improvviso», racconta la sua versione dei fatti Antonio Cangiano, oggi cinquantasei anni, mentre sorseggia un caffè nell’abitazione della mamma. «Io ero in auto con Stanislao Spavone, abitava anche lui nel quartiere. Ci fermarono e trovarono della droga nell’auto. Era di Stanislao. Era un forte consumatore, tant’è che è morto proprio di overdose. Io all’epoca facevo furti e altre piccole illegalità per andare avanti. Ma la droga no, non la toccavo. Ci perquisirono e ci diedero tante di quelle botte», dice con linguaggio colorito, «che ancora oggi non me le dimentico. Urlavamo perché il dolore era forte. Le nostre grida si sentivano anche nelle case. All’improvviso, poco più in là, dei ragazzini spararono dei mortaretti.

Mancava poco al Natale e in quel periodo si usava sparare i botti. I poliziotti, evidentemente, si impressionarono perché pensarono a colpi di pistola che qualcuno gli stava sparando contro. Tirarono fuori le armi di ordinanza e cominciarono a sparare a loro volta. Sparavano ad altezza d’uomo nella direzione in cui avevano sentiti i botti. Dal palazzo di fronte risposero al fuoco quando s’accorsero che da sotto c’era qualcuno che sparava contro di loro. All’epoca c’era molta tensione tra il clan della Nuova Famiglia e i cutoliani. I poliziotti erano senza divisa e così si generò un gran casino nato dalla tensione che c’era in giro».


E piange. Piange Maria Sarnataro e non sa darsi pace. Seduta in cucina nella sua casa popolare nel quartiere di Poggioreale, rivive la tragedia con la stessa sofferenza di ventisette anni fa. Le lacrime non si fermano. Urla, come se stesse urlando ai poliziotti. Si accalda. Si deve fermare mentre racconta perché le lacrime prendono il sopravvento. «Luigino era un bambino di cuore. Ogni tanto si presentava a casa con qualche ragazzino della sua età e mi chiedeva: “Mamma, gli dai un cioccolatino anche a lui? Mamma, pettina pure a lui. Mamma, abbraccia pure lui perché la mamma non ce l’ha”». «Guardate, guardate quant’era bello», dice mostrando una foto del ragazzino ucciso. E poi continua il racconto dove l’ha interrotto il figlio Antonio: «Avevamo appena finito di guardare in TV una puntata della telenovela Anche i ricchi piangono. Vennero a chiamarlo due suoi amichetti più piccoli. Abitavamo tutti su uno stesso pianerottolo. Erano case popolari. “Luigino, vuoi venire a comprare i botti?”. Lo lasciai andare con la promessa che sarebbero tornati subito. E mentre stavamo parlando in famiglia di come organizzare il pranzo di Natale, sentimmo delle grida provenire dalla strada: era mio figlio Antonio e l’altro ragazzo che chiedevano aiuto perché i poliziotti li stavano picchiando. La gente del quartiere cominciò a scendere in strada. Mia nuora venne ad avvisarmi per dirmi che i poliziotti avevano preso due persone. Potevano pure evitare di picchiarli nel quartiere davanti ai genitori e agli amici. Credo che sia naturale cercare di difendere il sangue del proprio sangue. Se proprio volete picchiarli, portateli in Questura, lontano da tutti e, come si dice: “Uocchie ca nun vede, core ca nun sente”  (“Occhio che non vede, cuore che non sente”)», cita un proverbio napoletano la signora Sarnataro. «Improvvisamente sentii sparare. Abitavamo al primo piano e i poliziotti erano a poco più di venti metri.

