sabato 29 ottobre 2011

A ROMA SI LAVORA PER CONSULTA FAMILIARI VITTIME TERRORISMO

 Una consulta cittadina sugli anni di piombo composta dai familiari di tutte le vittime romane.  La proposta è del consigliere capitolino del Pd, Paolo Masini, che aveva già presentato una delibera per una iniziativa istituzionale trasversale. Dopo l'intitolazione di un giardino, in VI Municipio, a Mario Zicchieri, militante del Fronte della Gioventù ucciso durante gli anni di piombo, si torna a parlare di un organo bipartisan che funga da supporto alle famiglie delle vittime, di destra e di sinistra. «È con grande rispetto - ha spiegato Masini - che ricordiamo Mario Zicchieri. Intitolargli un giardino pubblico è un messaggio importante per la città e soprattutto rappresenta un'occasione per creare una riflessione condivisa su una stagione che ha segnato Roma in maniera indelebile». D'accordo con la proposta il presidente della Commissione Cultura Federico Mollicone (Pdl) che ha spiegato di ritenere «maturi i tempi, al di là delle appartenenze politiche, per dare nobiltà alle intitolazioni di strade e piazze per le vittime degli anni di piombo e costruire insieme un percorso di pacificazione». In questo modo è stato accolto l'appello lanciato da Masini a tutti i consiglieri, «per un impegno comune affinchè un sentiero già ben avviato possa condurre a quel passo decisivo e necessario a voltare definitivamente pagina» 

PIERO GRASSO: DIETRO LE STRAGI DI MAFIA SI INTRAVEDE DELL'ALTRO

Il procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso, in un convegno su mafia e giustizia tenuto in serata a Palermo, è ritornato nuovamente sul tema delle stragi mafiose e sui possibili mandanti occulti. Grasso ha detto che dietro le stragi mafiose del '92 in cui furono uccisi i giudici Falcone e Borsellino «si intravede dell'altro. È un dato di fatto, lo dicono anche i magistati di Caltanissetta che hanno da poco completato questa parte di indagine». «Il problema è come proseguire adesso per potere andare oltre -ha aggiunto Grasso- bisogna che ci siano nuovi spunti e approfondimenti, ecco perchè oggi ho ribadito che chi sa deve parlare. Non so se devono parlare soltanto uomini della criminalità organizzata o chi fa parte di altre istituzioni, ma non si puo continuare nell'indifferenza e nella rassegnazione, perchè non si possono dimenticare quei brandelli di carne che si intravedevano sui balconi dei palazzi in via D'Amelio oppure l'autostrada di Capaci sventrata con i corpi innocenti». Secondo il procuratore nazionale antimafia «qualche memoria è tornata e questo ci ha consentito di fare degli approndimenti, ma c'è ancora tanta strada da fare per andare più a fondo. Io continuerò a credere nella ricerca della verità e non lascerò nulla di intentato. Così come sono riuscito a prendere per i capelli Gaspare Spatuzza posso ascoltare chiunque altro abbia qualcosa da dirmi».

«Cercare la verità sulle stragi mafiose deve essere un imperativo categorico che tutto lo stato, nel suo complesso, deve perseguire, anche adesso, dopo tanti anni». È il monito del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso in riferimento alla sospensione delle otto condanne per la strage di via D'Amelio decisa dal giudice di Catania nell'ambito della richiesta di revisione. «La sospensione segue una giurisprudenza della Corte di Cassazione che prevede che non si possa fare il giudizio di revisione se prima non diventa definitivo l'accertamento dei fatti che portano alla revisione -ha spiegato Grasso- è una posizione estremamente garantista ma è anche corretta. Sono state scarcerate persone che hanno scontato parecchi anni di carcere e alcune di queste, secondo l'attuale prospettazione, ingiustamente». Alla domanda se, a suo avviso, nelle indagini per la strage di via D'Amelio sia stato un errore fatto per la fretta o un depistaggio, come sono convinti i pm di Caltanissetta, il procuratore nazionale antimafia risponde: «È un pericolo che noi paventiamo sempre, cioè di un pubblico ministero e di una polizia giudiziaria che cerca di trovare un colpevole a qualsiasi costo. Il controllo della magistratura, quando è possibile, dovrebbe cercare di limitare questi guai e questi danni quando ci sono situazioni che destano perplessità. L'importante, per me è che ci sia il principio di tendere all'accertamento della verità anche dopo anni e a qualsiasi costo».

Secondo Grasso «il concetto è cercare di scoprire la verità anche sotto altri profili che non sono l'esecuzione materiale. La percezione che ci sia qualcos'altro, oltre alla mafia, si è sempre avuta e non è una cosa nuova. Il problema è riuscire, dal punto di vista giudiziario, a trovare le prove». E sui pentiti che soltanto adesso hanno parlato delle stragi, Grasso ha detto: «Purtroppo ci sono tempi che non dipendono dalla magistratura ma che dipendono dalla possibilità di accertare questa realtà partendo da elementi che consentano di dimostrare la verità». Infine, alla domanda se ci sono ancora oggi rapporti tra mafia e politica, come sostenuto da diversi collaboratori di giustizia, grasso ha spiegato: «Non mi pare sia una novità. In ogni caso sono solo le indagini che possono fare scoprire i rapporti tra mafia e politica. Ricordo ancora un pizzino trovato nel covo di Bernardo Provenzano in cui gli veniva chiesto chi si doveva votare. Putroppo non abbiamo trovato il pizzino di risposta, altrimenti lo avremmo saputo».

Piero Grasso ha affrontato anche il tema più delicato della politica. Anche se daalla sua angolatura. «Oggi le candidature servono quasi per avere immunità parlamentare. È vero, non è la magistratura che deve fare le liste ma la politica si deve autolimitare a candidare solo persone che possano essere candidate. Se uno è indagato e l'altro no, non si spiega perchè si sceglie quasi sempre l'indagato. Quasi in dispregio della magistratura». «Non si deve aspettare la sentenza definitiva per candidare un politico -ha aggiunto Grasso- semplicemente la politica deve imparere a scegliere i propri candidati. I cittadini possono manifestare con il proprio voto la mancanza di assenso alla persone incriminate». Grasso ha parlato brevemente anche del ddl intercettazioni. «Si deve trovare un equilibrio perchè altrimenti si rischia l'imbarbarimento». Infine, Grasso ha concluso dicendo, non senza una vena polemica: «Nonostante i mezzi che ci sono i risultati che facciamo quotidianamente sono miracolosi, perchè ogni giorno facciamo operazioni di polizia con arresti e sequestri, anche se poi i meriti li prendono gli altri a noi non interessa. Noi continueremo».

STRAGE DI USTICA: LEGALE VITTIME, SI VA VERSO NUOVO PROCESSO

 Per la strage di Ustica si va vero un nuovo processo. Oggi a  Palermo lo ha detto Daniele Osnato, avvocato di parte civile delle vittime della strage intervenuto oggi a Palermo nel corso della presentazione del libro di Carmelo Pecora «Ustica. Confessioni di un angelo caduto».   «Ho ricevuto numerose richieste, ci avviamo verso un processo Ustica-bis» Ha detto l'avvocato. «Non smetteremo mai di ricercare la verità  a cominciare dalla richiesta avanzata a Bruxelles per la costituzione di una commissione d'inchiesta europea che faccia luce su quanto avvenuto quel terribile giorno di 31 anni fa». Alune settmane fa un primo gruppo di familiari ha ottenuto dal tribunale un risarcimento di cento milioni di euro. Altri parenti delle vittime adesso sono pronti a intentare una nuova causa. L'incontro si è tenuto presso l'aula consiliare di Palazzo delle Aquile. Polemica per la mancata partecipazione di alcune classi dell'Istituto Finocchiaro Aprile di Palermo. «La scuola ha disertato l'incontro perchè ritenuto un tema delicato, salvo poi affrontare in classe temi d'attualità come la guerra in Libia. È strano constatare come ancora oggi a Palermo ci sia tanta reticenza nell'affrontare l'argomento», affermano gli organizzatori dell'incontro di stamattina.

