mercoledì 27 marzo 2013

MORIRE A 14 ANNI SENZA UN PERCHE'. ANNALISA DURANTE CHE NON RIUSCIVA A FARE A MENO DELLA PIZZA FRITTA

Era il 27 marzo del 2004, un sabato sera, quando una pallottola vagante uccise Annalisa Durante  nei vicoli dell'antica Vicaria, a Forcella  in uno scontro a fuoco tra camorristi. Aveva solo 14 anni. Un mese dopo la sua uccisione ci fu una grande manifestazione che attrversò tutti quei vicoli. C'ero anch'io e raccontai quei momenti con  questo articolo.

"Un giorno diverrò grande. Eppure non riesco a immaginarmi. Forse me ne andrò, forse no. Mi mancherebbero le gite, la pizza che porta papà dopo il lavoro. Adoro la pizza fritta"
(dal Diario di Annalisa)
NAPOLI – Gli occhi di Giovanni Durante, luccicano d’emozione. Non si aspettava che tanta gente venisse a ricordare, dopo un mese, la morte di sua figlia. “Giannino”, come lo ha chiamato confidenzialmente Loigino Giuliano, l’ex boss del rione, è il padre di Annalisa, la ragazza  14enne uccisa la notte del 28 marzo scorso durante una sparatoria a via Vicaria Vecchia, nel quartiere di Forcella. Un mese dopo il quartiere si stringe attorno a lui per una fiaccolata nata da un appello della società civile napoletana. La  gente del rione ha risposto numerosa all’appello lanciato da tante associazioni di volontariato e da personalità della società civile impegnate sul fronte della cultura della legalità e della pace (Alex Zanotelli, Luigi Ciotti, Rita Borsellino, Tonino Palmese, Pasquale Salvio, Gianluca Stendardo, Alfredo Mendia, Sergio D'Angelo, Renato Briganti, Emilio Lupo, Aldo Policastro) e dal comitato “Noi per Forcella”. La protesta è contro la ferocia di una criminalità che non si ferma di fronte  a niente e a nessuno.  Sono arrivati in tanti, da Posillipo a  Capodimonte, dal Vomero a Chiaia, da Secondigliano a Ponticelli, dalla Sanità a Fuorigrotta, per rompere il muro della paura. Al fianco di “Giannino” camminano il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, l’onorevole Alfonso Pecoraro Scanio e padre Alex Zanotelli, dietro uno striscione con la scritta «da Forcella una speranza per tutta la città». Dietro ancora, seguono più di un migliaio di persone. Tanta anche la gente del rione che si accalca dietro le prime file, nonostante poco abituata a frequentare marce e soprattutto a protestare contro la camorra. E’ quella stessa gente che ogni giorno sbarca il lunario con espedienti sempre diversi e che si barcamena tra legalità e illegalità. Che è passata da un’economia illegale, come quella del contrabbando di sigarette, ad un’altra, altrettanto illegale, del pizzo e della droga, sotto “padroni diversi”. Ieri il clan dei Giuliano, oggi quello dei Mozzarella. Ai balconi dei vicoli sono appesi tanti lenzuoli bianchi, in segno di adesione all’iniziativa. Il corteo, che si riunisce a piazza Calenda, vicino allo storico teatro Trianon, tocca il cuore del rione: Via Forcella, Vico Zite, sotto le finestre di Loigino Giuliano, quello che una volte era “ ‘o rre” di Forcella. Tanti restano affacciati dai balconi. In strada la gente del rione fa ala alla fiaccolata che avanza tra saracinesche che vengono abbassate. Nella manifestazione sono tanti i giovani che portano le bandiere per la pace. Si passa in via Duomo, via Vicaria Vecchia, dove venne uccisa Annalisa. Qui suo padre non può fare a meno di piangere.
Mancava il parroco di Forcella, don Luigi Merola

Delusi tutti quelli che si aspettavano in prima fila anche Don Luigi Merola, il trentunenne  parroco di Forcella. L'invito al silenzio del cardinale di Napoli, Michele Giordano, evidentemente aveva centrato l’obiettivo di “calmare” il giovane sacerdote che un mese prima, invece, durante i funerali di Annalisa, aveva incitato i napoletani a ribellarsi alla camorra. “Faccia il prete non il poliziotto”, aveva ammonito il cardinale di Napoli. “Don Luigi non può fare il mestiere degli altri. E’ un ragazzo buono, che ha entusiasmo e  passione, mi lega a lui un rapporto filiale, ho il dovere di guidare i giovani sacerdoti. Ma don Luigi darà un contributo contro l’illegalità, solo nella misura in cui saprà educare i giovani, con un lavoro oscuro, di conversione. Un lavoro che non va sui giornali, è chiaro. Perché il bene non fa rumore. E il rumore non fa bene”.  Un invito che don Luigi, evidentemente, non ha potuto rifiutare, perché, come lui fa sapere: “chi fa  il prete, ha liberamente scelto di fare voto di “povertà, castità e obbedienza”. Il cardinale dice che vuole proteggerlo. Forse è anche così, ma sicuramente Giordano non ama “i preti anticamorra” e ce l’ha soprattutto con i giornali: “Giocano a creare il mito dei preti di frontiera, e non si accorgono di esporre a rischi enormi sacerdoti come don Luigi”. Il Cardinale Giordano, curiosamente, dopo aver chiamato alla mobilitazione gli uomini di Chiesa contro le discariche, ora invoca il silenzio contro la camorra. La Chiesa sembra di aver paura dei suoi esempi più meravigliosi. E tra Fra’ Cristofaro e don Abbondio è sempre pronta a capire le ragioni di quest’ultimo.

 

Le minacce a Don Luigi Merola ora sotto scorta

 

Don Luigi Merola ora è sotto scorta. L’8 aprile scorso il giovane parroco è stato minacciato di morte da due giovani armati, sotto casa sua, a Materdei. Il secondo episodio in pochi giorni, tanto che la Questura napoletana gli assegnerà la protezione di due  poliziotti della squadra dei “Falchi”. Ma ancora il 18 aprile sera, dopo la messa, all’ingresso della parrocchia di San Giorgio ai Mannesi a Forcella, due uomini si avvicinano a don Luigi: “Non abbiate timore, vi accompagnamo noi a casa  che stasera non avete la scorta.” Poco dopo alcuni parrocchiani, visto lo sgomento di don Luigi, che rimane interdetto di fronte a quegli interlocutori che non conosce e che non promettono nulla di buono, si fanno avanti: “Don Luigi state tranquillo, veniamo anche noi,  vi portiamo a casa tutti quanti”. Qualche giorno dopo , il 25 aprile,  viene rafforzata la scorta per don Luigi Merola: un’auto dei carabinieri e tre unità della polizia che lo proteggerà giorno e notte.  Il cardinale Giordano dice di voler difendere don Luigi Merola dalla sua stessa inesperienza, ma alla lunga la sua posizione si mostrerà solo come un tentativo maldestro di  proteggere “la sua Chiesa”, quella che  guarda al mondo esterno “dalla finestra di una grande palazzo”, per usare le parole del francescano Leonard Boff. Don Luigi Merola non è un eroe, e sicuramente non ne ha nessuna voglia di diventarlo. Come non  erano eroi  né don Pugliesi, né don Diana. Anch’essi, nonostante siano stati ammazzati, non avevano nessuna volontà di lasciare anzitempo questo mondo. Avevano scelto di  parlare alle coscienze della loro gente con la forza della parola del Vangelo.  Non sono stati uccisi perché parlavano troppo, ma perché altri stavano zitti. Si sono ritrovati soli, circondati da un silenzio assordante. Così come si sono ritrovati soli Falcone e Borsellino e tanti altri magistrati; così come si era ritrovato solo l’imprenditore Libero Grassi; così come si era ritrovato solo il giornalista Giancarlo Siani. E’ l’isolamento che ti costringe a diventare eroe e poi ti fa morire. Se ci fossero anche altri a denunciare, ad urlare, a fare, a costruire coscienze, nessuno lo diventerebbe, perché tutto rientrerebbe nella normalità di un comportamento quotidiano.  L’esperienza delle associazioni antiracket che Tano Grasso  fa nascere in giro per l’Italia, risponde a questi criteri. E il cardinale Giordano, uomo di grande esperienza, avrebbe  invece fatto bene a consigliare gli altri preti a lanciare lo stesso  messaggio di don Luigi Merola, a parlare allo stesso modo, a chiedere ai cittadini di ribellarsi alla camorra, perché con i seminatori di morte, con quelli che esercitano la sopraffazione e la violenza come comportamento quotidiano, non ci si può convivere.

