martedì 11 ottobre 2011

L'11 OTTOBRE 1983 LA CAMORRA UCCIDE FRANCESCO IMPOSIMATO E FERISCE LA MOGLIE MARIA LUISA ROSSI


L’11 ottobre del 1983, la camorra legata alla mafia siciliana, il clan Nuvoletta-Lubrano per intenderci, uccideva Francesco Imposimato e feriva gravemente sua moglie, Maria Luisa Rossi. Fu una vendetta trasversale contro il giudice Ferdinando Imposimato, fratello di Franco, che indagava,  a Roma, nei confronti della banda della Magliana e della mafia siciliana. Il magistrato era troppo protetto per ammazzarlo. Così scelsero un parente. Una vittima ignara ed indifesa. Franco Imposimato e la moglie, Maria Luisa, erano impiegati di una fabbrica di Maddaloni, la Face Standard. L’agguato avvenne appena finito il turno di lavoro.

Franco Imposimato con i figli Giuseppe e Filiberto


Qui di seguito il racconto dell’agguato tratto dal mio libro “Al di là della notte” – Ed. Tullio Pironti

“…L’agguato avvenne di martedì, un giorno lavorativo come tanti altri. Franco e Maria Luisa stavano uscendo dalla fabbrica. Il tempo di timbrare il cartellino e di arrivare all’auto, una Ford Escort verde, e poi si sarebbero diretti verso la scuola dei propri figli. Erano oramai le diciassette e trenta e i bambini stavano già aspettando. Dopo aver percorso pochi metri dall’uscita, arrivarono in via Campolongo, all’incrocio tra via Sauda e via Montevergine. C’era un’auto ferma quasi nella curva. Franco, nel fare la manovra di sorpasso, rallentò. La macchina, una Fiat Ritmo, non aveva alcuna intenzione di muoversi da lì. Fu a quel punto che si materializzarono due uomini. Arrivarono quasi di corsa. Uno si avvicinò a Franco, dal lato del guidatore e l’altro a fianco della moglie. Impugnavano una 357 Magnum e una 38 Special. I due coniugi non ebbero il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo. Forse solo Puffi, il barboncino che era in auto con loro e che portavano ogni giorno al lavoro per non lasciarlo solo a casa, ebbe la percezione del pericolo. Puffi cominciò ad abbaiare sempre più forte. «Che hai, Puffi?», chiese Franco. Maria Luisa, invece, si girò per accarezzarlo e farlo calmare.

Fu in quell’attimo che i due sicari della camorra cominciarono a sparare. Gli sguardi di Franco e Maria Luisa si incrociarono. Fu anche l’ultima volta. Non ebbero il tempo di dirsi niente. Franco Imposimato venne colpito da undici colpi di pistola. Morì quasi subito «per shock emorragico e traumatico», fu accertato. Maria Luisa, invece, fu colpita al petto. Il killer le sparò due colpi diretti al torace. Uno le bucò tutti e due i polmoni. Fuoriuscì dalla schiena fratturandole una costola e sfiorandole il cuore di qualche centimetro. L’altro, invece, rimase conficcato nel braccio sinistro. Nonostante il dolore forte, la moglie di Franco riuscì ad aprire lo sportello. Fece qualche passo, ma cadde a terra svenuta. Si salvò dopo essere stata ricoverata in ospedale per più di un mese in gravi condizioni. Tra i primi a chiedere aiuto ci fu anche Puffi, il barboncino. Scese dalla macchina senza un graffio e ritornò di corsa in fabbrica. Si fece capire. Portò sul luogo dell’agguato i primi soccorritori.