«Non vogliamo fare alcuna polemica ma ci saremmo aspettati maggiore entusiasmo per un tema di strettissima attualità, per altro affrontato sotto forma di un romanzo» dicono i familiari. Il romanzo narra la vita di un poliziotto palermitano che era a bordo del Dc9 precipitato. L'autore è Carmelo Pecora, ex poliziotto in pensione originario di Enna ma per molti anni residente per lavoro a Forlì, che ha vissuto in prima persona alcuni dei fatti più importanti degli ultimi cinquant'anni: fu lui a trovare il cadavere di Aldo Moro in auto e fu tra i primi a recarsi alla stazione di Bologna il giorno della strage. Pecora racconta la storia di Nino, dall'infanzia in Sicilia alla scelta di entrare in polizia, dalle prime esperienze in divisa al trasferimento a Bologna, fino alla tragica sera di prima estate in cui Nino prese l'aereo che doveva portarlo alla festa di matrimonio di un amico, per fargli da testimone. Il racconto si avvale delle testimonianze dirette dei familiari e degli amici di Antonino Greco e della collaborazione dell'Associazione Familiari Vittime di Ustica.

venerdì 28 ottobre 2011

GIOVANNI POMPONIO VICE BRIGADIERE DELLA POLIZIA DI STATO, VIENE UCCISSO DURANTE UNA RAPINA

Doveva andare in pensione il 2 novembre. Mancano solo quattro giorni per quel traguardo raggiunto dopo 37 anni di servizio. Il  28 ottobre del 1975 è di riposo settimanale, ma Giovanni Pomponio, vice Brigadiere della polizia di Stato, in servizio alla Polfer di Napoli, non si fa pregare più di tanto. Il dovere lo chiama. Servono agenti  all'ufficio cassa presso la stazione centrale di Napoli.  Per i ferrovieri è un giorno di paga. Giovanni obbedisce. In quella cassa ci sono circa 500 milioni di lire. 475 vengono trasferiti in altro ufficio con la scorta di 5 uomini, i rimanenti 25 restano alla cassa con la sorveglianza di Giovanni Pomponio.  Giovanni non sa che quella mattina ci sono anche altre persone che vogliono quei soldi: una banda di criminali che tenta di rapinare gli stipendi dei ferrovieri.  Giovanni Pomponio reagisce. Gli sparano alle spalle. Lo colpiscono alla nuca ferendolo mortalmente. Morirà due giorni dopo, il 30 ottobre del 1975.
 "Fulgido esempio di sacrificio spinto all'estremo". Così è scritto  sulla medaglia d'oro al valor civile consegnata ad Antonietta Vigliotti, vedova di Giovanni Pomponio, rimasta sola con i due figli, Giuseppe e Sergio.

giovedì 27 ottobre 2011

A GENNARO DEL PRETE IL PREMIO BORSELLINO 2011 PER "L'IMPEGNO SOCIALE E CIVILE"

A Gennaro del Prete, figlio di Federico, il sindacalista dei commercianti ambulanti ucciso dalla camorra a Casal di Principe, il 18 febbraio del 2002, è stato assegnato il premio nazionale "Paolo Borsellino 2011", per la categoria "Impegno sociale e civile". La premiazione avverrà sabato 29 ottobre a Pineto, alle ore 10, al Teatro  Polifunzionale.
Ecco anche l'elenco di tutti i premiati della 16^ edizione:
Per la categoria “Impegno culturale”:
Premiato il gruppo musicale de “I Giganti”.
Per la categoria “Impegno sociale e civile”:
la Cooperativa Sociale “I Colori”, Antonello Persico, Egidia Beretta Arrigoni (madre di Vittorio Arrigoni), Gennaro Del Prete, Rodrigo Jaimes Hidalgo.
In ricordo di Enzo Biagi:
 il giornalista Piero Comito.
In ricordo di Giuseppe D’Avanzo:
 il giornalista Giuseppe Baldessarro.
In ricordo di Roberto Morrione:
il giornalista Andrea Pamparana.
Per la categoria “Impegno per la legalità”:
saranno premiati la Guardia di Finanza Regione Abruzzo, Giuseppe Narducci del “Progetto Legalità Comune di Napoli”, i magistrati Giuseppe Lombardo, Anna Canepa, Luca Tescaroli.
La manifestazione sarà conclusa dall'ex senatore Lorenzo Diana, Presidente della “Rete per la Legalità”.

venerdì 21 ottobre 2011

ATTILIO ROMANO': PENTITO CONFERMA CHE FU IL CLAN DI LAURO AD UCCIDERLO

Un articolo pubblicato ieri, 20 ottobre, sul Giornale di Napoli,  conferma che l'assassinio di Attilio Romanò, avvenuto a Miano il 24 gennaio del 2005, fu eseguito da killer del Clan Di Lauro, in guerra con il gruppo degli scissionisti.

Ecco l'articolo pubblicato sul quotidiano napoletano:

 «Ho saputo, quando ero nella villa bunker di Varcaturo che i killer che uccisero Romanò erano di “mezzo all’Arco” e quindi del clan Di Lauro». A parlare è Giovanni Piana, il pentito che sta raccontando i retroscena dell’omicidio di Attilio Romanò, massacrato durante la "guerra" di Scampia, e vittima innocente di una assurda faida. Cosimo Di Lauro, Mario Buono e Marco Di Lauro, latitante, furono rinviati a giudizio in Corte d'Assise, così come aveva chiesto la Dda di Napoli, poco meno di un anno fa. Ieri in aula doveva testimoniare Giuseppe Misso che però non si è presentato, mentre l'altro pentito, Giovanni Piana, in aula ha testimoniato: «Quando ero a Varcaturo, seppi che c’era un villa bunker da dove partirono i killer durante la faida. Lì seppi che erano stati quelli di “mezzo all’Arco”».

Sull'omicidio Romanò, a metà novembre, saranno ascoltati Biagio Esposito e Carmine Cerrato. Attilio Romanò, lo ricordiamo, fu vittima innocente delle sanguinosa faida di camorra tra i Di Lauro e gli scissionisti. Il delitto avvenne il 24 gennaio 2005. Nel corso del lavoro investigativo, coordinato dalla Procura Distrettuale Antimafia partenopea, i militari hanno potuto chiarire che l'omicidio avvenne nell'ambito delle vendette trasversali messe in atto durante lo scontro tra il clan camorristico dei Di Lauro e gli scissionisti, capeggiati dai boss Amato- Pagano. Infatti, la vittima designata avrebbe dovuto essere l'altro titolare del negozio di telefonia, Salvatore Luise, nipote del boss Salvatore Pariante, per anni fedelissimo e personaggio di spicco della cosca di "Ciruzzo 'o milionario", nei cui confronti era stata sentenziata una condanna a morte, colpevole di essere passato con gli "scissionisti". L'uomo si era appena allontanato dal negozio. Il killer, identificato nel ventenne, all'epoca, Mario Buono, che entrò in azione intorno alle 13, sparò contro la prima persona che si era trovato di fronte nell'esercizio commerciale di via Napoli a Capodimonte: appunto Attilio Romanò

mercoledì 19 ottobre 2011

ASS. VITTIME VIA GEORGOFILI: "VOGLIAMO VERITA' SU TRATTATIVA MAFIA E STATO"

Ancora una presa di posizione dell'Assocazione familiari vittime delal strage di via dei Georgofili sulla trattativa tra Stato e mafia. «Non vi sono più dubbi: la trattativa tra Stato e mafia non è più solo una nostra idea peregrina». Dichiara la presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili a Firenze, Giovanna Maggiani Chelli, per la quale «alcuni politici di questo Paese nel 1992 dopo la morte del giudice Falcone, minacciati dalla mafia, hanno cercato con ogni probabilità di salvarsi il collo e hanno così sacrificato la vita dei nostri figli: vogliamo sapere se è vero».  «La mafia, dopo la morte del giudice Borsellino che con ogni probabilità scoprì i maneggi dei politici minacciati - dice la persidente dell'associazione Giovanna Maggiani Chelli - ha alzato il tiro e noi in via dei Georgofili abbiamo perso i figli e ne abbiamo di altri ancora oggi in difficoltà oggettive, anche a causa di leggi non applicate in modo giusto e ancora una volta vittime di un sistema che intende applicare tagli economici anche per quelle persone alle quali non ha garantito nulla. A questo punto, invochiamo a gran voce la verità tutta». Per la presidente dell'associazione familiari delle vittime, «le indagini per strage che ci riguardano dovranno riprendere a pieno ritmo e chiarire una buona volta, attraverso un processo penale, se lo Stato per salvare deputati e senatori inadempienti verso la mafia ha lasciato ammazzare bambini e ragazzi. Vogliamo e pretendiamo verità o davvero dovremmo mettere in discussione il grado di civiltà del Paese nel quale siamo costretti a vivere».

martedì 18 ottobre 2011

IL 7 NOVEMBRE LA REQUISITORIA DEL PROCESSO PER L'OMICIDIO DEL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO

Il 7 novembre prossimo comincerà la requisitoria del processo per l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino sequestrato nel '93 a 13 anni e ucciso dopo quasi due anni di prigionia. Lo ha deciso la seconda sezione della corte d'assise di Palermo che ha rigettato la richiesta dei difensori del boss Giuseppe Graviano di sentire in aula Salvatore Baiardo. Il teste avrebbe dovuto deporre sulla presenza di Graviano a Milano nel periodo in cui fu pianificato il sequestro. Circostanza smentita dal pentito Gaspare Spatuzza che ha raccontato di aver discusso del rapimento col capomafia in Sicilia. Baiardo è stato condannato per favoreggiamento. La requisitoria sarà pronunciata dal pm Fernando Asaro applicato per il processo dopo il trasferimento alla procura generale di Caltanissetta. Il dibattimento è una delle tranche giudiziarie legate all'omicidio Di Matteo, rapito per indurre il padre a tornare nei ranghi di Cosa nostra. Imputati, tra gli altri, oltre a Graviano il boss latitante Matteo Messina Denaro e il pentito Gaspare Spatuzza.