Gli agenti erano accovacciati dietro un muro da dove vedevo piccole fiammate uscire dalle pistole. Pochi attimi dopo vidi un ragazzino si era messo davanti ad altri due bambini per proteggerli dal fuoco delle pistole. Il ragazzino venne colpito. Si aggrappava vicino ad un’auto ma non ce la faceva a restare in piedi e cadeva a terra. Dissi: “Povera la mamma di quel bambino. Chissà chi dovrà piangere”. Maria Sarnataro si ferma ancora una volta. Scoppia in lacrime, abbassa la testa sul tavolo della cucina. Si tiene il petto. Riesce a dire tra le lacrime: «Quella mamma ero io e non lo sapevo». Non ce la fa a continuare il racconto. Il dolore è come se le arrivasse al viso e volesse uscire. La faccia diventa rossa. Prende la foto di Luigino che è sul tavolo della cucina e la guarda. La bacia. E nuovamente le lacrime le solcano il viso. Poi, piano piano, riprende a raccontare: «Uscì anche mio marito Gennaro che mi diceva: “Maria non scendere, è pericoloso”. “Ma lì c’è un bambino a terra, Gennà. L’hanno sparato, io non ce la faccio a stare qui. Devo scendere ad aiutarlo”. I poliziotti gridavano: “Signora, andate via, non scendete”. Ma io scesi con lo sdegno di una mamma, pur non sapendo che il bambino lì a terra era mio figlio. Quando mi resi conto che il corpo era quello di Luigino, mi prese la disperazione. “Figliu mio, figliu mio”, cominciai a gridare. Gli arrivai vicino, ma i poliziotti mi gridavano ancora: “Iatevenne! Iatevenne!”. Io non obbedivo. “Perché me ne devo andare? Lì a terra c’è il mio bambino. Non mi muovo da qui”.

Luigino stringeva ancora tra le mani i botti che poco prima aveva comprato per spararli insieme ai suoi amici. Il suo corpicino era rivolto faccia a terra ma si muoveva ancora. I poliziotti non mi volevano far avvicinare. Lo trattavano come se fosse un cane. Avete mai visto quando un cane viene investito da un’auto in mezzo alla strada?», cerca di spiegare Maria Sarnataro. «C’è sempre qualcuno che lo toglie da lì, lo mette sotto il marciapiede e aspetta che va in putrefazione per pulire tutto. E con mio figlio sembrava stessero facendo la stessa cosa. Ma quello era mio figlio, non era un cane». «Luigino rimase lì a terra inspiegabilmente per alcune ore», ricorda anche Antonio Novelli, classe 1973, coetaneo e amico del piccolo ucciso. «Rammento tutto molto bene di quella sera. Luigino fu sparato sotto il mio balcone. Stava a terra con un lenzuolo addosso, come se fosse morto. I poliziotti non facevano avvicinare nessuno. Poteva essere salvato». «Solo dopo la mezzanotte portammo Luigino in ospedale», riprende a raccontare l’anziana madre. «Lo presi in braccio e salii nell’auto dei poliziotti. Ci dirigemmo verso l’ospedale Don Bosco, al rione Doganella, ma la strada era interrotta. Così andammo verso il Loreto Mare. Mio figlio continuava a perdere sangue. Fu colpito ad un braccio e all’addome. Me lo sentivo morire in braccio. Lo accarezzavo, gli parlavo mentre il sangue continuava a colare sui miei vestiti. Finalmente arrivammo in ospedale, ma fu una corsa inutile. Morì una diecina di minuti dopo il ricovero. Il medico mi disse che era morto dissanguato e che, soccorso in tempo, si poteva salvare».

Ma la notte era ancora lunga. Di quelli che spararono contro gli agenti, nessuna traccia. Tutti scomparsi nel dedalo di abitazioni e strade del quartiere che di sera diventano nascondigli impenetrabili. «I poliziotti andarono casa per casa a fare i rastrellamenti. Sembrava come nelle Quattro giornate di Napoli. Io me li ricordo bene quei giorni», dice la signora Maria con le lacrime agli occhi, «quando i tedeschi giravano di casa in casa. E mi sembrava di vivere le stesse scene di allora».

Maria fu interrogata in Questura, dove c’era l’altro figlio, Antonio, arrestato insieme a Stanislao Spavone. «Mi tennero per molte ore in Questura insieme a mio marito. Prima mi fecero vedere mio figlio, Antonio, con la faccia tumefatta e piena di sangue. L’avevano picchiato. Poi volevano sapere da me chi avesse ucciso mio figlio. “Siete stati voi poliziotti. Siete degli assassini. Siete degli assassini”, gridavo forte. Poi mi calmarono. E uno di loro mi fece questo discorso: “Signora, voi avete un figlio morto e uno in carcere. Cercate di aiutare quello che è ancora vivo, perché per quello morto non c’è più niente da fare. Badate a quello che dichiarate”. Quel poliziotto voleva intendere: “Parlate e non abbiate paura perché se qualche delinquente vi ha pagato per farvi stare zitta e cambiare versione dei fatti, state sbagliando”. Io gli risposi con parole in dialetto napoletano: “I figli nun se venneno e nun s’accattano. ’O sangue è na radice. Comme scorre accussì s’acconcia”. Per dire che nessuno poteva comprare la mia versione dei fatti. Solo una mamma può capire cosa vuol dire perdere un figlio».