 

Don Luigi Ciotti: “Il coraggio della denuncia è annunzio di salvezza”.

 

Ma se c'è una chiesa che sceglie il silenzio, c'è un'altra Chiesa che parla, alza la voce e invita a ribellarsi. Padre Alex Zanotelli e don Luigi Ciotti, sono ancora loro, in prima fila, ad alzare la voce, ad assumere il ruolo di quella chiesa profetica che sa costruire le coscienze. Prima dell’inizio della fiaccolata, dopo le canzoni della cantautrice per la pace, Agnese Ginocchio,  è padre Alex Zanotelli che invita a lottare contro “le camorre del mondo”. Alla fine della manifestazione toccherà a don Luigi Ciotti, in arrivo da Roma dalla manifestazione per la liberazione degli ostaggi italiani in Iraq, a scaldare i cuori della gente infreddolita sotto la pioggia. “La libertà di tutti si gioca sul terreno dei diritti sociali. Non potremo liberare gli ostaggi in Iraq se non liberiamo l’Italia dalla mafia e dalla camorra. Questo ci chiede Annalisa. Il coraggio della denuncia è annuncio di salvezza: che i camorristi sappiano tutto questo”. Parole che lasciano intravedere anche una polemica a distanza col cardinale di Napoli che chiede il silenzio ai suoi preti. Ma la parola ha la sua forza, come ben sapeva anche don Giuseppe Diana, un altro prete che ha pagato con la vita la scelta di non tacere. Don diana affermava:  “La Chiesa ha tra le mani uno strumento che Dio le ha consegnato: il Vangelo. E' proprio in nome di questo "lieto annuncio", questa parola di Dio - spada a doppio taglio - che noi dobbiamo "fendere" la gente per  metterla in crisi.”
 

L’appello di “Loigino” Giuliano l’ex padrino di Forcella
Nei giorni immediatamente dopo la morte di Annalisa Durante, arriva, non richiesto, l’appello dell’ex boss del rione Forcella, Loigino Giuliano, che da due anni ha deciso di collaborare la giustizia. «Non fate in modo di essere ancora schiavizzati, vi invito ad andare avanti sino in fondo per battervi contro chi semina paura. Denunziate a voce alta chi vi fa ancora del male. Che fosse un Giuliano, un Misso o un Mazzarella, chiunque è responsabile della morte di quell’angelo di nome Annalisa». Quattro pagine scritte a stampatello e consegnate ai giudici della settima sezione del Tribunale, dove affiora la commozione e lo sdegno per l’uccisione di Annalisa. Loigino chiede alla gente di Forcella di denunciare i responsabili della morte della ragazza, pur sapendo che è coinvolto un suo nipote in questa vicenda, Salvatore, detto "ò montone", accusato di aver essersi fatto scudo col corpo della ragazza per salvarsi da una spedizione di morte di alcuni sicari arrivati a bordo di un motorino. Una “spedizione punitiva” del quartiere aveva tentato di farsi giustizia  immediatamente, picchiando la mamma di Salvatore Giuliano e inondando la sua casa di acqua, non prima di averla distrutta a colpi di bastone. «Vi esorto a dirlo - scrive Giuliano - senza coprire nessuno. Se davvero volete bene a quel fiore spezzato dalla brutalità di chi ha sparato e che ha spento per sempre quel sorriso, andate avanti e assieme alle istituzioni fate in modo da difendere don Luigi Merola, parroco del vostro quartiere, sostenendolo con tutte le vostre forze. Nessuno può mandare via don Luigi Merola dalla casa di Dio». Poi si rivolge al papà di Annalisa: «A te, caro Giannino, esprimo solidarietà dal più profondo del cuore, non arrenderti mai, anche se fosse un tuo fratello non permettere che a Forcella entri più anche un solo camorrista». Quindi l’appello ai «figli di Forcella e di Napoli: «Annalisa dal cielo vi sarà vicino e vi darà una mano in questa vostra lotta. Il nuovo Luigi Giuliano vorrebbe starvi accanto e in prima linea a battermi assieme a voi per il trionfo della giustizia e la legalità: cosa che mi è impossibile, ma il mio cuore è con voi».

 

"NON POSSO PERDERE LA DIGNITA' ". IL 27 MARZO 1981 UCCISI L'AVVOCATO DINO GASSANI E IL SUO ASSISTENTE PINO GRIMALDI

La storia è tratta dal mio libro "al di là della notte", Tullio Pironti editore
 
«Ancora alcuni minuti e scendo. Ho gente di Pagani. Preparati perché dopo andiamo a cena fuori». Erano quasi le otto di sera del 27 marzo 1981, quando l’avvocato Dino Gassani telefona dal suo studio alla moglie, Isa. Lo studio e l’abitazione erano ubicati nello stesso palazzo, a Napoli, al Corso Vittorio Emanuele. Al quarto piano l’abitazione privata e al sesto lo studio. Quella sera lo studio Gassani doveva chiudere prima. L’avvocato aveva deciso di fare una cenetta insieme alla famiglia. La moglie, già pronta per uscire, fece passare una ventina di minuti e poi telefonò al marito. Dall’altro capo del telefono nessuno rispondeva. «Strano», pensò Isa, «c’è anche Pino nello studio con Dino, qualcuno dovrebbe rispondere al telefono». Salì Gino, il secondogenito, a controllare se fosse accaduto qualcosa. Meno di un minuto per fare due rampe di scale. Gino, quindici anni appena, trovò la porta aperta e il padre riverso sulla scrivania in una pozza di sangue. Così anche il corpo del suo segretario, Giuseppe Grimaldi. Sopra la scrivania del padre su un foglio che aveva davanti, c’era scritto: «Non posso perdere ogni dignità». «Mamma, mamma», urlò il ragazzo scappando per le scale, «papà, papà…». Urlava e scendeva, ma non riusciva a farsi capire. La mamma alle urla del ragazzo uscì tutta spaventata. Capì che era successo qualcosa di grave. Ma non immaginava l’omicidio del marito e del suo assistente. L’avvocato Gassani era stato colpito a bruciapelo con due colpi di pistola: uno al cuore ed uno alla tempia.

 

Pino Grimaldi, il suo fidato amico e segretario, fu ucciso con un colpo solo alla fronte. Un’esecuzione. Avevano entrambi cinquantun anni. Pino Grimaldi oltre a essere il suo segretario era considerato uno di famiglia. Era stato nella Polizia di Stato, ma dopo questa breve esperienza diventò l’ombra dell’avvocato Gassani. Diceva spesso: «Io morirò con l’avvocato Gassani». Parole profetiche. Ad ammazzare Gassani e Grimaldi furono due emissari della camorra legata a Raffaele Cutolo. L’avvocato Gassani, originario del Salernitano, difendeva Biagio Garzione, imputato di omicidio volontario insieme a noti esponenti della criminalità vesuviana (Nco), fra i quali il boia delle carceri, Raffaele Catapano. Garzione diventò collaboratore di giustizia e accusò anche Catapano. Fu proprio Catapano ad inviare due emissari nello studio dell’avvocato Gassani per intimargli di convincere Garzione a ritrattare le accuse nei suoi confronti. Quella sera i killer di Catapano avevano l’ordine preciso di convincere a collaborare con le buone o con le cattive l’avvocato Gassani. Si presentarono allo studio come due clienti che gli volevano affidare un importante incarico legale. L’avvocato, che era molto noto nell’ambiente perché da anni difendeva tanti camorristi, capì le loro intenzioni. E mentre questi ancora parlavano e cercavano di convincerlo, lui scrisse di suo pugno su un foglio di carta: «Non posso perdere ogni dignità». Sapeva che, se non avesse accettato, per lui non ci sarebbe stato scampo. Rifiutò di svendere la sua dignità con tutti i rischi che derivavano da quella scelta coraggiosa. A nulla valsero le pesanti minacce fatte per convincerlo. L’avvocato Gassani non fece un passo indietro. Lo ammazzarono a sangue freddo. Il primo colpo fu diretto al cuore. Poi il colpo di grazia alla tempia per finirlo. Senza alcuna pietà. Il suo collaboratore, impietrito, fu ammazzato con un colpo solo alla fronte. Opera di gente abituata ad uccidere.