lunedì 17 ottobre 2011

GENNARO DE ANGELIS, UCCISO PERCHE' NON SI PIEGO' ALLA CAMORRA DI CUTOLO

Gennaro De Angelis  - Agente di custodia
Vogliamo ricordare Gennaro De Angelis, l'agente di custodia ucciso a Cesa (Caserta) il 15 di ottobre del 1982. Gennaro è uno di quelli che non si piegò alle minacce della camorra che comandava nelle carceri, quella legata al boss Raffaele Cutolo. Per questo venne ucciso in un circolo di Cesa da alcuni camorristi che entrarono simulando una rapina. Gennaro era il papà di Vincenzo, attuale sindaco del Comune di Cesa. Un ragazzo per bene dagli occhi tristi. Un primo cittadino che è stato a sua volta minacciato di morte alcuni mesi fa, quando una mano vigliacca ha scritto sulla tomba del proprio genitore “Farai la stessa fine”. Vincenzo non ha mollato e tiene alto il nome del suo papà che per anni è stato dimenticato. A lui, e a tutte le persone per bene, va il nostro sostegno incondizionato.
La storia è tratta dal mio libro “Al di là della notte” ed. Tullio pironti
 ------

«Fermi tutti altrimenti vi ammazziamo». Il tono è deciso, la voce è ferma, il volto è coperto. Nel circolo della Madonna dell’Arco di Cesa cala un gelido silenzio. Sono entrati due ragazzi e hanno le pistole in pugno. Sono scesi da un’auto proprio davanti al circolo che si trova in via Roma, al centro del paese, nei pressi del Municipio. Una trentina di persone, come ogni sera, sta giocando a carte ai vari tavolini nelle tre stanze a pian terreno. «Eccoli, è la solita rapina», dice sottovoce uno dei presenti. Ma i due, dopo uno sguardo d’intesa, vanno decisi verso un tavolo. Cercano una persona in particolare. «Eccolo, è lui», dice uno dei due. Gli si avvicinano. Attimi di tensione. Gli sparano alla testa a bruciapelo. Il corpo si abbassa riverso sul tavolino. A cadere sotto i colpi di pistola è Gennaro De Angelis, trentasette anni, agente di custodia nel carcere di Poggioreale, dove era addetto alla spesa dei detenuti. Alcuni colpi feriscono un’altra persona che era vicino alla vittima. Si tratta di Pasquale Marino, sessanta anni, pensionato. Tutta la sparatoria dura meno di un paio di minuti. Fuori c’è l’auto ancora in moto guidata da un altro complice. I due escono in fretta dal circolo e salgono sulla vettura che li stava aspettando. Fuggono in direzione di Aversa. Sono le venti e quindici del 15 ottobre 1982.

Tutti quelli che erano nel circolo scappano. Solo due persone si fermano e trasportano in ospedale ad Aversa Pasquale Marino. Anche lui non ce la farà. Morirà quattro giorni dopo al Cardarelli di Napoli. Gennaro De Angelis, invece, rimarrà lì a terra. La notizia dell’omicidio si sparge in un baleno. Arriva la moglie di Gennaro, Adele. La scena è straziante. Adele è incredula. Comincia ad urlare, si mette le mani in faccia. Si tira i capelli. Piange disperata. Non sa darsi una spiegazione di tanta ferocia. Dopo pochi attimi, però, Adele ha come un sussulto. Il pensiero va ai propri figli. Enzo, nove anni, il più grandicello dei tre, non è a casa. Ancora in preda alla disperazione, trova la forza di alzarsi da vicino al corpo senza vita del marito e corre verso la piazza. Va in cerca del primo figlio. Si avvia verso il campetto di calcio poco distante. Enzo, il primogenito, doveva essere sicuramente lì.

Il figlio Vincenzo De Angelis
«Giocavo a pallone con alcuni amichetti proprio lì vicino», racconta Enzo, oggi sindaco di Cesa. «Sentimmo gli spari, pensavo fossero mortaretti. Poi, invece, quando capimmo che erano colpi di pistola, scappammo tutti verso casa. Abitavo a pochi passi. Ad un certo punto vidi mia mamma correre verso di me con le lacrime agli occhi. Era disperata. Non capivo il perché. Ma non tardai a rendermi conto di quello che era accaduto a mio padre. Dopo qualche giorno capii che quei colpi di pistola avevano ucciso anche una parte di me. Quegli spari non li scorderò mai. Ogni volta che con la mente torno indietro a ricordare quei momenti, provo lo stesso stato d’ansia, la stessa paura, la stessa angoscia di quando avevo nove anni. Nel giorno dei funerali c’erano tante persone. Non capivo niente. Cercavo solo di stare quanto più vicino a mia madre. Sulle scale della chiesa, mentre il feretro di mio padre usciva per dirigersi verso il cimitero, mia mamma mi guardò e disse a voce alta: “Ora sei tu il maschio della casa. Tocca a te prendere le redini della famiglia”. Mi sentii crollare il mondo addosso. In un attimo la mia spensieratezza volò via. In quel momento ero diventato grande pur avendo solo nove anni».

Gennaro De Angelis era sposato con Adele Re, da cui aveva avuto tre bambini: un maschio, Enzo, e due femmine, Marianna e Annamaria. Il 15 ottobre del 1982, il giorno in cui fu ucciso, avevano rispettivamente nove, cinque e tre anni. Gennaro De Angelis era nato a Cesa, in provincia di Caserta, il 26 ottobre 1945. Si arruolò nell’ex Corpo agenti di custodia all’età di ventuno anni e assegnato alla Casa circondariale di Pisa. Restò quattro anni nella città toscana. Fu poi trasferito, su sua richiesta, alla Casa circondariale di Poggioreale a Napoli. Voleva stare più vicino alla famiglia. Qui lo assegnarono alla ricezione pacchi dei detenuti. Fu proprio questo compito a condannarlo a morte. In quegli anni la Nuova Camorra Organizzata, il clan del boss Raffaele Cutolo, ammazzava chiunque si rifiutasse di mettersi al servizio del clan e negasse favori. Gennaro De Angelis si era rifiutato di fare qualche favore ai detenuti di Poggioreale. Questa è l’unica spiegazione di quell’omicidio.

La scritta sulla tomba di Gennaro De Angelis
Come Gennaro sono caduti diversi agenti di custodia. Tutti quelli che non si piegavano alle richieste dei clan della camorra che in quel periodo si ammazzavano all’interno delle carceri come bestie. Far entrare armi nell’istituto di pena era uno degli obiettivi dei camorristi. Imponevano a suon di omicidi la legge del più forte. «La vita umana valeva davvero poco in quel periodo», ricorda Enzo, il figlio di Gennaro, «lo scontro tra clan della camorra avveniva a colpi di morti ammazzati. Mio padre fu vittima di chi voleva farlo diventare disonesto. Oggi sono fiero di lui. Ma è stata dura. Allora non c’erano nemmeno tutte le leggi che aiutano i familiari delle vittime della criminalità. Mia mamma, a soli trenta anni, con 600 mila lire di pensione e tre figli piccoli, ha fatto sacrifici enormi per portare avanti la famiglia. A quante cose abbiamo dovuto rinunciare io e le mie sorelle! Nei momenti difficili che ho passato, mi chiedevo: “Perché proprio a me? Perché proprio mio padre?”». «Mi è mancato tanto papà. Mi è mancato anche nelle cose più piccole, come quando litigavo con i miei coetanei e loro dicevano: “Adesso vado a chiamare il mio papà”. Io non ho potuto più dirlo. Non ho potuto farlo venire ai colloqui a scuola. Non lo avevo per i miei diciotto anni. Non lo avevo quando mi sono sposato. Ho dovuto crescere in fretta, passare dall’infanzia all’età adulta direttamente. E questo mi ha segnato. Mi ha dato un carattere forte. Perché se superi certi scogli non puoi che essere pronto a superare tutte le altre dure prove della vita. Me ne sono accorto da solo», dice quasi con amarezza Enzo De Angelis. «Poco tempo fa è morto un mio carissimo amico e io non ho pianto. Non ci riuscivo. Non avevo lacrime. Forse perché le avevo già versate tutte. Sì, me lo sono anche sognato spesso papà. Facevo sempre lo stesso sogno. Lo sognavo che lui veniva sul campo di calcetto dove stavo giocando quella sera che l’hanno ucciso. Stava vicino alla recinzione. Io mi avvicinavo e gli chiedevo: “Papà, ma dove sei stato tutto questo tempo?”. “Sono stato via, ho avuto da fare. Ma ora sono tornato. Non ti preoccupare, non ti lascio più”».

Per tanti anni Gennaro De Angelis è stato dimenticato. Tenuto vivo solo nel ricordo dei familiari. «A Cesa sapevano tutti dell’onestà di mio padre», afferma il figlio Enzo, «solo che nessuno mai ha sentito il dovere di rendere omaggio a mio padre come ad altre vittime. Da queste parti è sempre subentrata la paura e un comportamento da cittadino non esemplare».