La ricostruzione della polizia, anche sulla base della posizione del corpo del ragazzo, aveva avvalorato in un primo momento l’ipotesi che il piccolo fosse stato colpito alle spalle da una pallottola degli sconosciuti che avevano sparato contro gli agenti. Sul luogo dove avvenne la sparatoria furono sequestrati oltre dieci bossoli calibro 7,65 sparati dagli sconosciuti con una mitraglietta. La polizia sparò con pistole calibro 9. «A mio figlio l’hanno ucciso i poliziotti», dice categorica la signora Maria Sarnataro, «e lo portano sulla coscienza. Perché se lo avessero portato prima al pronto soccorso, non sarebbe morto dissanguato». La perizia balistica agli atti del processo ha stabilito che furono i poliziotti a colpire Luigino. Nel giorno dei funerali in chiesa c’era una folla strabocchevole. La mamma, Maria, con il volto pieno di graffi. Se l’era fatti da sola. La disperazione la portava anche a questo. «Non avevamo nemmeno i soldi per fare il funerale», dice la signora Maria. «Dovetti farmi prestare un milione di lire per seppellirlo».

La morte tragica di Luigino scosse tutti. Al funerale parteciparono anche molti agenti della Questura di Napoli. Il quotidiano del Vaticano, «L’Osservatore romano», in un editoriale, il giorno dopo la morte del ragazzo, scriveva: «L’“abitudine” ad avvenimenti come la morte del piccolo Luigi Cangiano, colpito da un proiettile durante una sparatoria tra malviventi e polizia non può impedirci di pensare che in ogni città, in ogni quartiere, a qualunque ora del giorno e della notte tutti hanno diritto di vivere, di camminare, di parlare, di incontrarsi». E ancora: «In questa “abitudine” sta forse la tragedia più grave. E la morte di un ragazzino di dieci anni può forse almeno suonare come un campanello d’allarme per le nostre coscienze».

Luigino Cangiano, dieci anni, ora riposa in una tomba al cimitero di Poggioreale. Con lui, nello stesso loculo, da cinque anni c’è anche il padre, Gennaro. In pochi si ricordano di lui. «Gli amici della scuola popolare che frequentava dal parroco», dice la mamma, «ogni anno il 15 dicembre gli fanno dire una messa. Vengono qui a casa a prendermi e mi portano in chiesa con loro. Apprezzo molto questo gesto. Sono già ventisei anni che fanno questo». Per il resto, Luigino è solo nel ricordo della mamma e dei suoi numerosi fratelli. «Da grande voleva fare il calciatore», dice ancora la signora Maria, «ma quella sera con Luigino hanno ucciso anche i suoi sogni».

martedì 13 dicembre 2011

BENI CONFISCATI AVRANNO NOMI VITTIME INNOCENTI CRIMINALITÀ

'Da mostri a nostri". Si chiama cos' la tre giorni che  ha preso il via questa mattina, presso il Nuovo Palazzo di Giustizia al Centro Direzionale di Napoli. E' una  tre giorni di iniziative sul riutilizzo dei beni confiscati alle mafie promossa dalla Fondazione Polis della Regione Campania, dal Consorzio Sole della Provincia di Napoli e dall'associazione Libera. Dal workshop è venuta fuori la proposta di dare il nome di una vittima innocente della criminalità ad ogni bene confiscato alla camorra. «Dare il nome di una vittima innocente della criminalità ad ogni bene confiscato - ha detto l'assessore Sommese - aumenta il senso di appartenenza alla collettività dei patrimoni sottratti alla criminalità organizzata e rappresenta la conferma che lo Stato può vincere contro la camorra, rendendo ciò che era di un 'mostrò realmente 'nostrò». L'assessore ha rilanciato l'importanza dell'iniziativa 'Facciamo un pacco alla camorrà, oggi presentata al Senato e alla Camera dei Deputati: «Il lavoro delle cooperative giovanili sui terreni confiscati testimonia la presenza in Campania di tante esperienze positive che è giusto far conoscere. Il nostro sostegno alla Fondazione Polis, al Consorzio Sole, a Libera e a tutte le organizzazioni impegnate sul versante della confisca non verrà mai meno perchè il tema del riuso dei beni confiscati è una priorità assoluta della nostra azione di governo», ha concluso Sommese.