Maria Luisa Rossi
I due figli piccoli, Giuseppe e Filiberto, avevano nove e sette anni e quel giorno, l’11 ottobre del 1983, erano andati regolarmente a scuola. Come sempre il papà, Franco, e la mamma, Maria Luisa Rossi, sarebbero passati a prenderli dopo le diciassette e trenta, appena finito il turno di lavoro alla Face Standard. Una fabbrica manifatturiera sorta alla fine degli anni ’60 ubicata appena fuori città, dove lavoravano più di mille persone. Erano impiegati nell’ufficio acquisti. Quel giorno, però, a prendere i due ragazzi a scuola ci andarono alcuni amici di famiglia. «Papà e mamma non sono potuti venire», si sentirono dire Giuseppe e Filiberto, «hanno avuto improvvisamente da fare». Ma non immaginavano minimamente che poco prima c’era stato un agguato nei confronti dei loro genitori. Da quel giorno la loro vita sarebbe stata segnata per sempre. «Come si fa a scordare quei momenti», racconta con un filo di voce Giuseppe, il primogenito, «io e mio fratello eravamo a scuola al convitto nazionale di Maddaloni. Lì era più comodo per la mia famiglia, perché ci tenevano per tutta la giornata. Ci venne a prendere un loro collega di lavoro e ci portò a casa sua. Ci disse che mamma e papà erano fuori per lavoro. Ricordo che stemmo in ansia per tutto il tempo. Sino ad allora non ci avevano mai lasciati soli».


«Mia madre riconobbe in Antonio Abbate uno dei killer che le sparò», riprende a raccontare Giuseppe. «Stava sul lato destro della macchina. Lo descrisse come “un uomo non molto alto, giovane, grassottello, piuttosto scuro di pelle, con due rughe che solcavano le guance, con i capelli di colore nero tirati all’indietro”. Dell’altro, invece, riuscì a vedere solo le gambe. Niente di più». Il primo a parlare dell’assassinio di Franco Imposimato fu il pentito del clan dei Casalesi Carmine Schiavone. Confermò che i due killer di cui aveva parlato Maria Luisa Rossi erano Raffaele Ligato e Antonio Abbate, appartenenti al clan Lubrano-Nuvoletta di Pignataro Maggiore. Un clan affiliato a Cosa nostra siciliana e fedele alleato dei Corleonesi di Totò Riina.

«Sono stato sempre curioso di sapere che faccia avessero gli assassini di mio padre», dice Giuseppe con una vena di rabbia, «li ho sempre immaginati come mostri. Perché solo dei mostri potevano avere il coraggio di uccidere una persona dolce come il mio papà. E quando li ho incontrati, durante il processo, non sono riuscito a provare sentimenti negativi. Sono rimasto indifferente. È stato Vincenzo Lubrano ad avvicinarmi e a ripetere insistentemente: “Mi dovete credere, mi dovete credere, io non c’entro niente”. In lui vedevo solo un uomo anziano. E pur sapendo che era uno dei mandanti dell’omicidio di mio padre, non riuscivo a provare odio nei suoi confronti. Poi ho incontrato anche Raffaele Ligato, uno di quelli che aveva sparato ai miei genitori. E anche lui mi era indifferente». Per Filiberto, invece, è stato diverso. «Sì, lo ammetto. Io li ho odiati», dice con decisione il ragazzo, «hanno rovinato la vita della mia famiglia. Hanno fatto soffrire mia madre fino a farla morire di dolore. Non ci riesco a rimanere indifferente». Giuseppe sta per mettere su un’altra famiglia. Fra qualche mese si sposerà. «La vita va avanti», dice il primo figlio di Franco Imposimato, «anche se il dolore ti resta dentro e non lo puoi mai eliminare. È come una spina che hai dentro la carne. Può restare lì per anni, ma quando la vai a toccare ti fa sempre male. È come una cicatrice mai rimarginata. Tutto questo me lo porterò dentro fino alla morte. Come si fa a dimenticare tutto quello che abbiamo passato? Come si fa a dimenticare che c’era chi non voleva frequentare la famiglia Imposimato perché aveva paura? Come si fa a dimenticare che c’era chi non faceva giocare i propri figli con noi, togliendoci anche il saluto? Ricordo l’espressione triste del volto di mia madre quando ci raccontava che alcune persone non la salutavano e avevano paura a frequentarla. È come se i criminali fossimo stati noi che abbiamo subito la morte di mio padre e non quelli che hanno sparato.

Il processo per l’assassinio di Franco Imposimato e il ferimento della moglie, Maria Luisa Rossi, si è concluso in Cassazione con la condanna all’ergastolo dei mandanti (Pippo Calò eVincenzo Lubrano, morto nel 2007) e degli esecutori materiali (Antonio Abbate e Raffaele Ligato). Uno dei mandanti, Lorenzo Nuvoletta, è morto prima che venissero riaperte le indagini. Franco Imposimato il 19 dicembre di quel 1983 avrebbe compiuto quarantaquattro anni.

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