 

La morte dell’avvocato Gassani colpì molto la comunità salernitana e l’intero agro nocerino-sarnese. Dino Gassani era molto noto nell’ambiente penale. Oltre ad essere un affermato professionista, aveva ricoperto anche la carica di consigliere regionale per ben due legislature. Al figlio primogenito, Gian Ettore, che all’epoca aveva diciotto anni, dopo la morte dell’avvocato Marcello Torre, sindaco di Pagani, avvenuta l’11 dicembre del 1980, aveva confidato: «Capiterà anche a me. È colpa di questo mestiere che faccio». «Pino Grimaldi ci amava come suoi figli», racconta Gino, il più piccolo dei figli, «sembrava un secondo padre e la sua morte è, e sarà sempre un dolore incancellabile per la famiglia Gassani. Lo ricordo con quel sorriso che ti metteva a tuo agio. Ed era sempre disponibile. Pino Grimaldi è stato un martire come mio padre. Morì per difendere papà che non si piegò alle minacce della camorra che lo voleva far desistere dalla difesa di un processo importante. Oggi Dino Gassani è la nostra stella polare, ma insieme a Pino Grimaldi».

 

Il primogenito, Gian Ettore, già affermato penalista e oggi anche matrimonialista, vent’anni dopo troverà la forza di scrivere una lettera al quotidiano «Il Mattino», per ricordare il suo papà.

 

“Vent’anni fa per me si spegneva la luce. Papà veniva ucciso dove sto scrivendo ora. Da allora la mia vita ha avuto un senso relativo. Si dice che il tempo è galantuomo, che la vita continua, che tutto passa. Non è vero. Questa sì che è una bugia del tutto inutile nella quale ogni uomo crede perché non ha altra scelta. Il tempo è un’illusione, un anestetico, che, però, non guarisce le ferite. Tutt’al più le accantona, le nasconde. Ma le ferite sono lì, pronte a risanguinare ogni volta che ci si accorge che il tempo è solo un impostore. Un traditore. Certi dolori sono infiniti come il vero amore. Ero un ragazzo e papà era il mio mito, come dovrebbe essere per ogni figlio. Era circondato da un inspiegabile alone di immortalità. Quando mi dissero che era morto, non ci credevo. Per me non era possibile che lui non potesse più vedere, parlare, respirare. Che potesse finire. E forse non ci credo ancora oggi. La morte di papà la leggo negli occhi di mia madre, come la leggevo negli occhi di mio nonno paterno, fino a quando è sopravvissuto a questa tragedia insopportabile. Fu mio fratello Gino a trovare, quella sera del 27 marzo 1981, papà e il suo fedele segretario, Pino Grimaldi, morti insieme. Non ho mai visto mio padre da morto. Non ce l’ho fatta. Non potevo sopportare di vedere un leone ucciso, inerme, morto in quel modo. Forse sono stato orgoglioso anche in quel momento, condividendo l’antico orgoglio di mio padre che non avrebbe mai voluto che lo vedessi così. Lui era stato il mio gigante buono. Il mio orgoglio supremo per cui nutrivo amore, timore, emulazione. Quante volte avevo tentato, con tutte le mie forze, di renderlo orgoglioso di me; dimostrargli che crescevo e che, un domani, sarei stato il suo sostegno; gli stessi sentimenti che provava mio fratello Gino. Ricordo quand’ero piccolo e la mia mano che si perdeva nella sua. E quel senso di protezione che solo un padre può dare. La mia era una famiglia come tante, con le sue tradizioni, i suoi rituali cristiani. Papà era uno del popolo con la fierezza e la dignità di un re. Oggi è un mito autentico; tutti lo rimpiangono.

 
Al funerale di mio padre e del grande Pino Grimaldi c’era tutta la città. Tutti i giovani delle sue tante battaglie politiche, che lo salutavano piangendo. Avevano perso un mito di mille battaglie. Ricordo gli anziani, le donne, la gente comune, i tanti leali avversari politici, le autorità locali e nazionali, la rabbia e la paura degli avvocati, i mille telegrammi. C’era il popolo e questa era la cosa più importante. Ricordo il silenzio, il dolore composto di tutti, soprattutto quello di mia madre – lei di famiglia ricca – che aveva sposato un giovane anonimo e squattrinato. Papà le aveva promesso la felicità e una famiglia normale. Tutto questo non è stato, ma la mamma lo avrebbe sposato altre mille volte, anche sapendo in partenza a cosa sarebbe andata incontro insieme ai suoi figli. Me lo dice tutti i giorni. Da vent’anni. Poi il processo di chi ha ucciso mio padre, la loro condanna definitiva dopo un estenuante dibattimento. Le nobili ed assurde ragioni della morte di Dino Gassani. E poi la cerimonia del Consiglio dell’Ordine per intitolare l’aula Consiliare a papà. La luce che si era spenta vent’anni fa si è riaccesa quando è nato mio figlio Dino. Lui sa solo che il nonno sta in cielo. Un giorno saprà quali sono le sue radici e la triste ed esaltante storia della sua famiglia. Voglio che creda in tanti ideali e in Dio. Io sono solo un tramite tra lui e il nonno. La vita è davanti a sé. Non la sprecherà. Ho fiducia in lui, come papà l’aveva in me e Gino. Oggi faccio l’avvocato penalista e mia madre non si dà pace. Non capisce o fa finta di non capire il perché abbia fatto questa scelta, perché abbia deciso di difendere ed accusare i camorristi e perché abbia voluto ripercorrere i sentieri di una tragedia in una terra che, a volte, sembra dimenticata da Dio. Ho fatto solo il mio dovere di figlio. Senza calcoli e senza pretese. L’ho fatto per Te, papà. Gian Ettore”.

 A Dino Gassani sono intitolati l’aula consiliare del Comune di Salerno e l’Aula delle Udienze Penali del nuovo Palazzo di Giustizia di Montecorvino Rovella. Il 29 maggio 2009 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha conferito la medaglia d’oro al valor civile all’avvocato Dino Gassani e a Giuseppe Grimaldi, per essersi offerti consapevolmente in olocausto per non tradire la toga e la legge.

 

SIT IN DI AGENTI DEL COISP CONTRO LA MAMMA DI ALDROVANDI. LEI MOSTRA LA FOTO DEL FIGLIO UCCISO


Una cosa inopportuna e gravissima. Stamattina il Coisp, un sindacato di polizia,  ha organizzato a Ferrara, dove svolgeva il congresso dell’organizzazione, un presidio di solidarietà verso gli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, proprio sotto le finestre dell'ufficio della madre Patrizia Moretti. Federico Aldrovandi è il ragazzo morto nel 2005 a Ferrara, a 18 anni, durante un controllo di Polizia. La mamma prima ne ha dato notizia, con tanto di foto su Facebook della manifestazione sotto  il suo ufficio e quindi è scesa in strada mostrando un'immagine del figlio morto. Al sit-in hanno partecipato circa una ventina di agenti: «Sono poliziotti. Sono come quei quattro?», ha scritto la Moretti sul proprio profilo. Una volta che la notizia si è diffusa, è intervenuto anche il sindaco Tiziano Tagliani che ha chiesto ai manifestanti di spostarsi per evitare provocazioni. Ne è nata anche una vivace discussione tra il primo cittadino e l'eurodeputato Potito Salatto che partecipava al sit in con gli agenti.

Quando Patrizia Moretti è scesa in strada con l'immagine del figlio morto, i manifestanti del presidio Coisp si sono girati, le hanno dato le spalle ignorandola e hanno lasciato la piazza. La madre di Federica era accompagnata da due colleghe e avrebbe deciso di lasciare il proprio ufficio (è una dipendente comunale) a seguito del trattamento riservato al sindaco Tiziano Tagliani che aveva tentato di far spostare il sit-in anche per evitare che la stessa Moretti scendesse in strada. «Non avrei voluto farlo perché a me costa moltissimo, ma sono scesa con alcune mie amiche e colleghe e ho mostrato prima alla piazza, poi a loro la foto di Federico. Nessuno di loro mi ha guardata e dopo un pò sono andati via. È stato triste, terribile, doloroso, sono scioccata». «Sapete quanto mi costi vedere e far vedere quella immagine, che mi distrugge profondamente. Però quando è necessario bisogna farlo», ha raccontato la Moretti a 'Radio Città del Capo’. «Non mi hanno mai rivolto lo sguardo - ha aggiunto -. Non mi guardavano nemmeno in faccia si sono girati dall'altra parte e piano piano se ne sono andati», ha proseguito sottolineando: «È stata veramente una provocazione».