lunedì 12 dicembre 2011

A NAPOLI UNA STELE DELLA MEMORIA PER LE VITTIME INNOCENTI

 Una stele per ricordare tutte le vittime innocenti della camorra: si chiama «Spiral of life» ed è stata presentata oggi a Napoli. Situata a pochi passi da piazza del Plebiscito, la stele è opera dell'architetto Andrea De Baggis ed è, come spiegato nel corso della cerimonia promossa da Fondazione Polis, Regione Campania, Comune di Napoli e Libera, «un inno alla vita che si slancia verso il cielo». 'Stele della Memorià è un concorso bandito da Polis, riservato alle persone che non avessero compiuto i 40 anni di età, vinto da de Baggis. «La stele è una testimonianza costante dell'impegno contro la criminalità organizzata - ha affermato il presidente della Giunta regionale Stefano Caldoro - Tra le spese 'non obbligatoriè rientrano anche quelle per la Fondazione Polis, ma non è nostra intenzione sottrarre fondi alle attività che svolge». Per il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, l'opera serve «a tutti per riflettere e ricordare che dobbiamo impegnarci, la memoria serve per combattere». Ed è questo, a suo avviso, il «messaggio» della stele della memoria. La stele è stata benedetta dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, il quale ha sottolineato che l'opera è «la memoria che si fa vita». «La scommessa è far rivivere tutte le persone innocenti uccise dalla camorra - ha commentato Paolo Siani, presidente di Polis - .Un monumento non per uno soltanto, ma per tutte le persone che sono pezzi della nostra città». Il prefetto Andrea De Martino ha rinnovato l'appello all'unità di società civile, istituzioni e forze dell'ordine, contro la criminalità organizzata. «Dobbiamo combattere - ha concluso - contro chi ha mostrato la sua ferocia nei confronti degli innocenti».

venerdì 9 dicembre 2011

PREMIO MARCELLO TORRE - SABATO 10 DICEMBRE, DON CIOTTI, DE MAGISTRIS, PISAPIA E ROMANI

Domani, sabato 10 dicembre, alle ore 9.30, a Pagani (SA), presso l’Aula Magna del Liceo Scientifico “B. Mangino”, avrà luogo il Premio nazionale per l’impegno civile “Marcello Torre”, dedicato al Sindaco ucciso dalla camorra trentuno anni fa. All'incontro pubblico intitolato: “L’Italia Unita contro le mafie. 150 anni di mafia e antimafia”, parteciperanno: Pierpaolo Romani, Coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, don Luigi Ciotti, Presidente di Libera; Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli e Giuliano Pisapia, Sindaco di Milano. Coordinerà il dibattito Riccardo Christian Falcone, Direttore tecnico del Premio Marcello Torre.

martedì 6 dicembre 2011

DARIO SCHERILLO. UN PREMIO GIORNALISTICO PER RICORDARLO A SETTE ANNI DALLA SUA UCCISIONE

Aveva appena lasciato l’Autoscuola che gestiva insieme a i suoi fratelli. Dario Scherillo, 26 anni, un ragazzo solare,  verso le 20 del 6 dicembre del 2004 era salito sul motorino per andare ad incontrare una persona che  frequentava la scuola guida.  Quella sera, però, non sapeva che il motorino lo avrebbe portato ad un altro appuntamento, quello con la morte. Nella vicina Secondigliano, era in atto la faida tra gli uomini del boss Paolo Di Lauro, detto "Ciruzzo 'o milionario” e la cosiddetta “ala scissionista”. Si ammazzavano per il controllo del mercato della droga. Dario incontra il ragazzo che cercava a Casavatore, in via Segrè. Si ferma col suo motorino e cominciano a parlare. Dopo qualche minuto arrivano due persone in moto, con i volti coperti da caschi. Sparano alle spalle di Dario. Senza un motivo. Lo scambiano per un’altra persona. Dario muore in pochi minuti. I familiari lo sapranno da due agenti della polizia che si recheranno a casa per perquisire l’abitazione. Insomma l’ennesima vittima innocente scambiata per un affiliato al clan.
Per ricordare Dario Scherillo l’amministrazione Comunale di Casavatore promuove per oggi 6 dicembre, per il terzo anno consecutivo, il premio giornalistico dedicato al ragazzo ucciso dalla camorra.