Dopo tre anni dall’uccisione di Gennaro De Angelis, i carabinieri di Aversa individuarono in quattro appartenenti alla Nco gli autori del delitto. Erano già in carcere per altri motivi. «Mi pare che gli assassini di mio padre siano stati uccisi a loro volta. Non abbiamo seguito da vicino il processo. Ci interessava poco», dice Enzo De Angelis, «ci interessava di più tenere unita la famiglia. I sacrifici che ha fatto mia mamma in questi anni per tirarci su sono stati enormi e dovevamo tutti dare una mano. Lo dovevamo anche a mio padre che non c’era più. E in qualche modo siamo riusciti a risalire la china. Mia madre ha pagato il prezzo più alto. Ha sacrificato tutta la sua esistenza per noi figli. Ora dobbiamo starle noi vicino». Il ministero dell’Interno ha riconosciuto «vittima del dovere» Gennaro De Angelis e successivamente «vittima della criminalità organizzata».

CONDANNATI A 18 E 21 ANNI I KILLER DI TERESA BUONOCORE

Si conclude con due condanne il processo di primo grado per l'omicidio di Teresa Buonocore, la donna che aveva denunciato l'uomo che aveva abusato di sua figlia e per questo fatta uccidere da due killer. Sono stati condannati rispettivamente a 18 e 21 anni e 4 mesi di reclusione il per Giuseppe Avolio e Alberto Amendola, riconosciuti responsabili dell'assassinio di Teresa Buonocore, che aveva testimoniato in aula contro il bruto che aveva abusato della figlia minorenne. La sentenza è stata emessa oggi dal gup Umberto Lucarelli al termine del processo con rito abbreviato. I due sono considerati gli esecutori materiali del delitto avvenuto nel settembre 2009 a Napoli. Il presunto mandante, Enrico Perillo, già condannato per gli abusi sulla ragazzina, sarà processato invece con rito ordinario a partire dal 26 ottobre prossimo. Per Avolio e Amendola i pm Danilo De Simone e Graziella Arlomede avevano chiesto la condanna all'ergastolo. Il giudice per Avolio ha escluso l'aggravante dei motivi futili e abietti, mentre ha riconosciuto a entrambi le attenuanti equivalenti alla premeditazione. I due, secondo l'accusa, avrebbero ricevuto da Perillo l'ordine di uccidere la donna attraverso una lettera inviata dal carcere.

«Preferisco non commentare la sentenza perchè potrei lasciarmi andare a valutazioni dettate dall'emotività del momento». Così Pina Buonocore risponde alle domande sulla sentenza di condanna a 18 e 21 anni dei presunti killer della sorella, Teresa Buonocore, uccisa a Napoli nel 2009. «È evidente a tutti però - ha aggiunto Pina Buonocore, che vive in località protetta in provincia di Salerno - che di fronte a un delitto così spietato e alle argomentazioni portate dai pubblici ministeri in aula, chiunque si sarebbe aspettato pene esemplari».

NANDO DALLA CHIESA NOMINATO PRESIDENTE DEL COMITATO ANTIMAFIA AL COMUNE DI MILANO

Nando Dalla Chiesa è stato nominato presidente del  comitato antimafia di Milano istituito dal sindaco Giuliano Pisapia. Con Dalla Chiesa, professore universitario, scrittore e presidente onorario di Libera, ci sono anche Luca Beltrami Gadola, architetto ed imprenditore; Maurizio Grigo, magistrato;  Umberto Ambrosoli, avvocato e figlio di Giorgio, il liquidatore della Banca Privata Italiana fatto assassinare da Michele Sindona; Giuliano Turone, professore universitario ed ex magistrato dei casi P2 e Banco Ambrosiano; Gherardo Colombo, magistrato in pensione.
Ne dà notizia lo stesso figlio del generale Carlo Alberto, nel suo blog http://www.nandodallachiesa.it/
"Ne sono stato nominato presidente, su proposta del sindaco. Cercherò di onorare la fiducia - scrive Nando Dalla Chiesa -  Ci attende molto lavoro. Credo, specie dopo l’esperienza della manifestazione di ieri, che forse non avrei mai potuto essere così utile alla mia città. Certo lo sarò più che da consigliere comunale o assessore. Le fasi della vita si chiudono e si aprono (grande riflessione, non esagerate con i complimenti…). A proposito: chissà perché questo comitato (essendo di esperti esterni) dovrebbe dare fiato all’antipolitica. Misteri di una politica esangue. Buona politica invece in Brianza. Dove sono andato stasera dopo un incontro con i giovani piddini alla periferia sud, su scuola, giovani e immigrazione. A Besana Brianza incontro con Dario Vassallo, fratello di Angelo, il grande sindaco-pescatore di Pollica, ucciso nel settembre di un anno fa. A lui, stasera, hanno dedicato un circolo del partito. Anche in quest’occasione è stato proiettato un bel documentario con interviste su Vassallo e il suo paese. Mi rendo sempre più conto che questo straordinario genere di informazione (metteteci anche il film su Mafia a Milano dell’altra sera) si sta ormai ricavando spazi suoi propri grazie alla povertà estrema dell’informazione televisiva (tranne Minoli e Lucarelli dove trovate questo preziosissimo sapere ?) e all’impazzimento delle logiche di distribuzione cinematografica. Domani (oggi) alle 18 presentazione di “I dieci passi”, libro sulla legalità di Mario Conte, magistrato insigne, e Flavio Tranquillo all’Ostello Bello, via Medici a Milano. Presente Armando Spataro il sommo. Il Gracco vi attende".
 

domenica 16 ottobre 2011

OMICIDIO FORTUGNO, SEI ANNI DOPO ALLA RICERCA DI NUOVE VERITÀ

 A distanza di sei anni è ancora forte la richiesta di fare piena luce sull'omicidio di Francesco Fortugno, il vice presidente del consiglio regionale della Calabria ucciso a Locri mentre usciva dal seggio per le primarie dell'Unione. Oggi, in occasione del sesto anniversario dal delitto, nel corso della celebrazioni, ancora una volta è stato lanciato un appello affinchè le indagini facciano chiarezza su tutte gli aspetti dell'omicidio. Il primo a sollevare qualche dubbio è stato il vice presidente del Senato, Vannino Chiti, il quale è difficile credere che «ad organizzare tutto questo sia stato un semplice caposala».

 Il riferimento di Chiti è ad Alessandro Mancianò nei confronti del quale, insieme al figlio Giuseppe, la Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria ha confermato la condanna all'ergastolo perchè ritenuti i mandanti dell'omicidio. Il 24 marzo scorso i giudici di secondo grado alla confermato la condanna all'ergastolo anche per Salvatore Ritorto e Domenico Audino ritenuti gli autori materiali dell'omicidio. Alle perplessità di Chiti si aggiungono quelle della vedova di Fortugno, l'On. Maria Grazia Laganà, la quale nonostante i due processi ci sono ancora «troppe stranezze e fatti da chiarire». Ed è proprio in questo quadro che si innesca la decisione della commissione parlamentare antimafia di approfondire la vicenda sull'omicidio Fortugno. Nel giugno scorso il Procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, ha inviato una lettera alla commissione antimafia, così come riportato dal blog di Roberto Galullo 'Guardie o Ladrì, nel quale si afferma che sono state disposti nuovi accertamenti su una intercettazione, fatta il 13 ottobre del 2005, nei confronti del boss Mico Libri nel quale ci sarebbe una sorta di riferimento a quanto sarebbe avvenuto nella locride a distanza di pochi giorni. Dopo la morte di Fortugno quella intercettazione non fu utilizzata perchè ritenuta «incomprensibile» ed il perito nominato dalla Procura non era riuscito ad effettuare la trascrizione.

Nella lettera di Pignatone all'antimafia del giugno scorso si afferma che «Š stato richiesto alla Squadra mobile di Reggio Calabria un'ulteriore attivit… investigativa su tutte le persone e i fatti che emergono o emergeranno dalla conversazione in esame». Successivamente alla risposta di Pignatone i componenti dell'antimafia, i parlamentari Luigi De Sena e Luigi Li Gotti, hanno ottenuto dal Presidente, Beppe Pisanu, che ci fosse una risposta definitiva e pi— precisa che, secondo il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, arriverà nei prossimi giorni. «Ci sono state - afferma Grasso - delle indagini che abbiamo concluso. Ora bisogna avere pazienza e tra alcuni giorni si saprà se quella telefonata è legata al caso Fortugno». Nel corso della manifestazione svoltasi oggi a Locri il presidente del consiglio regionale della Calabria, Francesco Talarico, è giunto, infine, ha affermato che il modo migliore per onorare la memoria di Fortugno consiste «nell'impegno quotidiano di istituzioni e cittadini della Calabria civile e onesta nel combattere e sconfiggere la criminalità organizzata».

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del sesto anniversario del vile assassinio di Franco Fortugno, in un messaggio ha espresso alla signora Maria Grazia Laganà, il suo commosso pensiero: «Rinnovare e celebrare il ricordo di chi, come suo marito, ha pagato con la vita l'impegno al servizio delle Istituzioni, non deve essere soltanto espressione di vicinanza a chi ha subito la perdita dei propri cari, ma deve anche fungere da stimolo per rafforzare nella collettività la cultura del rispetto delle regole contro ogni forma di violenza e sopraffazione. L'importante iniziativa da lei promossa testimonia la mobilitazione della società civile e, in specie, dei giovani contro una delinquenza agguerrita e pervasiva; consente poi di rinnovare il deciso sostegno delle Istituzioni e delle Forze politiche e sociali all'attività che la Magistratura e le Forze dell'Ordine stanno svolgendo con determinazione, coraggio e crescenti risultati per contrastare l'aspirazione delle organizzazioni criminali al controllo del territorio».