“Mai più manifestazioni di questo tipo”. È stata la reazione del sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, al presidio organizzato dal Coisp, regolarmente autorizzato. «Ho chiesto a loro di spostarsi di qualche decina di metri, perché la manifestazione non risultasse provocatoria. Invece sono stato allontanato dalla piazza, nonostante abbia spiegato che la mia richiesta era nell'ottica di salvaguardare rapporti che in questi anni sono stati ripresi con difficoltà», ha spiegato Tagliani, sceso in strada, dopo aver visto che la madre di Federico Aldrovandi stava per fare lo stesso. Tagliani ha avuto un duro scontro verbale con il segretario del Coisp Franco Maccari e soprattutto con l'eurodeputato Potito Salatto. «Credevo di trovare un uditorio più sensibile a quella che è la serenità e il rispetto dell'ordine pubblico», ha proseguito Tagliani, secondo il quale «siccome entrambi mi hanno allontanato dalla piazza, prendo atto che questo sindacato non vuole un processo di rasserenamento a Ferrara su un tema gravissimo». E di questa «indisponibilità», Tagliani ha annunciato che si farà portatore verso Questura e Prefettura. «Manifestazioni di questo genere non si faranno più, perché hanno un tono provocatorio. Fino ad oggi sono stato zitto e sereno, ma vedo che probabilmente sono stato male interpretato».

Le reazioniLuigi Manconi (PD) - «Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso nel 2005 da quattro poliziotti, è stata assolta ieri dall'accusa di diffamazione mossale dal pubblico ministero Maria Emanuela Guerra, che l'aveva denunciata per sue dichiarazione pubblicate sui quotidiani di Ferrara. Nello specifico, Patrizia Moretti disse che il pm Guerra non era andata sul luogo del delitto la mattina dell'omicidio e che nei mesi successivi il pm non si era occupata di fare le dovute indagini. Ora, il tribunale di Mantova ha assolto Patrizia senza nemmeno andare a dibattimento perché il fatto non sussiste e non costituisce reato». Lo afferma il senatore del Partito Democratico, Luigi Manconi in una nota. «A fronte di questo esito positivo, tanto scontato rispetto alla risibilità delle accuse mosse nei confronti della Moretti - sottolinea Manconi - trovo sorprendenti le manifestazioni che da qualche settimana vengono messe in atto dagli appartenenti al sindacato di polizia Coisp per protestare contro la condanna passata in giudicato dei quattro poliziotti responsabili della morte di Federico Aldrovandi». «L'ultima in ordine di tempo - prosegue - è avvenuta questa mattina, convocata davanti agli uffici del Municipio dove Patrizia Moretti lavora. Quest'ultima è scesa in strada portando con sè la foto del figlio con i segni delle violenze subite. È inaccettabile che di fronte a svariate sentenze che hanno stabilito quante e quanto gravi fossero le responsabilità dei condannati, Patrizia Moretti sia ancora costretta a mostrare lo scempio che è stato fatto di Federico per chiedere silenzio e rispetto», conclude l'esponente Pd.

Nichi Vendola (Sel) - «Oggi con un gesto sconsiderato, rinnovato dolore per omicidio Aldrovandi. Oltre ogni limite. Un forte abbraccio a Patrizia e ai suoi familiari». Così Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà, esprime su twitter la propria solidarietà alla mamma del giovane Federico Aldrovandi, sotto il cui ufficio a Ferrara stamani un sindacato di polizia ha organizzato un sit in a sostegno degli agenti condannati per l'omicidio.

Ilaria Cucchi - Un «femminicidio morale». È come definisce quanto accaduto a Ferrara, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto in carcere nel 2009. Parlando all'emittente bolognese 'Radio Città Fujiko’, la Cucchi ha sottolineato: «Stiamo andando oltre ogni limite, oltre ogni umana immaginazione. Tutto deve avere un limite nella vita». E riguardo al presidio Coisp ha aggiunto: «Credo che quelle persone che si trovavano lì sotto a manifestare in difesa dei loro colleghi che sono in carcere perché sono dei criminali, adesso sono esattamente come loro». Quindi ha rivolto un pensiero a Patrizia Moretti: «Mi chiedo quando avrà fine la sofferenza di una donna che è stata così forte e così coraggiosa, nonostante tutto il male subito».


Il centrosinistra regionale ha dimostrato in maniera compatta la propria solidarietà a Patriza Moretti, madre di Federico Aldrovandi, dopo il presidio del Coisp sotto le finestre del suo ufficio, questa mattina a Ferrara. «Siamo tutti Patrizia Moretti», spiega il consigliere regionale Pd Roberto Montanari, per il quale quanto accaduto «riempie di indignazione tutti coloro i quali riconoscono nella madre di Federico una donna che ha legittimamente cercato e trovato giustizia per il proprio figlio ucciso». Occorre ribadire, prosegue Montanari, «che non giova a nessuno il 'muro contro murò» e «che il buon senso e la ragione impongano un passo indietro rispetto ai gesti sbagliati, eclatanti e incomprensibili di cui riferiscono i media in queste ore». Parole simili dal vicepresidente dell'Assemblea Legislativa Sandro Mandini (Idv): «Ferma restando la libertà di opinione di chiunque, che qualcuno abbia solo pensato di manifestare contro di lei è sconcertante e mi auguro che anche il ministro dell'Interno faccia sentire la sua voce su questo». Per la sezione bolognese di Sel, «è stata una manifestazione penosa e indegna, che oltraggia non solo la mamma di Federico cui va tutta la nostra solidarietà, ma anche la magistratura, le istituzioni democratiche e le stesse forze dell'ordine».

Giovanni Paglia (SEL), «La manifestazione inscenata oggi sotto l'ufficio di Patrizia Aldrovandi, madre di Federico Aldrovandi il 18enne ferrarese ucciso nel 2005 da quattro poliziotti, da parte di alcuni aderenti al COISP offende il senso di civiltà del nostro Paese e delle istituzioni, a partire dalla Polizia italiana, che non merita in alcun modo di essere associata a simili manifestazioni». Lo afferma Giovanni Paglia segretario regionale Sel Emilia Romagna. «Voglio esprimere la mia solidarietà a Patrizia Aldrovandi - dice l'esponente di Sel - costretta ancora una volta a rivivere un dolore che è di tutti noi, e ringraziare il sindaco di Ferrara Tagliani per l'intervento e per le sue parole. Chiedo ai ministri Cancellieri e Severino e ai vertici delle forze di polizia di intervenire per stigmatizzare l'accaduto, che non può essere lasciato passare sotto silenzio, come se non bastasse una sentenza passata in giudicato a unire tutti nella condanna degli assassini e nel dolore per la vittima».

Paolo Ferrero (PRC) - «Il vergognoso presidio del Coisp a Ferrara, in solidarietà verso gli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, sotto le finestre dell'ufficio della madre Patrizia Moretti, è un fatto gravissimo». Lo sostiene il leader del Prc Paolo Ferrero. «In primo luogo - aggiunge - questa manifestazione non rispetta l'autonomia della magistratura, che ha sentenziato nei tre gradi di giudizio la colpevolezza degli agenti. In secondo luogo perchè chi ha dato vita a questo indecente sit-in rivendica una delle pagine più buie degli ultimi anni e in ogni caso celebra l'impunità per le forze dell'ordine. Che cosa ha da dire il Ministro degli Interni rispetto a simili manifestazioni incompatibili con l'esercizio di pubblico ufficiale? La nostra solidarietà alla famiglia di Federico Aldrovandi».

Ettore Rosato (PD) - «Una manifestazione intollerabile e di cattivo gusto». Così il deputato democratico Ettore Rosato commenta il presidio del sindacato di polizia Coisp, in solidarietà agli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, sotto le finestre dell'ufficio della madre del giovane ucciso a Ferrara. «Chi veste la divisa lo fa a difesa dei diritti dei cittadini e dovrebbe avere massimo rispetto per il dolore delle vittime e per gli esiti processuali. Per queste ragioni rinnoviamo la nostra vicinanza alla famiglia Aldrovandi».

giovedì 21 marzo 2013

A DONATO CEGLIE, DON MAURIZIO PATRICIELLO E NASSER HIDOURI IL TERZO PREMIO NAZIONALE DON PEPPE DIANA

Il magistrato Donato Ceglie
Il  magistrato Donato Ceglie, il sacerdote don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano e l’Imam Nasser Hidouri, sono le tre persone prescelte per l’assegnazione del terzo premio nazionale don Peppe Diana. La notizia è stata resa nota dalla famiglia del sacerdote ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, il comitato don Peppe Diana e Libera provinciale di Caserta. Il premio, arrivato alla terza edizione, per regolamento viene assegnato il 21 marzo, primo giorno di primavera, che è anche il giorno dei funerali di don Diana.  Il premio consiste in una Vela, versione in miniatura del monumento presente nel Parco cittadino Don Diana di Casal di Principe e opera dell’artista Giusto Baldascino, scomparso qualche mese fa a Casal di Principe.

 Rese note anche le motivazioni  che hanno orientato la scelta per l’assegnazione del premio:

  Donato Ceglie, magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto Procuratore Generale di Napoli, sempre attento alla salvaguardia della memoria di don Diana ed indefesso indagatore contro i reati ambientali. Don Maurizio Patriciello parroco di Caivano nel napoletano e attento a sensibilizzare le istituzioni sul problema del traffico illecito di rifiuti tossici ed industriali  che da anni avvelenano le province di Napoli e di Caserta; Nasser Hidouri, Imam della moschea di San Marcellino, per la sua forte attività interreligiosa ed interculturale aprendosi al dialogo e alla condivisione.


Don Maurizio Patriciello
Assegnate anche tre menzioni speciali: alla prof. Maria Luisa Corso, docente di lettere in una scuola superiore di Casal di Principe e straordinario esempio per le nuove generazioni, a Salvatore Cantone dirigente del movimento antiracket, fortemente impegnato a far conoscere il pensiero di don Diana e ad allargare la rete degli imprenditori che rifiutano di pagare le estorsioni, a Tommaso Cestrone definito ‘l’angelo di Carditello’ per il suo incessante impegno quotidiano a difesa dell’ex casina di caccia dei Borbone.
 

L’anno scorso il Premio fu assegnato al Procuratore Aggiunto Federico Cafiero De Raho della DDA di Napoli, ad  Augusto Di Meo testimone di giustizia dell’omicidio don Diana e a Padre Alex Zanotelli padre comboniano sempre in lotta per i diritti civili, che ha vissuto per 12 anni nella baraccopoli di Korogocho in Kenya. Particolare menzione fu riservata al giornalista Silvestro Montanaro, storica voce dell’informazione libera. La cerimonia per la consegna del premio avverrà nel prossimo mese di luglio, nel corso di una delle del festival dell’impegno civile.



l'Imam Nasser Hidouri

martedì 19 marzo 2013

A MIGLIAIA PER LE STRADE DI CASAL DI PRINCIPE PER RICORDARE DON GIUSEPPE DIANA



“Grazie”. Il foglio con la scritta in stampatello lo mostra dal balcone di casa sua Iolanda di Tella, la mamma di don Giuseppe Diana, mentre alcune migliaia di persone sfilano per via Garibaldi per ricordare il figlio ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994. Non riesce a trattenere le lacrime l’anziana donna mentre dal corteo gridano "Don Peppe è vivo e lotta insieme a noi". Al suo fianco Emilio, l’altro figlio, la sorregge anche lui commosso per la fiumana di gente che sfila. Il corteo, aperto dallo striscione “per amore del mio popolo”, che richiama il documento contro la camorra scritto da don Peppino nel 1991 insieme ad altri sacerdoti della Foranìa, si è avviato poco dopo le 9 dal parco dedicato a don Diana, alla periferia della città, e si è snodato lungo le tortuose vie di Casal di Principe. A sorreggere lo striscione il figlio di Domenico Noviello, Massimiliano, il figlio di Antonio Di Bona, Salvatore, il marito di Silvia Ruotolo e numerosi altri familiari di vittime innocenti della criminalità. Tra loro anche don Luigi Ciotti, il presidente dell’associazione Libera. A seguire decine di scuole, medie e superiori, provenienti da tutta la regione. “I casalesi onesti siamo noi”, cantavano tanti ragazzi accompagnati dai loro professori. Un ritornello che ad un certo punto ha pervaso l’intero corteo. Quando la testa del lungo serpentone è arrivata nei pressi della scuola elementare e materna dedicata proprio a don Diana, i bambini che erano in classe, sono usciti tutti, accompagnati dalle maestre, per parlare con don Luigi Ciotti. Il presidente di Libera non si è sottratto. Si è accovacciato tra loro chiedendo se conoscevano Don Peppino. “Si, era un sacerdote di Casale che lottava contro la camorra” ha risposto decisa una bambina. “Ecco, noi siamo qui per lui, ma anche per voi che siete così piccoli”.Poco dopo l’abbraccio tra don Ciotti e la mamma di Don Diana. Iolanda di Tella piange.“Non mi passa, non mi passa – dice stringendo don Ciotti – è più forte di me. Più passano gli anni e più il dolore è non riesco a sopportarlo”.
 
Il corteo è arrivato poi nella chiesa di San Nicola di Bari, dove quella mattina di 19 anni fa don Peppino fu ucciso alle 7,30 con quattro colpi di pistola. La chiesa, pur grande, non riesce a contenere tutti. Si riempiono le tre file di banchi, le navate laterali, i corridoi centrali. I ragazzi si siedono a terra, altri non riescono ad entrare. Gli organizzatori l’avevano previsto. Ci sono altoparlanti anche fuori la chiesa. Alcune centinaia di persone restano sul sagrato. “Benvenuti nelle terre di don Peppe Diana - dice dal microfono Salvatore Cuoci, che presenta la manifestazione a nome di Libera e del Comitato don Diana - la presenza di così tanti giovani a Casal di Principe, annuncia due giorni prima l’arrivo della primavera. Dietro di me – dice Cuoci – ci sono quattro sedie vuote. Rappresentano quattro persone insignite dalla medaglia d’oro al valore civile: Don Giuseppe Diana, Mimmo Noviello, Federico del Prete e Joseph Aiymbora e che hanno dato la vita. Noi vogliamo ricordarli così.

“Don Peppino oggi è contento della vostra presenza - ha detto il parroco della chiesa di San Nicola di Bari, don Franco Picone – lui ha amato questa terra a tal punto che ha dato la vita per il suo popolo. Mi auguro che in ogni parte del mondo ci siano persone che possano amare la propria terra come l’ha amata don Peppino”. E Silvana Riccio, commissario straordinario del Comune di Casal di Principe, si è impegnata a intitolare la sala consiliare a don Giuseppe Diana. La proiezione del filmato “Da terra di camorra terra di don Diana”, che racconta di don Peppino e di cosa è accaduto dopo la sua morte, ha strappato un lungo applauso. Poi i ragazzi hanno parlato loro. Come sanno fare: con canti poesie, letture, pensieri. Dopo gli interventi previsti dei due magistrati Raffaello Magi e Federico Cafiero de Raho, don Luigi Ciotti ha chiuso la mattinata. "Don Peppino ha amato la sua gente e si è battuto per saldare la terra con il cielo. Soprattutto si è battuto per la dignità e i diritti delle persone. Ha parlato chiaro, come dice il Vangelo, ha chiamato per nome il male. Il suo messaggio è ancora attuale e come diceva lui, bisogna risalire sui tetti per annunciare parole di vita. La memoria da sola non basta - ha detto don ciotti - per ricordare don Peppino". Ci vuole soprattutto impegno .

Ora il popolo delle terre di don Peppe Diana, si aspetta passi concreti per la sua beatificazione. Lo sa bene il Vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, che ha previsto un incontro nel pomeriggio tra Monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di beatificazione di don Pino Puglisi, e Donato Ceglie, magistrato presso la Procura generale della Repubblica di Napoli e amico di don Diana. Ancora don Ciotti: “Se lo fa beato anche la chiesa è un di più – dice don Luigi – per noi don Peppino Diana è già santo”. Ma a battere su questo nervo scoperto della Chiesa è stato don Antonio Riboldi, vescovo emerito di Acerra: "Non capisco il silenzio della Chiesa su don Giuseppe Diana. Mentre si è impegnati a sottolineare l'opera, sicuramente meritoria, di altri parroci vittime della mafia, come padre Pino Puglisi, per il quale appare avviato il percorso verso la beatificazione, avverto un imbarazzante silenzio su don Diana”. Una polemica rispedita al mittente dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo che in serata a Casal di Principe, nel corso di una discussione  tra Monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di beatificazione di don Pino Puglisi, e Donato Ceglie, magistrato presso la Procura generale della Repubblica di Napoli  ha detto: “Don Riboldi evidentemente è male informato. Non conosce tutte le iniziative che abbiamo messo in campo per don Diana”.

sabato 16 marzo 2013

CENTINAIA DI PERSONE IN VISITA ALLA TOMBA DI DON GIUSEPPE DIANA NEL CIMITERO DI CASAL DI PRINCIPE


E’ una processione continua nel cimitero di Casal di Principe. Da alcuni giorni arrivano autobus da ogni parte d’Italia per visitare il luogo dov’è sepolto don Giuseppe Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994. Stamane è toccata ad una folta delegazione di ragazzi di un liceo scientifico di Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo.  Sono arrivati con due autobus dopo qualche giorno di permanenza a Scampia, nel centro di don Aniello Manganiello che è arrivato insieme a loro a Casal di Principe. Con i ragazzi, oltre ad alcuni loro insegnanti, anche  il sindaco di Scanzorosciate (BG),  Massimiliano Alborghetti e  una rappresentanza del Comitato per la difesa della Costituzione di Bergamo. Ad accogliere gli studenti  c’erano i due fratelli di don Peppe, Emilio e Marisa, Renato Natale, presidente dell’associazione “Jerry Masslo”, don Carlo Aversano, parroco della chiesa del santissimo Salvatore, Augusto Di Meo, il fotografo amico di don Peppe che testimoniò nel processo contro gli assassini del prete casalese.
 
E’ toccato a Renato Natale, sindaco  di Casal di Principe nel marzo del 1994, spiegare ai ragazzi cosa è avvenuto con la morte di don Diana. Di come le persone hanno resistito alla camorra e di come ora si sta trasformando Casal di Principe, grazie anche ai molti colpi che la magistratura ha inferto ai clan.  “La strada è ancora lunga – ha spiegato Natale – per affrancarci dai danni che ha prodotto la camorra. Ma quella che stiamo percorrendo credo sia quella giusta. La vostra presenza qui  ne è la testimonianza diretta”. Augusto di Meo ha ricordato quella mattina del 19 marzo di diciannove anni fa. Un racconto ascoltato tante volte, ma che suscita sempre la stessa emozione. Don Carlo Aversano, che sottoscrisse insieme a don Peppe il documento "Per amore del mio popolo", ha ricordato, invece, che il paese sta cambiando, lentamente, e che potrà cambiare ulteriormente con l'amore in Cristo.
 

“Fin da bambino non pensavo che la mafia, la camorra, fosse vicino a noi. Mi dicevano che riguardava solo il sud – ha detto uno dei ragazzi  bergamaschi – ma mi sbagliavo. Voglio ringraziare tutti voi -  ha aggiunto rivolgendosi ai presenti – perché vi state rialzando e ci state facendo rialzare”. “Siamo arrivati qui – ha spiegato uno degli insegnanti che accompagnava gli studenti – perché tre anni fa abbiamo cominciato un percorso per scoprire il senso di alcune parole. Le parole erano: memoria e impegno. Quest’anno abbiamo aggiunto un’altra parola: “saperi”. Per sapere da che parte stare. E abbiamo scelto di stare dalla parte della Costituzione e ci siamo posti l’obiettivo di andare a conoscere di persona le storie di persone e di luoghi che nei libri di storia non compaiono”.  “Sentire ragazzi che citano la Costituzione e vedere persone che in queste  terre la praticano è molto di conforto” ha detto Annalisa Zaccarelli, del  Comitato per la difesa della Costituzione di Bergamo.
 
I ragazzi prima di proseguire il loro viaggio per Sessa Aurunca, per raggiungere un altro bene confiscato dove ha sede la cooperativa “Al di la dei sogni”, sono voluti entrare ad uno ad uno nella cappella dove c’è la tomba di don Peppe Diana per  un attimo di raccoglimento davanti alle spoglie di colui che è diventato, suo malgrado, uno dei simboli della lotta contro la camorra. Un simbolo che però stenta ancora ad affermarsi proprio a Casal di Principe, dove la dirigente scolastica dell’Itc “Guido Carli”, ha pensato bene di non far partecipare i suoi alunni alla manifestazione in ricordo di don Diana prevista per martedì 19 marzo.

venerdì 15 marzo 2013

LE INIZIATIVE PER RICORDARE DON GIUSEPPE DIANA IL 19 MARZO PROSSIMO

“I giovani si raccontano”  a Casal di Principe, il 19 marzo, nel giorno del diciannovesimo anniversario dell’uccisione di don Giuseppe Diana. E’ l’appuntamento promosso dal Comitato don Peppe Diana per ricordare il sacerdote ucciso dalla camorra 19 anni fa, nel giorno del suo onomastico.  Sono attesi alcune migliaia di studenti dal tutta la regione Campania nel giorno del ricordo di una vittima innocente della criminalità L’appuntamento per tutti è alle 9,30 presso il Parco don Diana, all’ingresso della città, per poi raggiungere in corteo la parrocchia di San Nicola di Bari, quella in cui era parroco don diana e un killer della camorra lo ammazzò con quattro colpi di pistola mentre si preparava per celebrare la messa. Con gli studenti si confronteranno due magistrati, Raffaello Magi, estensore della sentenza di promo grado del processo “Spartacus” in cui furono condannati all’ergastolo i capi della camorra di Casal di Principe e Federico Cafiero De Raho,  che a giorni lascerà la Dda di Napoli per il suo nuovo incarico a capo della Procura di Reggio Calabria. Dopo il confronto sarà proiettato un video che racconta di come dopo la morte del sacerdote, le terre di camorra si stanno trasformano nelle “terre di don Diana”.

Saranno presenti anche molti i familiari di vittime innocenti di camorra, insieme ad Augusto Di Meo, testimone dell’omicidio don Diana., che aspetta ancora di essere riconosciuto dallo Stato come   testimone di giustizia.  Iniziative per ricordare don Diana sono previste anche nel pomeriggio del 19 marzo. Stavolta a promuoverle è la Diocesi di Aversa, ma la location è sempre la parrocchia di San Nicola di Bari di casal di Principe. Alle 17 il vescovo di Aversa celebrerà una messa  per ricordare don Diana, insieme a tutti i sacerdoti della Foranìa. A seguire è prevista una conversazione “sul valore della testimonianza di vita come autentica forza di orientamento e di proposta di cambiamento e di crescita per la vita dell’umanità”.

Condurranno la riflessione Monsignor Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di Beatificazione di Don Pino Puglisi, insieme a Donato Ceglie, magistrato presso la Procura Generale della Repubblica di Napoli e amico di don Diana. Il 19 marzo, sempre per ricordare don Diana,  son previste iniziative anche a Mondragone, Santa Maria Capua Vetere, Portici, Pomigliano D’Arco e Benevento.
Il 21 marzo, inoltre, il Comitato don Diana, Libera Caserta e la famiglia di don Giuseppe Diana, annunceranno i nomi dei vincitori della quarta edizione del “Premio nazionale don Diana”.

mercoledì 13 marzo 2013

ARRESTATO IL KILLER DI LINO ROMANO

L’hanno preso. Il presunto esecutore materiale dell'omicidio di Lino Romano, 30 anni, ucciso per errore in un agguato di camorra il 16 ottobre, a Napoli, è stato arrestato dai Carabinieri nel capoluogo campano. Si tratta di Salvatore Baldassarre, 30 anni, ritenuto affiliato al clan “Abete-Abbinante-Notturno”. È stato bloccato a Marano ed era armato.

Baldassarre è stato individuato e arrestato dai Carabinieri del nucleo investigativo di Napoli in un appartamento dove secondo le indagini si era nascosto per sfuggire alle ricerche. Al momento dell'arresto - si è saputo dai Carabinieri - Baldassarre era armato di semiautomatica e in possesso di documenti falsi. L'agguato - secondo le indagini dei Carabinieri - fu organizzato e messo in atto nell'ambito dei contrasti fra il clan camorristico degli “Abete-Abbinante-Notturno”, al quale secondo gli investigatori apparteneva Baldassarre, e il gruppo della cosiddetta “Vanella Grassi”, per il controllo sulle piazze di spaccio nella zona Nord di Napoli.

Lino Romano era appena uscito da casa della fidanzata per andare a giocare a calcetto quando i sicari lo scambiarono per un'altra persona, vero obiettivo dell'agguato. Baldassarre viene ritenuto dai carabinieri del comando provinciale di Napoli un affiliato al clan “Abete-Abbinante-Notturno”, detto degli “scissionisti”, da oltre un anno e mezzo in guerra con la cosca dei “girati”. Le due bande sono in guerra per il controllo delle piazze di spaccio a Scampia e Secondigliano. Subito dopo l'agguato altri tra mandanti e partecipanti al raid erano già stati arrestati, mancava solo l'esecutore materiale, il killer che sparò una pioggia di proiettili su Lino Romano, un bravo ragazzo che nulla aveva mai avuto a che vedere con la camorra. Ora nella rete dei carabinieri è caduto anche lui.

“Io quando poi inizio a sparare non mi fermo più»: così Salvatore Baldassarre, l'uomo arrestato dai Carabinieri con l'accusa di aver ucciso per errore, con 14 colpi di pistola, in un agguato di camorra, Pasquale Romano, spiegò a un altro affiliato al gruppo degli scissionisti, Carmine Annunziata, il clamoroso errore di persona costato la vita al giovane innocente.

A riferirlo ai pm di Napoli Sergio Amato ed Enrica Parascandolo è stato lo stesso Carmine Annunziata, in uno dei suoi primi interrogatori dopo la decisione di collaborare con la giustizia. Pasquale Romano, 30 anni, residente a Cardito (Napoli), un giovane stimato da tutti, fu ucciso nel quartiere napoletano di Marianella per un «sms» non arrivato in tempo che avrebbe dovuto mandare una donna assoldata dai sicari. Lino era andato a trovare la sua fidanzata ed era appena uscito dalla palazzina dove abita la ragazza con la sua famiglia. I killer lo scambiarono con la vittima designata e non esitarono a far fuoco uccidendolo con 14 colpi di pistola. La svolta nelle indagini è arrivata il 28 novembre scorso quando Carabinieri e Polizia hanno fermato uno dei presunti assassini, Giovanni Marino. Agli investigatori qualche giorno prima si era però presentata una donna, la zia della fidanzata di un piccolo pregiudicato del quartiere, che avrebbe dovuto mandare un sms ai killer per farli entrare in azione spiegando quanto era accaduto quella sera. I sicari non attesero quel messaggio che avrebbe dovuto segnalare l'arrivo del vero bersaglio, designato nell'ambito della «guerra» per il controllo delle piazze dello spaccio della droga facendo fuoco su Lino Romano che per caso si era trovato in quel momento nel luogo dell'agguato.

Per il comandante provinciale di Napoli dei Carabinieri, colonnello Marco Minicucci, «l'arresto da parte dei Carabinieri di Napoli di Salvatore Baldassarre, componente del gruppo di fuoco del clan Abete-Abbinante, non potrà colmare il vuoto lasciato dal povero Lino Romano, barbaramente ucciso senza colpe nella sera del 16 ottobre dello scorso anno con 14 colpi di pistola. Ma catturare colui che è indicato quale esecutore materiale di questo efferato delitto - aggiunge Minicucci - è far vincere la giustizia, è sottolineare con i fatti il forte impegno profuso dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia per contrastare l'espansione dei clan, in lotta tra loro». «Questo risultato, frutto del sacrificio e della forte determinazione dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli - continua Minicucci - si inserisce a pieno titolo nel cosiddetto 'sistema Scampià avviato nell'estate del 2012 per frenare l'escalation di omicidi che ha interessato l'area nord di Napoli. Un'operazione ad alto impatto che vede tuttora Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza, opportunamente rinforzati con circa 400 unità messe a disposizione dal Ministero dell'Interno, esercitare un controllo del territorio assiduo e costante sull'area di Scampia e Secondigliano, senza tralasciare - conclude Minicucci - le altre aree sensibili del territorio».

sabato 9 marzo 2013

NDRANGHETA: LA SORELLA DI LEA GAROFALO,LEI GRANDE ESEMPIO LEGALITÀ


«Lei è stata un grande esempio di giustizia e legalità. Voleva solo vivere onestamente, voleva lavorare e guadagnare, voleva spendere i suoi soldi sudati». Così Marisa Garofalo, sorella della collaboratrice di giustizia uccisa dalla Ndrangheta in Lombardia nel 2009, ha ricordato Lea Garofalo intervenendo, a Campobasso, alla presentazione del libro dedicato a questa dolorosa vicenda, libro scritto dal giornalista Paolo De Chiara. «Un esempio – ha proseguito - che lei ha trasmesso anche alla figlia Denise, una ragazza che adesso si trova nel programma di protezione per aver denunciato gli assassini della mamma. Anche lei ha fatto una scelta molto difficile perché non è facile vivere in un programma di protezione a 20 anni, soprattutto se consideriamo che Denise già per altri sette lunghi anni aveva vissuto in un altro programma di protezione e le era stata negata l'adolescenza, l'infanzia. Adesso le viene negata anche la gioventù perché Denise non può fare le cose che fanno i ragazzi di 20 anni, come andare a scuola, divertirsi, innamorarsi. Però ha scelto questa strada – ha concluso Marisa, la sorella di Lea Garofalo - perché lo deve a sua mamma, lei vuole giustizia per sua mamma». A Campobasso, Lea Garofalo subì un primo tentativo di sequestro di persona. Per la sua morte sei persone, compreso Carlo Cosco, ex compagno di Lea e padre di sua figlia Denise, sono state condannate all'ergastolo in primo grado. Il processo d'appello è previsto ad aprile. (ANSA)

venerdì 8 marzo 2013

UNA MIMOSA PER ROMINA DEL GAUDIO


Una mimosa per Romina del Gaudio. L’hanno portata alcune decine di persone, soprattutto donne, poco dopo le 16,  sulla lapide eretta dove fu ritrovato il suo corpo dilaniato dagli animali, il 21 luglio del 2004, nel bosco della reggia di Carditello. Per lei, uccisa con una pugnalata e due colpi di pistola alla testa,  le donne del centro antiviolenza 'Noi Voci di Donne' e dall'associazione "Le stelle", insieme all’Unicef, le hanno voluto tributare un 8 marzo diverso. Senza festeggiare alcunché, ma solo per ricordare che tante donne vengono uccise dai mariti, fidanzati e compagni che  le considerano ancora un oggetto da possedere. Alla sobria cerimonia, coordinata da Nando Cimino e svolta sotto una persistente pioggia, hanno partecipato anche il sindaco di San Tammaro, Emiddio Cimmino, il presidente dell’associazione, “Jerry Masslo”, Renato Natale, Il presidente del “Comitato delle sue sicilie”, Fiore Marro, il custode del real sito di Carditello, Tommaso Cestrone, rappresentati di istituti scolastici. Per lei sono state lette poesie, pensieri, scritte da giovani donne che non l’hanno mai conosciuta.
Romina 19 anni, promoter napoletana, scomparve da Aversa il 4 giugno del 2004. Quel giorno era impegnata nella vendita porta a porta di contratti telefonici insieme ad altri suoi colleghi. Arrivarono nella città normanna per girare ognuno una zona della città. Si diedero appuntamento all’ora di pranzo nel posto ove si erano lasciati, ma a quell’appuntamento Romina del Gaudio non si presentò. Risultarono inutili le telefonate fatte dagli amici. Il cellulare squillava ma nessuno rispondeva. Si pensò anche ad un allontanamento volontario. Le ricerche vere e proprie cominciarono solo alcuni giorni dopo. Il 21 luglio dello stesso anno, dopo una telefonata anonima arrivata alle forze dell’ordine, venne trovato uno scheletro dilaniato dai cani randagi nel bosco della Reggia di Carditello, non lontano dall’ingresso principale. Dall’esame del Dna risultò che i resti erano di Romina e che sul quel corpo qualcuno aveva prima sferrato una coltellata alla schiena e poi sparato due colpi di pistola alla testa. Esami, però, sempre contestati dalla mamma di Romina, Grazia Gallo, che continua a dire che la figlia è viva e che sarebbe stata rapita da esponenti della criminalità organizzata per vicende poco chiare che riguarderebbero il padre della ragazza che da anni vive in Germania.

mercoledì 6 marzo 2013

SIENA: DON CIOTTI INTITOLA LA PISTA COLLE-POGGIBONSI A MARCELLO TORRE


Marcello Torre
La pista ciclo-pedonale che unisce Colle di Val d'Elsa e Poggibonsi da oggi è dedicata a Marcello Torre e ai Nuovi Resistenti, in un legame simbolico fra la Resistenza di ieri, combattuta quasi 70 anni fa per liberare l'Italia dall'occupazione nazifascista, e la Resistenza di oggi, che vede impegnati ogni giorno uomini e donne nella lotta contro qualsiasi forma di violenza, di illegalità, di ingiustizia sociale e di criminalità organizzata. A scoprire la targa, insieme ai sindaci di Colle di Val d'Elsa e Poggibonsi, Paolo Brogioni e Lucia Coccheri, c'erano anche don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, e Annamaria Torre, figlia di Marcello, sindaco di Pagani (Salerno) ucciso dalla camorra l'11 dicembre 1980. La cerimonia ha seguito l'iniziativa pubblica «Dalla Resistenza ai nuovi Resistenti: libertà, democrazia e legalità ieri e oggi», che si è svolta al Teatro del Popolo, dove don Luigi Ciotti ha incontrato cittadini (ha parlato di «un percorso di legalità e giustizia») e una rappresentanza delle scuole medie e superiori delle due città valdelsane insieme ad Andrea Campinoti, presidente di Avviso Pubblico, don Andrea Bigalli, e Iva Monciatti, di Libera Toscana e Libera Siena. Hanno portato un saluto all'incontro, moderato da Gabriele Marini, presidente del consiglio comunale di Colle di Val d'Elsa, anche il consigliere regionale Marco Spinelli, il sindaco del Consiglio comunale dei ragazzi di Colle di Val d'Elsa, Emma Ceccherini e un rappresentante del presidio di Libera che ha sede nell'XI Municipio di Roma e che porta il nome di Marcello Torre. «Il percorso ciclo-pedonale sul vecchio tracciato ferroviario - ha detto il sindaco di Colle di Val d'Elsa, Paolo Brogioni - è tornato recentemente a unire i due centri urbani della Valdelsa e da oggi diventerà anche un legame simbolico fra la Resistenza di ieri e la Resistenza di oggi. Sarà un modo per rendere omaggio a Marcello Torre, ucciso mentre svolgeva il suo ruolo di amministratore con grande senso di responsabilità e integrità morale e civile, nel rispetto dei valori e dei principi sanciti dalla Costituzione italiana, ma anche a tutti i Nuovi Resistenti, facendo conoscere sempre di più queste figure ai giovani, che sono il nostro presente e il nostro futuro. Iniziative come queste ci stimolano anche a proseguire progetti di educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva avviati da diversi anni nelle nostre scuole, ulteriori occasioni di riflessione su questi temi».

 - Anche don Luigi Ciotti ha sottolineato come la pista «simboleggi il percorso verso la libertà, la legalità e la giustizia che noi, intesi come collettività, dobbiamo continuare a correre ogni giorno, per tenere alto l'impegno e il sacrificio di tutti coloro che, in questi anni, hanno pagato anche con la propria vita l'affermazione di questi valori». Don Ciotti ha ricordato come questa intitolazione abbia ripagato la famiglia Torre dell'oltraggio subìto due anni fa nella sua città, Pagani, quando fu intitolata una piazza al sindaco ucciso dalla camorra per poi annullare la delibera poche settimane dopo. Nel suo intervento, il presidente di Libera ha ricordato Marcello Torre come «volto buono della politica ucciso per il suo impegno nella sua terra», ma anche Nino Caponnetto, magistrato siciliano, legato alla Toscana e attore fondamentale nel pool antimafia che dette una svolta alla lotta contro la criminalità organizzata. «Il problema più grave - ha detto ancora Ciotti - non è tanto chi fa il male, ma quanti guardano e lasciano fare. Per questo, dobbiamo unire le forze con impegno, memoria e responsabilità, cercando di promuovere il cambiamento reale di una società civile che, per essere tale, deve essere innanzitutto responsabile»

 

Don Ciotti ha poi salutato i ragazzi e il pubblico ricordando l'appuntamento di sabato 16 marzo a Firenze, con la 18esima Giornata nazionale della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie, promossa annualmente da Libera e da Avviso Pubblico e organizzata quest'anno nel capoluogo toscano. La presenza numerosa delle scuole all'incontro della mattina è stata sottolineata dai due sindaci e, in particolare, dal primo cittadino di Poggibonsi, Lucia Coccheri che ha ricordato come «i giovani sono il nostro presente e il nostro futuro e saranno loro a dover tramandare il nostro passato, tenendone alti i valori fondamentali, perchè è doveroso ricordare e trasmettere la memoria in un Paese come il nostro che ne è spesso privo. Per questo è importante imprimere nel tessuto cittadino simboli evidenti, come può essere una targa dedicata ai vecchi e ai nuovi Resistenti. A chi, settant'anni fa come adesso, ha combattuto e combatte per la dignità e la libertà di tutti noi». Il gesto compiuto dai due comuni valdelsani per ricordare Marcello Torre è stato sottolineato anche da Andrea Campinoti, presidente di Avviso Pubblico che lo ha definito «un segno nel territorio per ricordare i figli della nostra storia che ci appartengono e di cui vogliamo e dobbiamo portare avanti i valori per cui sono morti». Un sentito ringraziamento ai due Comuni è venuto da Annamaria Torre, figlia di Marcello Torre, che ha ricordato quanto sia importante la memoria dei Giusti e di tutti coloro che lottano per affermare diritti e principi inalienabili per tutti, dai partigiani ai Nuovi Resistenti. «Il nostro dovere oggi - ha detto Annamaria salutata da un lungo applauso - è quello di essere degni dei loro sacrifici». La targa, nel testo, ricorda «Marcello Torre, tutte le vittime innocenti di criminalità e tutti coloro che ogni giorno lottano mettendo a rischio la loro vita contro la violenza, l'illegalità e ogni forma di sopraffazione. Come i partigiani lottarono per la libertà e contro l'oppressione fascista, questi Nuovi Resistenti lottano quotidianamente per i principi e i valori della Costituzione: libertà, giustizia, uguaglianza, democrazia».

martedì 5 marzo 2013

INTITOLATA A MARCELLO TORRE UNA PISTA CICLO-TURISTICA A COLLE VAL D'ELSA E POGGIBONSI

Annamaria Torre, la figlia di Marcello
Una pista ciclo-turistica intitolata al sindaco di Pagani, Marcello Torre, ucciso dalla camorra l’11 dicembre del 1980. L’iniziativa, però, non è della sua città, ma di due comuni in provincia di Siena: Colle Val d’Elsa e Poggibonsi che hanno voluto ricordare con la manifestazione “Dalla Resistenza ai nuovi Resistenti: libertà, democrazia e legalità ieri e oggi”, i “partigiani” di varie epoche.  La cerimonia è prevista per domani, 6 marzo alla presenza della figlia, Annamaria Torre e di don Luigi Ciotti, presidente di Libera, con un doppio appuntamento che vedrà un incontro pubblico al Teatro del Popolo alle 9,30 e, a seguire, l'intitolazione della pista ciclo-turistica sulla vecchia ferrovia Colle-Poggibonsi ai nuovi Resistenti e a Marcello Torre, divenuto uno dei simboli delle vittime innocenti di mafia.
 
 “Io e la mia famiglia siamo molto riconoscenti ai sindaci di Colle Val d’Elsa e di Poggibonsi per questa scelta – dice Annamaria Torre, la figlia di Marcello –  che onora non solo mio padre, ma tutte le vittime innocenti della criminalità”. Una scelta che però  a Pagani non è stata ancora fatta. Anzi, nella città di Marcello Torre, che lui sognava “libera e civile”, è accaduto il contrario: prima gli hanno intitolato la piazza principale della città, per poi revocare il provvedimento.
“L’iniziativa di domani - commentano i sindaci di Colle di Val d'Elsa e Poggibonsi, Paolo Brogioni e Lucia Coccheri - rappresenta un'ulteriore e importante occasione per tenere alta, anche in Valdelsa, la memoria di chi ha perso la vita in nome di valori che hanno segnato la Resistenza quasi settanta anni fa e di coloro che, ancora oggi, continuano a lottare contro ogni forma di ingiustizia sociale.”