venerdì 2 dicembre 2011

ANTONIO CRISTIANO, AGENTE DI CUSTODIA UCCISO IL 2 DICEMBRE 1983

La storia è tratta dal mio libro "al di là della notte", Ed. Tullio Pironti 

Antonio Cristiano stava smontando dal servizio. Aveva fatto due turni consecutivi, rimanendo ininterrottamente nell’infermeria del carcere di Poggioreale dalle due del pomeriggio del 1° dicembre fino alle otto di mattina del giorno dopo. Aveva ventisette anni e un fisico atletico, tanto da potersi permettere di lavorare con un turno così lungo. Faceva l’agente di custodia da sette anni. Prima di essere trasferito a Poggioreale aveva lavorato nel carcere di San Vittore e poi in quello di Foggia. Era sposato da poco più di un anno. A casa, ad Aversa, l’aspettava sua moglie Filomena D’Alessandro, “Mena”, incinta di otto mesi. Doveva partorire una bella bambina, e con i turni di notte e un po’ di straordinario Antonio pensava di avere meno problemi economici quando la famiglia sarebbe cresciuta. Con lui, quella mattina del 2 dicembre del 1983, smontava dal servizio anche Aniello De Cicco, suo amico, di un anno più grande. Erano stati a Foggia insieme e ora anche nel carcere di Poggioreale. Aniello aveva finito il turno la sera prima, ma aveva dormito nel carcere.

Abitava a Trentola Ducenta. Poco dopo le otto e trenta si erano avviati con la Fiat 126 di Antonio verso casa. Da Poggioreale, salendo per corso Malta e la Doganella, poi Secondigliano, il centro di Melito, passando per le colonne di Giugliano e poi, finalmente a casa. Ma quella mattina il destino di Antonio Cristiano e Aniello De Cicco, era segnato. «Il mio superiore», racconta Aniello De Cicco, rovistando nei ricordi di quella mattina di ventisette anni fa, «mi aveva chiesto di fare un altro turno nel pomeriggio. Così, dopo aver completato il turno della notte, decisi di andare a casa per poi ritornare nel pomeriggio. Incrociai Antonio che, come me, aveva appena smontato. Gli chiesi un passaggio. Eravamo compaesani. Tutti e due originari di Trentola Ducenta. Ci conoscevamo bene. Era il periodo natalizio e il corso di Secondigliano e quello di Melito erano già addobbati a festa. La festa mette di buon umore e noi quella mattina lo eravamo, nonostante la stanchezza per la notte appena trascorsa».

La Fiat 126 guidata da Antonio Cristiano procedeva lenta verso casa. Aveva da poco superato Secondigliano, si era immessa sul corso di Melito e il semaforo rosso, quello quasi fuori le colonne di Giugliano, li obbliga a fermarsi. Erano quasi le nove e venti. Da dietro sopraggiunge una Fiat Panda rossa con due persone a bordo. Affianca la Fiat 126. Improvvisamente la persona vicina al conducente estrae la pistola e comincia a sparare. Sono killer della camorra. Contro i due agenti di custodia furono sparati otto colpi di pistola, calibro 7,65. Due proiettili colpirono Antonio Cristiano, altri due colpirono De Cicco, e quattro non raggiunsero alcun bersaglio. Antonio Cristiano fu colpito al cuore. De Cicco, invece, fu colpito da un proiettile sotto la clavicola sinistra interessando anche la regione mammellare destra. Un altro entrò ed usci dal lato superiore di una gamba. Le sue condizioni apparvero gravissime. L’auto dei sicari fuggì in direzione di Aversa. Le indagini sull’agguato, condotte dal capitano De Santis della Compagnia dei carabinieri di Giugliano, ricostruirono subito l’accaduto, anche grazie alla testimonianza di Aniello De Cicco.