(Fonte: ANSA).

venerdì 14 ottobre 2011

LA PROCURA GENERALE DI CALTANISSETTA CHIEDE REVISIONE PROCESSI VIA D'AMELIO

Roberto Scarpinato, Procuratore Generale del Tribunale di  Caltanissetta, ha chiesto la revisione dei processi 'Borsellinò e 'Borsellino-bis'. Sono 11 gli imputati, 7 hanno avuto l'ergastolo, condannati per la strage di via D'Amelio, per i quali è stato chiesto un nuovo giudizio. L'istanza nasce dalle nuove rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. L'istanza - trasmessa alla corte d'appello di Catania - riguarda Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Gaetano Scotto, Gaetano Murana (condannati all'ergastolo) e Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura, Salvatore Tomaselli e Giuseppe Orofino (condannati a pene fino a 9 anni). Per i condannati detenuti il pg chiede la sospensione dell'esecuzione della pena; per Orofino, Tomaselli e Candura, che hanno già espiato la condanna, è stata chiesta solo la revisione

martedì 11 ottobre 2011

CIRO ROSSETTI, OPERAIO DELL'ALFA SUD, UCCISO L'11 OTTOBRE 1980

Ciro Rossetti, operaio dell'Alfa sud, venne ucciso l'11 ottobre 1980, nel corso di una sparatoria tra bande di camorristi. Quel giorno era a casa della mamma, a San Giovanni A Teduccio a guardare una partita della nazionale Italiana insieme alla sua famiglia. La storia qui pubblicata è tratta dal mio libro "Al di là della notte" ed. Tullio Pironti
----

È l’11 di ottobre del 1980. Gioca la nazionale italiana di calcio con i dilettanti del Lussemburgo. È l’Italia di Bearzot che si candida a vincere i mondiali in Spagna del 1982. Ci sono molte aspettative. La partita è di quelle da non perdere. È sabato pomeriggio e tutti i tifosi dell’Italia non si lasciano scappare l’occasione. Anche Ciro Rossetti, che fa l’operaio all’Alfasud di Pomigliano d’Arco, non vuole perdere l’avvenimento sportivo. Così va a casa della mamma, Cristina Mansueto, che abita in un basso di due stanze a San Giovanni a Teduccio. «Mamma, oggi vengo a vedere la partita dell’Italia da te insieme ai miei fratelli». Ciro, trentun anni, è padre di due bambini, Gennaro di quattro anni e Cristina di un anno, avuti dal matrimonio con Antonietta Lamberti, casalinga. Parte dopo pranzo da casa sua. Abita a Barra, al Rione Bisignano. La partita di quel pomeriggio è anche l’occasione per stare insieme all’anziana madre. Ciro arrivò un’ora prima. Ci mette poco per percorrere strade che spaccano popolosi quartieri degradati. Le stesse strade che portano anche lungo il «Miglio d’oro», verso Portici, Ercolano, fino a Torre del Greco, piene di splendide ville vesuviane costruite a partire dal Settecento.

Il sabato, a quell’ora, le piccole attività industriali erano tutte chiuse. Le strade quasi deserte. Sui marciapiedi, improvvisati venditori di bandiere italiane. Ciro voleva fermarsi a comprarne una per i bambini della famiglia. Ne avrebbero avuto piacere. A guardare la partita in Tv c’è anche la sorella Michelina, con il figlio Ciro, di otto anni, e il marito Angelo. E poi un altro fratello di Ciro, Alberto. Ma tirò dritto. Non sarebbe arrivato in tempo per il fischio d’inizio. Pensò che da qualche parte a casa della mamma una bandiera della nazionale ci doveva pur essere. Quand’era più giovane ne aveva sempre una a portata di mano. Magari nessuno l’aveva buttata via. La mamma aveva promesso di preparargli un dolce per quel pomeriggio e non voleva tardare. Arrivò all’ora promessa. Alle quattro in punto cominciano gli inni nazionali. L’Italia gioca con la sua formazione migliore di quel momento. Nando Martellini, il telecronista che accompagna con la sua voce la nazionale, la scandisce, come sempre, in modo da far rabbrividire i tifosi: «Zoff, Gentile, Baresi, Oriali, Collovati, Scirea, Causio, Tardelli, Altobelli, Antognoni, Bettega». Tutti zitti, si comincia.

Si preannuncia una goleada dell’Italia. Ciro, seduto sul divano, mentre la mamma in cucina prepara un buon caffè. L’Italia gioca fuori casa e la giornata è freddissima. La partita non è molto divertente, ma al 32’ Collovati con un colpo di testa porta in vantaggio l’Italia. Ciro e tutta la famiglia esultano, si alzano in piedi, esattamente come le migliaia di italiani sugli spalti dello stadio, giunti in Lussemburgo dalla Francia, dalla Germania e dal Belgio per tifare Italia. Ed è poco dopo il gol degli azzurri che Ciro sente dei botti provenire dall’esterno dell’abitazione. «Staranno già festeggiando? Ma la partita non è finita. Chi sarà mai?», dice Ciro ai fratelli che stanno guardando la partita con lui. Allora, incuriosito, insieme al fratello Alberto esce sull’uscio per vedere cosa sta accadendo fuori. Apre la porta a vetri che guarda direttamente sulla strada. Passa in quel momento un’Alfasud con a bordo almeno tre persone. Una di quelle auto che lui probabilmente ha contribuito a costruire proprio nella sua fabbrica. Uno ha il braccio teso e sporgente fuori dall’auto dal lato anteriore destro e in mano ha una pistola. Da quella pistola partono diversi colpi a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro. Ciro non avrà nemmeno il tempo di accorgersi che quelli che ha sentito non sono botti per festeggiare la nazionale, ma colpi di arma da fuoco. «All’epoca a Napoli era in atto una guerra tra clan camorristici per il controllo del contrabbando di sigarette», racconta Giacomo Lamberti, il cognato di Ciro. «Come poi fu appurato, nel quartiere dove risiedeva la famiglia di mio cognato, era in atto una caccia all’uomo. Un gruppo di malviventi inseguiva un pregiudicato, Ciro Sorrentino, che doveva essere ucciso dai rivali. Durante la gara tra l’Italia e il Lussemburgo si cominciarono a sentire degli spari. Ciro Rossetti ebbe la sventura di affacciarsi sull’uscio di casa e fu colpito da un proiettile all’occhio sinistro. Morì poco dopo».

Le grida di disperazione di tutta la famiglia si odono presto per tutto il quartiere. Il dramma si consuma davanti alla mamma e ai fratelli che assistono increduli a quello che è accaduto al congiunto che poco prima esultava per il gol dell’Italia. È il fratello Alberto ad accompagnarlo all’ospedale. A fatica il corpo di Ciro viene caricato sull’auto che partirà a tutta velocità. Ma la corsa sarà vana. Il proiettile che lo ha colpito all’occhio sinistro è stato mortale. Ciro muore al Loreto Mare. Quel giorno il cognato Giacomo Lamberti riceve una telefonata dalla mamma: «Corri, vai all’ospedale, è successo qualcosa a Ciro, il marito di Antonietta. Abbiamo ricevuto una telefonata, ma non sappiamo bene cosa è successo». Giacomo parte e va. Arriva di corsa in ospedale dove Alberto lo informa dell’accaduto. Ciro, intanto, non ce l’ha fatta. Ormai è morto. Una morte che davvero non ha un senso, non ha una ragione. La vita stroncata di un ragazzo che ha davanti a sé ancora i migliori anni da vivere, diventa una cosa assurda per i familiari che non lo rivedranno mai più. Per i figli che non avranno un padre, per una moglie che non gli potrà più parlare, per una mamma che non avrà più il frutto della sua carne.

A Giacomo tocca il triste compito di informare la famiglia che Ciro non tornerà più a casa dai suoi figli. Nel frattempo, a casa della mamma di Ciro Rossetti la televisione è ancora accesa. L’Italia continua a giocare. Nella disperazione nessuno più la guarda e nessuno ha avuto la briga di spegnerla. Hanno solo abbassato il volume. È il secondo tempo. Siamo al 32’, stesso minuto del primo tempo. Segna Bettega. Italia 2, Lussemburgo zero. Nessuno se ne accorge. Nessuno esulta. Non c’è più gioia in quella casa. È morto Ciro. Un giovane operaio dell’Alfasud.

Quella sparatoria fu ricostruita nei minimi dettagli dalle forze dell’ordine alcune settimane dopo. Ad affrontarsi erano in sei per regolare un conto in sospeso a colpi di pistola. Tre da una parte (Carmine Orso, Gennaro Limatola e Salvatore Piccolo) e tre dall’altra (Ciro Sorrentino, Luigi D’Alessandro e un altro non ancora identificato all’epoca). Ciro Sorrentino, che doveva essere ucciso, fu ferito gravemente e arrivò al Loreto Mare trasportato da un’ambulanza, un’ora dopo l’arrivo di Ciro Rossetti.

