sabato 15 marzo 2014

LO STATO RICONOSCA IL TESTIMONE DI GIUSTIZIA CHE FECE CONDANNARE IL KILLER DI DON DIANA. UN APPELLO DEI FAMILIARI DEL PRETE UCCISO DALLA CAMORRA

Augusto di Meo  tra Alessandro Preziosi e Pierluigi Cuomo
Lo Stato riconosca il testimone di giustizia che fece arrestare il killer di don Giuseppe Diana". Un appello in tal senso è stato rivolto al Presidente della Repubblica, al Premier, Matteo Renzi, ai ministri dell’Interno e della Giustizia e ai presidenti di Camera e Senato, affinché venga riconosciuto ad Augusto di Meo, il fotografo che riconobbe il killer e testimoniò nel processo per la morte di don Diana, lo status di Testimone di Giustizia, per riparare ad un torto durato vent’anni. A firmare l’appello sono i familiari di don Diana, il vescovo di Aversa, il  “Consiglio dell’Ordine degli avvocati” di Santa Maria Capua Vetere, il “Comitato don Peppe Diana”, l’associazione “Libera” e il “Collegamento campano contro le camorre”. 

Di Meo riconobbe in fotografia la persona che aveva sparato contro don Diana quella mattina del 19 marzo 1994: “Si è lui, è Giuseppe Quadrano – disse deciso il fotografo ai carabinieri che lo interrogarono -  è entrato in chiesa e prima di sparare ha chiesto: “Chi è don Peppe?”. Fu grazie al suo coraggio se gli inquirenti cominciarono da subito la caccia all’assassino di don Diana. 

“Chiediamo un atto concreto – è scritto nella lettera inviata agli organi istituzionali e che sarà pubblicata sui social network per raccogliere quante più adesioni possibili - per rendere omaggio alla memoria del sacerdote ucciso, mediante la concessione ad  Augusto Di Meo, testimone dell’omicidio, il  riconoscimento che la legge prevede per i testimoni di giustizia e che tutt’oggi, a vent’anni di distanza, non è, purtroppo, ancora avvenuto”.
Augusto  di Meo con Marisa Diana e Iolanda di Tella

Dopo la scelta di testimoniare nel processo per  la morte di don Diana, Augusto Di Meo  dovette abbandonare San Cipriano di Aversa, dove abitava e lavorava, perché temeva ritorsioni. Fu costretto a chiudere  la sua attività di fotografo e si recò in Umbria, insieme con la moglie e i due figli piccoli. Tentò di trasferire qui l’attività di fotografo professionale, ma con scarso successo.  Di Meo, oggi 54enne, è ritornato  da più di quindici anni a vivere di nuovo nel suo paese. Ha riaperto l’attività, ma sconta ancora il peso di quegli anni in cui ha dovuto inabissarsi. Ha contratto diversi debiti con Equitalia ai quali non riesce a far fronte, anche perché nel frattempo ha dovuto mantenere due figli a scuola, un ragazzo e una ragazza, entrambi da poco laureati.

Augusto Di Meo
“La testimonianza di Di Meo – scrivono ancora i promotori dell’appello -  come ha riconosciuto la Corte di assise di appello di Napoli e, in via definitiva, la Corte di Cassazione, è stata fondamentale per individuare l’esecutore materiale dell’omicidio e per condannarlo, unitamente ai mandanti e complici, alle pene di giustizia, ma anche per determinare l’assoluzione di due soggetti che in primo grado vennero condannati, erroneamente, alla pena dell’ergastolo, ma comunque non è stata sufficiente ad ottenere il meritato riconoscimento che la legge prevede per i testimoni di giustizia  (D.L 8/91, L. 45/2001)”.

Per vent'anni, intanto, il coraggio e lo slancio civico in un territorio dove l’omertà è fortemente radicata, ad Augusto di Meo non gli sono valsi un granché. Il fotografo di San Cipriano ha dovuto denunciare lo Stato per cercare di vedere riconosciuti i propri diritti.. Il 16 gennaio 2013 ha presentato un atto di citazione al tribunale di Napoli contro il Ministero dell’Interno per un giudizio che è cominciato il 13 maggio 2013 ed è tuttora in corso.

 “Uno Stato di diritto – conclude l’appello  -  non può negare questo riconoscimento ai suoi cittadini più meritevoli. Si tratta di un debito morale che lo Stato ha con Augusto Di Meo”.