«Era il 2 dicembre», riprende a raccontare Aniello De Cicco, «e appena sentii i colpi, pensai fossero mortaretti. Dalle nostri parti nel periodo natalizio è facile imbattersi in ragazzi che sparano tracchi. “Non è ancora presto per cominciare con i botti di Natale?”, dissi rivolto ad Antonio. Ma non finii nemmeno la frase che Antonio si accasciò prima sullo sterzo e poi mi cadde addosso. Vidi il sangue. Capii che ci stavano sparando. Ero armato e istintivamente estrassi la pistola dalla fondina. Stavo per rispondere al fuoco, quando il mio braccio si afflosciò su se stesso. Mi avevano colpito alla spalla ma non sentii nessun dolore particolare. Antonio mi cadde addosso e mi fece abbassare col corpo. Alcuni colpi mi passarono sulla testa. Non so come, ma ebbi la forza di alzarmi, di uscire dall’auto con il sangue che mi scorreva dappertutto. Impugnavo ancora la pistola nonostante non avessi la forza di alzare il braccio e di sparare. Fermai un automobilista alla guida di un Fiorino. Con il suo aiuto tirammo Antonio dalla Fiat 126 e lo caricammo sul suo furgoncino. A tutta velocità ci dirigemmo al pronto soccorso dell’ospedale di Aversa. Antonio era ancora vivo. Respirava, emetteva rantoli. A me zampillava il sangue dalla spalla. Un proiettile mi aveva fatto danni enormi. Per fortuna al pronto soccorso un infermiere mi diede dei punti di sutura. Furono la mia salvezza, perché bloccarono l’emorragia di sangue. Mi trasferirono a Caserta. Ma a Caserta non mi ricoverarono. Mi trasferirono nuovamente. Stavolta al Cardarelli di Napoli. Ci arrivai con l’ambulanza attorno alle quattordici.


L’agguato fu rivendicato nello stesso pomeriggio del 2 dicembre 1983, al centralino del quotidiano «Il Mattino», da una persona che disse di parlare a nome dell’Oca (Organizzazione camorrista armata). «Abbiamo ammazzato una guardia carceraria ad Aversa per gli abusi subiti nei carceri e nei supercarceri specialmente nel braccetto della morte. Seguiranno altri comunicati». Una telefonata ritenuta attendibile dagli investigatori, perché già in passato questa sigla, riconducibile ai gruppi camorristici vicini alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, aveva rivendicato altri omicidi dove era stata utilizzata la stessa tecnica omicida. Nei mesi precedenti erano già stati uccisi diversi agenti di custodia che non si erano piegati alle minacce dei camorristi. Era in atto un’offensiva della criminalità contro gli agenti di custodia che facevano il loro dovere. Il sottosegretario alla giustizia, Antonio Carpino, nel rispondere ad una interrogazione del deputato del Pci Granati Caruso sulla vicenda di Antonio e Aniello, il 10 aprile del 1984, in Commissione Giustizia alla camera dei Deputati, affermò: «Non risulta che il Cristiano e il De Cicco o i loro familiari siano stati in precedenza oggetto di intimidazioni o minacce. Va, tuttavia, rilevato che tutti gli operatori sia civili sia militari della casa circondariale di Poggioreale sono il bersaglio continuo della criminalità organizzata, che si è prefissata l’obiettivo di seminare il terrore tra il personale dell’amministrazione degli istituti di prevenzione e pena, allo scopo di riacquistare, all’interno dell’Istituto, quella supremazia, da tempo perduta, a seguito dell’avvenuto ristabilimento dell’ordine e della disciplina e della sicurezza interni. Il Ministero, per evitare il ripetersi di attentati, ha da tempo impartite precise istruzioni ai propri dipendenti, dotando, altresì, la casa circondariale di Napoli di autovetture e di pulmini blindati. Ha preso, inoltre, contatti con le forze dell’ordine per la protezione personale anche nei comuni di residenza, ove ovviamente non può provvedere direttamente».