Il colpo mortale che raggiunse Ciro Rossetti sarebbe partito proprio dal gruppo che spalleggiava Ciro Sorrentino. Quest’ultimo fu arrestato in ospedale con l’accusa di omicidio pluriaggravato. «La morte di Ciro è stata un dramma», dice ancora il cognato, Giacomo Lamberti, «sia perché è finita una vita così giovane in maniera ingiusta, dolorosa, straziante, sia perché ha reso vittime della camorra anche quelli che sono rimasti. Casi come questo lasciano completamente sola una famiglia. Ciro era l’unico sostentamento economico per i suoi cari. Lasciare una famiglia con figli piccoli senza i soldi per vivere rende soli, isolati, vittime anche loro». Giacomo cercò in tutti i modi di far assumere Antonietta, la moglie di Ciro, all’Alfasud al posto del marito. All’epoca l’Alfasud aveva circa 16.000 dipendenti. Un tentativo che andò a vuoto per l’insensibilità della dirigenza dell’Azienda. Quello di Ciro Rossetti era il 93° omicidio di camorra del 1980. La notizia della sua morte ebbe solo piccoli spazi nelle cronache dei giornali locali. Antonietta, rimasta sola con i due figli, si ritrovò accanto unicamente la sua famiglia. L’unica a dargli tutto l’aiuto necessario, anche psicologico, per andare avanti e sopportare che il suo Ciro ora lo poteva incontrare solo in una tomba al cimitero.

IGNAZIO DE FLORIO, AGENTE DI CUSTODIA, UCCISO A CARINOLA L'11 OTTOBRE 1983, SENZA UN MOTIVO

Ignazio de Florio, agente di custodia nel carcere di Carinola, è una delle vittime dimenticate. Venne ucciso nello stesso giorno e quasi alla stessa ora  in cui fu ammazzato  Francesco Imposimato, a circa 50 chilometri di distanza. Ho ricostruito questa vicenda che presenta ancora molti lati oscuri e uscirà tra breve in una mia prossima pubblicazione.
-----

Sono le 16,00. Il turno è finito. Ne inizia un altro. I corridoi si animano di voci. Il rumore delle chiavi che girano nelle serrature per chiudere e aprire i cancelli dei reparti, rompe il silenzio che accompagna lo scorrere del tempo nel carcere di Carinola. Qui anche il cambio del turno degli agenti di custodia serve a spezzare la monotonia e la durezza dei luoghi. Qualche carcerato si alza dal letto, allunga le mani fuori dalle sbarre. Saluta i nuovi arrivati. Gesti che si ripetono ogni giorno e sempre uguali nella casa di pena. Il penitenziario di Carinola è stato riaperto dopo il terremoto del 23 novembre 1980 per ospitare i detenuti della criminalità organizzata, soprattutto quelli legati al clan di Raffaele Cutolo, la Nuova Camorra Organizzata (Nco). Fuori, nonostante la giornata autunnale, la temperatura è ancora tiepida. Siamo all’inizio di ottobre. E’ anche tempo di vendemmia e l’aria profuma di mosto che fermenta nelle botti nelle case dei contadini attorno al carcere. Dopo alcuni minuti si apre il portone dell’istituto di pena. Escono le auto. Sono quelle degli agenti di custodia che hanno smontato. Scene quotidiane. Si torna a casa. Esce per prima una Peugeot 304 di colore grigio-azzurro. La guida Ignazio De Florio, un giovane agente di 24 anni. Fa in fretta perché  lo sta aspettando la giovane moglie, Angelina Cozza. Dopo qualche minuto, a bordo di una Fiat 128, di colore verde,  esce anche un altro agente, Carlo De Nunzio. Tutte e due le auto imboccano la strada provinciale Carinola-San Donato. Procedono a circa cento metri di distanza l’una dall’altra. Lungo il percorso, ad un paio di chilometri dal carcere, c’è una Ford Fiesta di colore blu. Dentro ci sono delle persone, ma non sono loro amici. Sono lì per eseguire una sentenza di morte. Devono ammazzare un agente di custodia del carcere di Carinola. Vogliono seminare il terrore tra chi è preposto a mantenere l’ordine all’interno delle carceri. Gli agenti di custodia sono da alcuni anni nel mirino del terrorismo e della criminalità organizzata perché accusati di maltrattare i detenuti. Ammazzarne uno è come dare un segnale chiaro agli altri: “Stai attento, perché il prossimo puoi essere proprio tu”.  La Peugeot di Ignazio De Florio corre veloce verso casa. Dalla Ford Fiesta lo vedono arrivare. “Eccolo. State pronti” dice uno di loro. Nelle settimane precedenti i killer avevano già fatto dei sopralluoghi in zona per controllare gli orari degli agenti. Hanno deciso di colpire nella parte più isolata e dove ci sono vie di fuga più agevoli: Lungo la strada provinciale Carinola-San Donato. I killer hanno calcolato bene il percorso. Sono passati appena una diecina di minuti dalla fine del turno. Nell’auto preparano le pistole. Le impugnano con decisione. L’autista della Ford Fiesta accende il motore. Aspetta che la Peugeot li sorpassi. Pochi attimi e passa Ignazio De Florio e non ci fa nemmeno caso a quell’auto che lo sta aspettando. “Ora!… Vai!…”. Fa il killer seduto a fianco del guidatore.

La strada non è molto larga. La Ford Fiesta raggiunge e  affianca la Peugeot guidata da De Florio. Dai finestrini della Ford si sporgono due braccia che impugnano pistole. Mirano all’autista. Vogliono uccidere. Sparano numerosi colpi. Ignazio De Florio viene colpito ripetutamente. L’auto sbanda. Va a fermarsi poco più avanti nella cunetta laterale. I killer scendono dall’auto, vogliono finirlo.  Gli sparano il colpo di grazia. Dietro, c’è un’altra auto, quella di Carlo De Nunzio. Il militare vede la scena, ma non fa in tempo ad intervenire. Sparano anche contro di lui. Due colpi passano di striscio sul tetto della sua fiat 128. Si ferma. Ingrana la retromarcia, ma finisce nel fosso a lato della strada. Per uscire dall’auto e scappare, si infila dal finestrino anteriore. Corre nelle campagne per sfuggire all’agguato. Dopo pochi minuti riesce ad arrivare al carcere. E’ lui che dà l’allarme. “Hanno sparato ad un collega. Non so se l’hanno ucciso. Poi hanno sparato anche contro di me, ma sono riuscito a scappare”. Subito dopo Carlo De Nunzio si sente male e viene portato nell’infermeria del carcere. Sul posto accorrono il comandante degli agenti di custodia e il direttore del carcere. Vengono allertati anche i carabinieri. Saranno proprio questi ultimi ad accorgersi che Ignazio De Florio mostra ancora segni di vita. Così con un ambulanza lo fanno trasportare all’ospedale di Teano, ma muore poco dopo. Sono le 17 dell’11 ottobre del 1983. Venti minuti dopo, a Maddaloni, a cinquanta chilometri di distanza, un altro commando ammazza Francesco Imposimato, il fratello del giudice Ferdinando.

L'11 OTTOBRE 1983 LA CAMORRA UCCIDE FRANCESCO IMPOSIMATO E FERISCE LA MOGLIE MARIA LUISA ROSSI


L’11 ottobre del 1983, la camorra legata alla mafia siciliana, il clan Nuvoletta-Lubrano per intenderci, uccideva Francesco Imposimato e feriva gravemente sua moglie, Maria Luisa Rossi. Fu una vendetta trasversale contro il giudice Ferdinando Imposimato, fratello di Franco, che indagava,  a Roma, nei confronti della banda della Magliana e della mafia siciliana. Il magistrato era troppo protetto per ammazzarlo. Così scelsero un parente. Una vittima ignara ed indifesa. Franco Imposimato e la moglie, Maria Luisa, erano impiegati di una fabbrica di Maddaloni, la Face Standard. L’agguato avvenne appena finito il turno di lavoro.

Franco Imposimato con i figli Giuseppe e Filiberto


Qui di seguito il racconto dell’agguato tratto dal mio libro “Al di là della notte” – Ed. Tullio Pironti

“…L’agguato avvenne di martedì, un giorno lavorativo come tanti altri. Franco e Maria Luisa stavano uscendo dalla fabbrica. Il tempo di timbrare il cartellino e di arrivare all’auto, una Ford Escort verde, e poi si sarebbero diretti verso la scuola dei propri figli. Erano oramai le diciassette e trenta e i bambini stavano già aspettando. Dopo aver percorso pochi metri dall’uscita, arrivarono in via Campolongo, all’incrocio tra via Sauda e via Montevergine. C’era un’auto ferma quasi nella curva. Franco, nel fare la manovra di sorpasso, rallentò. La macchina, una Fiat Ritmo, non aveva alcuna intenzione di muoversi da lì. Fu a quel punto che si materializzarono due uomini. Arrivarono quasi di corsa. Uno si avvicinò a Franco, dal lato del guidatore e l’altro a fianco della moglie. Impugnavano una 357 Magnum e una 38 Special. I due coniugi non ebbero il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo. Forse solo Puffi, il barboncino che era in auto con loro e che portavano ogni giorno al lavoro per non lasciarlo solo a casa, ebbe la percezione del pericolo. Puffi cominciò ad abbaiare sempre più forte. «Che hai, Puffi?», chiese Franco. Maria Luisa, invece, si girò per accarezzarlo e farlo calmare.

Fu in quell’attimo che i due sicari della camorra cominciarono a sparare. Gli sguardi di Franco e Maria Luisa si incrociarono. Fu anche l’ultima volta. Non ebbero il tempo di dirsi niente. Franco Imposimato venne colpito da undici colpi di pistola. Morì quasi subito «per shock emorragico e traumatico», fu accertato. Maria Luisa, invece, fu colpita al petto. Il killer le sparò due colpi diretti al torace. Uno le bucò tutti e due i polmoni. Fuoriuscì dalla schiena fratturandole una costola e sfiorandole il cuore di qualche centimetro. L’altro, invece, rimase conficcato nel braccio sinistro. Nonostante il dolore forte, la moglie di Franco riuscì ad aprire lo sportello. Fece qualche passo, ma cadde a terra svenuta. Si salvò dopo essere stata ricoverata in ospedale per più di un mese in gravi condizioni. Tra i primi a chiedere aiuto ci fu anche Puffi, il barboncino. Scese dalla macchina senza un graffio e ritornò di corsa in fabbrica. Si fece capire. Portò sul luogo dell’agguato i primi soccorritori.


Maria Luisa Rossi
I due figli piccoli, Giuseppe e Filiberto, avevano nove e sette anni e quel giorno, l’11 ottobre del 1983, erano andati regolarmente a scuola. Come sempre il papà, Franco, e la mamma, Maria Luisa Rossi, sarebbero passati a prenderli dopo le diciassette e trenta, appena finito il turno di lavoro alla Face Standard. Una fabbrica manifatturiera sorta alla fine degli anni ’60 ubicata appena fuori città, dove lavoravano più di mille persone. Erano impiegati nell’ufficio acquisti. Quel giorno, però, a prendere i due ragazzi a scuola ci andarono alcuni amici di famiglia. «Papà e mamma non sono potuti venire», si sentirono dire Giuseppe e Filiberto, «hanno avuto improvvisamente da fare». Ma non immaginavano minimamente che poco prima c’era stato un agguato nei confronti dei loro genitori. Da quel giorno la loro vita sarebbe stata segnata per sempre. «Come si fa a scordare quei momenti», racconta con un filo di voce Giuseppe, il primogenito, «io e mio fratello eravamo a scuola al convitto nazionale di Maddaloni. Lì era più comodo per la mia famiglia, perché ci tenevano per tutta la giornata. Ci venne a prendere un loro collega di lavoro e ci portò a casa sua. Ci disse che mamma e papà erano fuori per lavoro. Ricordo che stemmo in ansia per tutto il tempo. Sino ad allora non ci avevano mai lasciati soli».


«Mia madre riconobbe in Antonio Abbate uno dei killer che le sparò», riprende a raccontare Giuseppe. «Stava sul lato destro della macchina. Lo descrisse come “un uomo non molto alto, giovane, grassottello, piuttosto scuro di pelle, con due rughe che solcavano le guance, con i capelli di colore nero tirati all’indietro”. Dell’altro, invece, riuscì a vedere solo le gambe. Niente di più». Il primo a parlare dell’assassinio di Franco Imposimato fu il pentito del clan dei Casalesi Carmine Schiavone. Confermò che i due killer di cui aveva parlato Maria Luisa Rossi erano Raffaele Ligato e Antonio Abbate, appartenenti al clan Lubrano-Nuvoletta di Pignataro Maggiore. Un clan affiliato a Cosa nostra siciliana e fedele alleato dei Corleonesi di Totò Riina.

«Sono stato sempre curioso di sapere che faccia avessero gli assassini di mio padre», dice Giuseppe con una vena di rabbia, «li ho sempre immaginati come mostri. Perché solo dei mostri potevano avere il coraggio di uccidere una persona dolce come il mio papà. E quando li ho incontrati, durante il processo, non sono riuscito a provare sentimenti negativi. Sono rimasto indifferente. È stato Vincenzo Lubrano ad avvicinarmi e a ripetere insistentemente: “Mi dovete credere, mi dovete credere, io non c’entro niente”. In lui vedevo solo un uomo anziano. E pur sapendo che era uno dei mandanti dell’omicidio di mio padre, non riuscivo a provare odio nei suoi confronti. Poi ho incontrato anche Raffaele Ligato, uno di quelli che aveva sparato ai miei genitori. E anche lui mi era indifferente». Per Filiberto, invece, è stato diverso. «Sì, lo ammetto. Io li ho odiati», dice con decisione il ragazzo, «hanno rovinato la vita della mia famiglia. Hanno fatto soffrire mia madre fino a farla morire di dolore. Non ci riesco a rimanere indifferente». Giuseppe sta per mettere su un’altra famiglia. Fra qualche mese si sposerà. «La vita va avanti», dice il primo figlio di Franco Imposimato, «anche se il dolore ti resta dentro e non lo puoi mai eliminare. È come una spina che hai dentro la carne. Può restare lì per anni, ma quando la vai a toccare ti fa sempre male. È come una cicatrice mai rimarginata. Tutto questo me lo porterò dentro fino alla morte. Come si fa a dimenticare tutto quello che abbiamo passato? Come si fa a dimenticare che c’era chi non voleva frequentare la famiglia Imposimato perché aveva paura? Come si fa a dimenticare che c’era chi non faceva giocare i propri figli con noi, togliendoci anche il saluto? Ricordo l’espressione triste del volto di mia madre quando ci raccontava che alcune persone non la salutavano e avevano paura a frequentarla. È come se i criminali fossimo stati noi che abbiamo subito la morte di mio padre e non quelli che hanno sparato.

Il processo per l’assassinio di Franco Imposimato e il ferimento della moglie, Maria Luisa Rossi, si è concluso in Cassazione con la condanna all’ergastolo dei mandanti (Pippo Calò eVincenzo Lubrano, morto nel 2007) e degli esecutori materiali (Antonio Abbate e Raffaele Ligato). Uno dei mandanti, Lorenzo Nuvoletta, è morto prima che venissero riaperte le indagini. Franco Imposimato il 19 dicembre di quel 1983 avrebbe compiuto quarantaquattro anni.

sabato 8 ottobre 2011

USTICA: FAMILIARI VITTIME, SERVE COMMISSIONE INDAGINE A PARLAMENTO UE

Si appellano al parlamento Europeo i  familiari delle vittime della strage di Ustica per avere giustizia. Oggi hanno formalizzato questa loro intenzione   a Palermo, dove hanno dato mandato agli avvocati Daniele Osnato e Alfredo Galasso, che si sono occupati del procedimento risarcitorio, di «avviare una petizione all'Europarlamento per chiedere l'istituzione di una Commissione d'indagine temporanea che accerti quindi, anche a livello europeo, le reali responsabilità da parte di altri paesi dell'Unione, a cominciare dalla Francia, più volte citata nelle rogatorie dei giudici, fino ad arrivare -si legge in una nota- agli Stati Uniti e all'Inghilterra». Alla stessa commissione «sarà richiesto, in seguito alla caduta del regime del rais Muammar Gheddafi di accedere a tutti quegli archivi fino ad oggi mai messi a disposizione dell'autorità inquirente» per fare luce su una vicenda «dai contorni non chiari, soprattutto per la mancanza di volontà di diversi Stati europei e non solo di scoprire tutti i fatti a loro noti sulla strage, spesso coperti da segreto di Stato».

«Soddisfatti del successo della sentenza di Palermo - ha dichiarato l'avvocato Daniele Osnato - intendiamo andare ancora più a fondo, spingendo oltre i confini nazionali la ricerca della verità». Un'azione che «si rende necessaria non solo per i familiari delle vittime, che per oltre trent'anni hanno sofferto fino a pochi giorni fa senza sapere le ragioni della strage, ma anche per arrivare a descrivere una volta per tutti i contorni e i nomi dei responsabili materiali e quelli dei mandanti». «Intanto - conclude l'avvocato Osnato - dopo questo primo successo giudiziario ottenuto con la sentenza, l'incontro di oggi con quasi tutti i familiari rappresenta un dato significativo d'unione tra tutti coloro hanno sofferto per la scomparsa dei loro cari in quella maledetta notte del 1980».

PALERMO: FESTIVAL LEGALITÀ CELEBRA GIORNALISTA MARIO FRANCESE


Fu il primo ad intuire la pericolosità di un gruppo di mafioso come i Corleonesi guidati da Totò Riina. Mario Francese, giornalista, ucciso il 26 gennaio del 1979 per queste sue intuizioni e per le sue denunce, è stato ricordato al Festivale delal legalità di palermo. Un festival arrivato alla  4/a edizione e  che a Palermo, per sette giorni, ha ospitato dibattiti e mostre sulla lotta alla criminalità organizzata. La giornata di oggi è interamente dedicata alla memoria di Mario Francese, il giornalista ucciso dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Francese fu l'unico a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella, e il primo a capire i nuovi interessi della mafia corleonese. Per ricordare il suo giornalismo investigativo è stato presentato, nella sala magna di palazzo Steri, il libro 'Il quarto comandamentò, di Francesca Barra, vincitrice lo scorso anno del premio intitolato al giornalista siciliano. All'incontro, moderato da Roberto Puglisi. Presenti il magistrato Laura Vaccaro, Giulio Francese, primogenito di Mario e il consigliere dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia, Riccardo Arena. Con loro, anche alcuni studenti di Palermo. «Sono felice che, dopo 32 anni, si parli di mio padre Mario Francese e di mio fratello Giuseppe, con il primo libro scritto sul loro conto - ha detto il figlio Giulio, rivolgendosi ai ragazzi -. Eliminando Mario Francese, la mafia ha riconosciuto, ahimè, il valore professionale che altri colleghi non hanno avuto in quegli anni, mentre erano ancora vivi boss di primo piano. Eppure, dopo la sua morte, è calata una cappa di silenzio preoccupante».

Nel libro non mancano, infatti, riferimenti anche agli anni bui in cui l'omicidio Francese viene dimenticato. L'inchiesta archiviata verrà riaperta soltanto su richiesta della famiglia molti anni dopo e la sentenza arriverà nel 2001, con sette condanne, tra cui quella a 30 anni per il boss Totò Riina e altri componenti della cupola, come Leoluca Bagarella e Michele Greco, oltre all'ergastolo per Bernardo Provenzano. Nelle motivazioni della sentenza i giudici scriveranno che, con l'uccisione di Francese, è stata eliminata «una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all'opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all'interno di Cosa nostra, in grado di anticipare gli inquirenti nell'individuare nuove piste investigative. Con la sua morte si apre la stagione dei delitti eccellenti».

 All'incontro è intervenuta anche Laura Vaccaro, magistrato che ha riaperto le indagini sul processo agli assassini di Mario Francese. «Sono un sostituto procuratore che appartiene alla categoria dei 'mentalmente disturbatì, come sono stati definiti i pm - ha detto il magistrato -. Il processo è stato possibile per la forza dei figli e perchè noi magistrati abbiamo potuto utilizzare degli strumenti importanti, come i collaboratori di giustizia, da utilizzare con equilibrio. Oggi questo elemento è visto negativamente.

Un altro strumento fondamentale è quello delle intercettazioni, delle quali non abbiamo potuto disporre nel processo Mario Francese, ma che ci permettono di combattere la mafia non con la clava, ma con le armi giuste. Il problema vero è la paura di quello che le intercettazioni possono rivelare». «Quando ho pronunciato la requisitoria al processo - ha aggiunto il sostituto procuratore - ricordo la dignità, l'abbraccio silenzioso e commosso della famiglia Francese, quando è stata emessa la sentenza di primo grado». «Molte storie di mafia vengono raccontate e scoperte grazie a film e sceneggiati, che le portano alla ribalta, non è stato così per Mario Francese, sconosciuto a molti. Ho voluto scrivere un libro che fosse accessibile a molti, per fare conoscere la storia di una famiglia e perchè la memoria è un esercizio d'amore». Ha sottolineato Francesca Barra, conduttrice radiofonica del programma 'La bellezza contro le mafiè, spiegando il senso del proprio libro 'Il quarto comandamentò, sulla storia del giornalista Mario Francese, presentato allo Steri di Palermo.

«Per 20 anni i familiari hanno dovuto convivere con una morte non riconosciuta, con un abbandono delle istituzioni e con un giornale all'epoca non coraggioso come il suo cronista», ha poi fatto notare Silvia Francese, nipote di Mario, leggendo alcuni passaggi tratti dal volume. «Fare memoria vuol dire essere coerente con i propri principi, porsi delle domande, capire chi sceglie di pubblicare una notizia e come lo fa, essere informati e responsabili, altrimenti non ha senso ricordare chi si è sacrificato per la mafia», il commendo di Giulio Francese, che ha ricordato la figura del padre agli studenti palermitani presenti nello Steri durante la giornata del festival della Legalità dedicata al giornalista ucciso. «Nel congedarsi dalla redazione, Mario Francese amava ripetere 'Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vadò - ha aggunto Giulio - lo dico per invitarvi a scoprire anche il lato sorridente di mio padre, ricordato nel libro».

CENTRO DON PUGLISI A RIINA JR,VIENI A LAVORARE DA NOI

Il centro Padre Nostro di Brancaccio, che sorge nel quartiere di Palermo dove 18 anni fa Cosa nostra uccise don Pino Puglisi, hanno invitato il figlio di Totò Riina a lavorare da loro. La notizia è stata pubblicata oggi, sull'edizione palermitana di Repubblica. I 'discepolì del parroco antimafia sono disposti ad aprire le porte del centro a Giuseppe Salvatore Riina, dopo che il figlio del boss è stato scarcerato per fare ritorno nella 'suà Corleone. «Già da 18 anni prendiamo gli affidamenti in esecuzione penale esterna - dichiara il presidente del centro, Maurizio Artale -. La nostra non è una provocazione, crediamo che questo sia il luogo dove lui può veramente dimostrare, se ha deciso di fare questo, di dare un taglio netto con la vita del passato, quella sua e quella dei genitori. Il padre di Giovanni Riina ha mandato gli esecutori ad ammazzare Puglisi, dunque forse questo è proprio il posto giusto dove si può redimere, come ha fatto Grigoli pentendosi e facendo i nomi di chi lo ha mandato ad ammazzare Puglisi». Nel centro fondato da don Pino Puglisi lavorano già otto persone, che scontano la pena fuori dal carcere, ma anche una quindicina di ex detenuti e alcuni volontari che da anni puntano al riscatto di Brancaccio e si adoperano per il ripristino della legalità a Palermo. Giuseppe Salvatore Riina vorrebbe lavorare in un'associazione no-profit a Padova, ma è costretto a soggiornare a Corleone, dopo avere scontato otto anni e 10 mesi per mafia.

venerdì 7 ottobre 2011

PREMIO ANCI-LEGAMBIENTE IN MEMORIA DI ANGELO VASSALLO

Mantenere vivo l'impegno di Angelo Vassallo il 'sindaco pescatore', ucciso a Pollica nel settembre 2010, e valorizzare le migliori esperienze dei Comuni impegnati a promuovere il rapporto tra ambiente, sviluppo economico e legalita'. Questo il senso del premio 'Angelo Vassallo', promosso da Anci e Legambiente, presentato in una conferenza stampa che si e' tenuta nell'ambito della XXVIII Assemblea dell'Anci di Brindisi. Alla presentazione hanno partecipato Giuseppe Cicala, delegato Anci alle Politiche della legalita'; Mauro Guerra, vicepresidente dell'Anci e coordinatore nazionale consulta piccoli Comuni, Vincenzo Cuomo, presidente Anci Campania; Stefano Pisani, sindaco del Comune di Pollica; Antonio Vassallo, figlio di Angelo e assessore dello stesso Comune. Potranno concorrere al premio tutti i Comuni con popolazione non superiore ai 5 mila abitanti, che abbiano realizzato progetti di tutela e promozione del territorio. I progetti pervenuti saranno esaminati da una commissione di valutazione appositamente costituita; mentre il premio consistera' tra l'altro in libri da consegnare alle biblioteche del territorio, nella realizzazione di un video istituzionale sulle attivita' del Comune e la possibilita' di avere una vetrina promozionale sugli strumenti media dell'Anci.

A decidere i progetti vincitori sara' una giuria formata, oltre che dall'Anci e da Legambiente da rappresentanti di Slow food, Libera e Federparchi. Il premio 'Vassallo' ha un forte valore simbolico e vuole essere uno dei veicoli per la diffusione di buone pratiche mirate alla trasparenza nelle procedure della pubblica amministrazione per la realizzazione di interventi di sviluppo locale. ''Abbiamo pensato a questo premio per ricordare Angelo Vassallo e mantenere vivo il suo impegno nella lotta alle pratiche illegali e nella difesa dell'ambiente, ma anche come occasione per diffondere buone pratiche realizzate dai Comuni'', ha sottolineato Giuseppe Cicala. ''Angelo Vassallo e' stato un grande sindaco per tutti i Comuni e in particolare per quelli piu' piccoli'', ha detto da parte sua Mauro Guerra, evidenziando la valenza del premio. ''Il suo impegno ha dimostrato che la legalita' e la trasparenza devono essere strumento per far crescere buone amministrazioni e occasioni di sviluppo per i territori. Per questo motivo - ha concluso il vicepresidente dell'Anci e coordinatore nazionale consulta dei piccoli Comuni - sono particolarmente orgoglioso di promuovere questo premio: le battaglie di Angelo sono quelle che vedono impegnati migliaia di amministratori di piccoli Comuni''. 

(Fonte:ANSA).