«Quella mattina ero preoccupata perché mio marito non tornava ancora dal lavoro. Erano circa le dieci e non avevo sue notizie», racconta la moglie, Filomena, “Mena”, D’Alessandro, «così telefonai al carcere. Ma nessuno mi diceva niente. Il direttore mi disse solo che mio marito aveva avuto un incidente. “Non è nulla di grave. Signora, stia tranquilla”. Ero incinta di mia figlia, all’ottavo mese. Eravamo sposati da due anni. Avevo avuto già due aborti e per questo motivo, per tutto il periodo della gravidanza, stavo a riposo per non rischiare di perdere anche quest’altro bambino. Quando seppi dell’incidente, cominciai a preoccuparmi. Chiamai mia mamma. Fu lei poi a telefonare al carcere. Ma ebbe le stesse notizie. Ritelefonò più tardi e le dissero che Antonio era morto. Si recò in ospedale ad Aversa insieme a mio padre per cercare Antonio. Rintracciarono il suo corpo all’obitorio. Che tragedia», dice Mena scoppiando in lacrime, «il 12 gennaio del 1984 nacque mia figlia. Un parto anticipato e difficile. Il dolore per la morte di mio marito era insopportabile. Tutti mi dicevano di stare tranquilla, di pensare alla bambina che doveva nascere. Ma come potevo farcela? Nella pancia mi sembrava di avere un cavallo. Scalciava che voleva uscire. Il dolore era tanto. A vent’anni si è fragili. Tutta la mia vita era andata in frantumi. I miei sogni svaniti. Non dormivo la notte. Piangevo sempre. Si ruppero le acque anzitempo. Nacque con difficoltà la mia bimba. Stavo rischiando di perderla. Le diedi il nome di mio marito. Si chiama Antonia. Subito dopo il parto caddi in depressione. Il dolore per una morte e la gioia per una vita nuova si mescolavano. Ma il peso di queste due cose mi schiacciava. I miei genitori mi vollero a casa loro. Non potevo farcela da sola con una bambina da crescere e senza più mio marito.

È stata dura, anche se i miei genitori e i miei fratelli non mi hanno fatto mancare niente. Ma mio padre ne ha preso una malattia, come me. Dopo due anni da quella tragedia è morto anche lui. Aveva cinquantacinque anni quando se n’è andato. Non ha retto al dolore perché non riusciva a sopportare la mia sofferenza. Mia madre non si è data per vinta. Mi ha sostenuto, aiutata, nonostante le sue difficoltà. I miei fratelli non hanno fatto mancare il loro affetto a mia figlia. Alla mia bambina, però, ho trasmesso la mia ansia, le mie paure», racconta Mena tra le lacrime che non si fermano, «e la mancanza del padre si è fatta sentire, soprattutto a scuola. Quando tutti i ragazzi scrivevano i pensierini sul papà, mia figlia non sapeva cosa fare. Ci restava male e piangeva. Lei non aveva il papà. Non sapeva che voce avesse. Non conosceva le sue carezze. Non ci aveva mai giocato. L’avevo abituata un po’ alla volta all’assenza del padre. Veniva sempre con me al cimitero a portare i fiori sulla tomba di Antonio. E poi mi vedeva sempre vestita di nero. Portavo il lutto “stretto”, come si faceva qualche anno fa dalle nostre parti. E con il mio volto sempre bianco, sembravo un cadavere. Le persone a me vicine mi dicevano che dovevo vivere, dovevo pensare a me. Ma non mi interessava di farlo. C’è voluto un coraggio sia a mettere che a togliere quei vestiti neri. La mia vita non aveva più un senso».

Mena si ferma. Piange. Non riesce a proseguire. Riprende fiato. «È stata dura anche dal punto di vista economico. Nelle difficoltà sono diventata una donna forte. Solo tre anni fa mia figlia ha potuto beneficiare delle provvidenze che la legge riconosce alle vittime del dovere. Ora lavora nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si è sposata un anno e mezzo fa. Il giorno del matrimonio l’ha accompagnata all’altare il fratello di Antonio. È stato un giorno di gioia e di dolore. Ogni familiare che la vedeva vestita da sposa, nel darle gli auguri non poteva fare a meno di pensare al papà che non c’era più. Sembrava al tempo stesso un matrimonio e un funerale, perché dopo gli auguri tutti scoppiavano a piangere pensando ad Antonio. C’eravamo conosciuti al mare», ricorda ancora singhiozzando Mena, «avevo quindici anni. Ci siamo fidanzati di lì a poco. Lui era già un agente di custodia. Stava a San Vittore. Poi è stato trasferito a Foggia e poi a Napoli. Quattro anni insieme e poi il matrimonio. Ora spero che mia figlia, che ha sposato un bravo ragazzo, si costruisca una vita più serena e che arrivi ad avere un bambino. Per me, ormai, è andata così. Ho bruciato tutte le mie tappe. Me ne sono fatta una ragione. E mi dico: “Il Signore ha voluto così. Questa doveva essere la pagina del destino assegnatomi”. Nel frattempo sono diventata molto più frequentatrice della chiesa. Ma dico sempre al Signore di rendermi giustizia e gli chiedo solo che le persone che hanno ucciso mio marito non devono trovare mai pace. Solo questo».

Antonio Cristiano era nato il 3 febbraio del 1956. È stato riconosciuto «vittima del dovere» ai sensi della Legge 466/1980 dal ministero dell’Interno. All’ingresso del corridoio dell’istituto penitenziario di Napoli Poggioreale è presente una targa in memoria dei caduti del Corpo con il nome dell’agente Antonio Cristiano.


giovedì 1 dicembre 2011

IL PROCESSO PER L'UCCISIONE DI LEA GAROFALO DEVE RIPARTIRE DA ZERO

I giudici della prima corte d'assise di Milano, presieduta da Anna Introini che ha sostituito Filippo Grisolia, diventato capo di gabinetto al ministero della Giustizia, hanno deciso, accogliendo le richieste delle difese, che il processo con al centro la morte di Lea Garofalo, sciolta nell'acido, deve ripartire da zero.

Nel processo, nel quale sono imputati l'ex convivente Carlo Cosco e altre cinque persone vicine alla 'ndrangheta del crotonese, dovranno essere riascoltati tutti i testimoni che erano stati interrogati nelle precedenti udienze, compresa la figlia della donna, Denise. Un caso sul quale si era mobilitato anche il presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, nel tentativo di far sì che il processo potesse proseguire tenendo valide le testimonianze. Le difese, a causa del cambiamento nella composizione della Corte, hanno negato il consenso perchè «il giudice che andrà in camera di consiglio deve essere lo stesso che ha partecipato all'assunzione delle prove».

Il collegio ha accolto la richiesta disponendo di «rinnovare l'attività istruttoria non potendo limitarsi alla lettura delle dichiarazioni rese». Occorre quindi «risentire i testi» per «garantire il rispetto dell'oralità del dibattimento». Il pm Marcello Tatangelo ha già riconvocato in aula i primi testimoni, che verranno ascoltati oggi. È stato sostituito inoltre da un collega uno dei legali degli imputati, Vincenzo Minasi, arrestato in esecuzione di un'ordinanza emessa dal gip di Milano per l'inchiesta della dda contro la cosca dei Valle-Lampada, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreti d'ufficio e intestazione fittizia di beni.

«Speriamo che il Tribunale imponga un ritmo serrato alle udienze, e che entro luglio si arrivi a una sentenza di primo grado». È l'auspicio dei legali delle parti civili,  ascoltando nuovamente i testimoni. Il prossimo luglio scadono i termini di custodia cautelare degli imputati che, se non dovesse intervenire la sentenza di primo grado entro quella data, potrebbero tornare in libertà. «La difesa ha esercitato la sua facoltà - ha spiegato Roberto D'Ippolito, il legale della madre e della sorella di Lea Garofalo - ma purtroppo il rischio concreto è quello che gli imputati tornino in libertà, e su questo bisognerà vigilare. I familiari sono rimasti sconcertati da questa decisione e per Denise tornare in aula sarà una nuova sofferenza - ha continuato - ma hanno reagito tutti con molto vigore». La ragazza, di 19 anni, verrà riascoltata durante una delle prossime udienze, così come gli altri testimoni che hanno già deposto nelle scorse cinque udienze.

SALONE DELLA GIUSTIZIA SI APRE CON RICORDO MAGISTRATI VITTIME TERRORISMO

La terza edizione del Salone della Giustizia  si è aperta alla Nuova Fiera di Roma con la lettura dell'elenco dei nomi dei magistrati vittime del terrorismo e della criminalità organizzata . Il presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli ha scandito i nomi dei giudici uccisi, alla presenza del Guardasigilli Paola Severino in una sala gremita da molti giovani delle scuole romane. Berselli ha espresso apprezzamento per l'intervento del ministro in Commissione al Senato che ha definito «condivisibile e pieno di responsabilità» e ha garantito, nel suo ruolo di presidente della Commissione, «l'impegno per la realizzazione delle riforme possibili, dati i tempi della legislatura». «La riforma della giustizia -ha sottolineato Berselli- non è nè di destra nè di sinistra ma è per i cittadini che si aspettano una giustizia vera in tempi giusti». Prima della cerimonia di inaugurazione il ministro della Giustizia ha fatto un giro negli stand del Salone, accompagnata oltre che dal senatore Berselli, che della manifestazione è l'organizzatore, dal vicepresidente del Csm Michele Vietti, dal capo del Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria Franco Ionta, dal primo presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, e dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito.