lunedì 31 dicembre 2012

CASAL DI PRINCIPE - RUBATO IL MONUMENTO AL CARABINIERE SALVATORE NUVOLETTA


Il giorno dell'inaugurazione
Un altro sfregio ai simboli della lotta alla camorra. Stavolta hanno rubato il monumento  che ricorda il Carabiniere Salvatore Nuvoletta, nei pressi del Santuario della Madonna di Briano, a Casal di Principe. Il furto, probabilmente è avvenuto  nella nottata, ed è stato scoperto stamani verso le 11 dal parroco del Santuario della Madonna di Briano, Don Paolo Dell’Aversana. Il monumento, eretto su un terreno confiscato al boss della camorra, Francesco Schiavone, “Sandokan”, insieme ad una stele in marmo, fu inaugurato il  12 settembre del 2009 alla presenza del Comandante provinciale dei carabinieri, Carmelo Burgio.  “Mi hanno chiamato alcuni cittadini perché c’erano dei ragazzi a giocare a pallone perché avevano rotto alcuni lampioni – racconta don Paolo - Quando sono arrivato qui  mi sono reso conto che era sparito il  monumento dedicato a Salvatore Nuvoletta. Così  ho avvertito i carabinieri di Casal di Principe per denunciare l’accaduto”. L’opera, che fu realizzata dal maestro Antonio De Filippis, raffigurava una spada, un cappello e un mantello da carabiniere e fu donata dalla famiglia di Federico del Prete, il sindacalista degli ambulanti altra vittima innocente di camorra, ucciso a Casal di Principe il 18 febbraio del 2002.
 
Don Paolo Dell'Aversana
Salvatore Nuvoletta, vent’anni, in servizio alla caserma di Casal di Principe, fu ucciso a Marano il 2 luglio del 1982, per ordine di Francesco Schiavone. Una vicenda che vide l'allora maresciallo dei carabinieri, Gerardo Matassino, comandante della stazione  di Casal di Principe, protagonista negativo di questa tragica vicenda. Perché, come spiega Gennaro Nuvoletta, anch’egli carabiniere, all’epoca nella scorta del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Matassino era sul libro paga dei casalesi e fu anche schiaffeggiato in piazza da Francesco Schiavone, per ottenere il nome del militare che aveva ucciso “Menelik”. Ma mio fratello quale giorno del conflitto a fuoco non era nemmeno in servizio – spiega Gennaro Nuvoletta -   fu fatto il suo nome per farlo uccidere”. Sul posto anche i responsabili del Comitato don Peppe Diana, salvatore Cuoci e Gianni Solino, vice coordinatore provinciale di Libera. “Non hanno rispetto per niente e per nessuno – afferma Salvatore Cuoci – toccare questi simboli della storia della resistenza civile è come dare picconate a tutto il movimento anticamorra”. “Non l’avranno vita – aggiunge Gianno Solino – rimetteremo al suo posto il monumento che hanno rubato”.

sabato 29 dicembre 2012

PARETE (CE) POLIAMBULATORIO INTITOLATO A GENNARO FALCO, VITTIMA INNOCENTE DI CAMORRA


Fu ucciso a Parete dal figlio del boss Francesco Bidognetti, Raffaele, il 29 ottobre del 1993 nel suo studio medico, perché ritenuto colpevole di non aver guarito la mamma da un tumore. A Gennaro Falco, 67 anni, un professionista molto stimato, è stato intitolato stamane il poliambulatorio della cittadina aversana, alla presenza dei familiari. Una storia singolare quella del medico condotto di Parete il cui omicidio, per ben dodici anni, è stato ritenuto opera di qualche balordo che aveva tentato una rapina nello studio medico. Fu ammazzato con un colpo alla fronte mentre prescriveva le medicine ad una sua assistita, ferita di striscio alla spalla. Fu il figlio del medico, Salvatore Falco, che aveva lo studio dentistico poco distante, a soccorrere il padre per primo. Gennaro Falco fu trasportato in ospedale ad Aversa, ma vi giunse cadavere. La donna ferita, invece, se la cavò con dieci giorni di guarigione.

Due le piste seguite dagli inquirenti all’epoca per cercare di risalire agli autori del delitto: la vendetta nei confronti del professionista che non avrebbe venduto parte dei 40 ettari di terreno di sua proprietà, quasi tutti edificabili, e l’altra, perché si sarebbe rifiutato di prestare soccorso a qualche pregiudicato ferito. Non venne esclusa nemmeno la vendetta trasversale. Gennaro Falco era zio di Luigi Griffo, scomparso il 21 agosto 1993, insieme con l'amante, moglie del boss Alberto Beneduce, ucciso anni prima in un agguato a Baia Domizia. A raccontare i fatti come andarono sono stati dodici anni dopo alcuni collaboratori di giustizia. Per questo il 7 giugno del 2005 fu arrestato Raffaele Bidognetti in un maxiblitz dei carabinieri e della squadra mobile, disposto dalla Procura antimafia di Napoli, in cui furono fermate 29 persone. I pm Francesco Curcio, Raffaele Marino, Marco Del Gaudio e Lucio Di Pietro, ricostruirono decine e decine di estorsioni compiute tra il 2000 e il 2004, tra cui anche l’omicidio di Gennaro Falco.


Alla cerimonia di inaugurazione del Poliambulatorio, oltre al sindaco di Parete, Raffaele Vitale, sono intervenuti anche il direttore sanitario dell’Asl, Gaetano Danzi, gli ex sindaci di Parete, Luigi Di Marino, Pietro Ciardiello e Luigi Verrengia e tantissimi cittadini, tra cui anche i familiari di Gennaro Falco: “Chi ha conosciuto mio padre - ha detto la figlia Maria - sa che era una persona onesta. A chi non l’ha conosciuto voglio dire che dobbiamo continuare a combattere e non dobbiamo permettere che la camorra ci distrugga come ha distrutto la nostra famiglia”.

domenica 23 dicembre 2012

"VOGLIAMO LA VERITA' SUI MANDANTI DELLA STRAGE", COMMEMORATI ALLA STAZIONE DI NAPOLI I MORTI DELLA STRAGE DI NATALE DI 28 ANNI FA

Rosaria Manzo

“Vogliamo la verità sui mandanti della strage”. E’ sempre la stessa richiesta che viene dai familiari delle vittime del rapido 904. Il treno che partì dal binario 11 della stazione di Napoli centrale, a mezzogiorno del 23 dicembre del 1984, diretto in Francia. Dopo 28 anni a gridarlo nell’atrio della stazione centrale di Napoli, non è più Antonio Celardo, presidente da molti anni, ma una ragazza che è nata proprio nell’anno della strage, Rosaria Manzo, figlia di Giovanni, il secondo macchinista di quel treno dove trovarono la morte 16 persone e 267 furono ferite. Rosaria da un mese è stata eletta presidente del Coordinamento Familiari vittime e feriti della strage del rapido 904. Come tutti i giovani, va decisa al nodo della questione: “Vogliamo sapere perché hanno messo quella bomba. Il 30 novembre scorso i giudici di Firenze hanno rinviato a giudizio Totò Riina, il capo dei mafiosi corleonesi. La strage sarebbe stata la risposta dei boss corleonesi agli arresti legati al maxi processo di Palermo del 1984 e l’esplosivo usato è lo stesso dell’Addaura e di via D’Amelio. Ma noi vogliamo sapere se questo è un nuovo tentativo di depistare le indagini o è la strada giusta imboccata dopo tanti anni”.


GALLERIA FOTOGRAFICA
 


Rosaria ha la voce rotta dall’emozione mentre parla della strage. Ricorda i tanti feriti, diversi dei quali sono in prima fila ad assistere alla cerimonia di commemorazione in ricordo di quella strage che avvenne alle 19,08 nella galleria tra Vernio e san Benedetto Val di Sambro. Una bomba squarciò la carrozza numero 9, seconda classe. Sedici morti, ma solo quindici corpi ritrovati. “Io sono nata qualche mese dopo la strage – dice Rosaria – l’ho vissuta nel racconto dei miei genitori e, soprattutto, attraverso il loro dolore e la loro sofferenza. Dopo tanti anni e diversi processi svolti, non conosciamo ancora il nome dei mandati di quella bomba”. Un lungo applauso scandisce le sue parole. Prima di lei gli applausi sono stati tributati a Enzo Biagi. O meglio, ad un suo articolo del 1984, “Quell’ora fatale sul treno del sud”, letto da Anna Manzo e accompagnata da un sottofondo musicale di violino e piano, da due allievi del Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli. Dopo le parole di Rosaria, i saluti istituzionali del rappresentante della provincia di Napoli, dell’assessore regionale Sommese e del vice sindaco di Napoli, Tommaso Sodano. Poi la lettura dei nomi delle persone uccise, con momenti di forte commozione tra i tanti presenti a cui si sono aggiunti anche molti viaggiatori in attesa di salire sui treni. Tra la folla anche il questore di Napoli, i rappresentanti dei familiari delle vittime innocenti di camorra, esponenti delle organizzazioni sindacali. Tutti assieme, alla fine della cerimonia, guidati dai gonfaloni della provincia, della regione, del Comune e di quello di Somma vesuviana, si sono diretti al binario 11 della stazione, dove sulle note del silenzio suonate dalla tromba di un carabiniere in alta uniforme è stata deposta una corona di fiori da dove partì il treno quel giorno di 28 anni fa. “Non ci fermeremo finché non sapremo tutta la verità sulla strage” assicura Rosaria mentre abbraccia e saluta gli altri familiari delle vittime.

venerdì 21 dicembre 2012

I FINANZIERI DEL GICO CATTURANO IL MANDANTE DELL'OMICIDIO DI PASQUALE "LINO" ROMANO


 Il Gico di Napoli ha arrestato poco fa a Scampia Giovanni Vitale, detto Gianluca, ritenuto dalla Procura di Napoli il mandante dell'agguato nel quale fu ucciso per errore Pasquale “Lino” Romano, trucidato con 14 colpi di pistola nel quartiere Marianella la notte del 15 ottobre scorso, mentre il giovane stava per andare a giocare a calcetto con gli amici.
Il Gico di Napoli è riuscito ad individuare Giovanni Vitale pedinando alcuni componenti della sua famiglia. Attraverso una serie di intercettazioni telefoniche i finanziari sono riusciti a capire che il traffico di messaggi avveniva tra i familiari di Vitale e l'uomo. Vitale è stata la persona che ha eseguito tutti i sopralluoghi preparatori dell'agguato ma quando poi il blitz scattò non fu presente.
Il 28 novembre scorso venne anche arrestato Giovanni Marino, 22 anni, il killer di Lino Romano.

giovedì 20 dicembre 2012

PRESI GLI ASSASSINI DI VINCENZO LIGUORI, IL MECCANISO UCCISO A SAN GIORGIO A CREMANO IL 13 GENNAIO 2011

Vincenzo Liguori con la figlia Mary, giornalista del "Mattino"
 
Tre persone sono state arrestate dai carabinieri di Torre Annunziata con l’accusa di aver compiuto 4 omicidi,  tra cui anche quello di Vincenzo Liguori, il meccanico  ammazzato nella sua officinali 13 gennaio del 2011, papà di Mary, la cronista del “Mattino”.
Due sono del clan camorristico “Mazzarella”; il terzo è il capo del clan dei “Troia”. Il clan dei Mazzarella è attivo nella zona orientale di Napoli mentre il gruppo dei «Troia», nato da una scissione dal clan Abate, è attivo a San Giorgio a Cremano.

Vincenzo Liguori, vittima innocente, fu raggiunto da un proiettile vagante mentre era al lavoro davanti alla sua officina di San Giorgio a Cremano. I killer arrivarono nell’officina di Liguori poco prima delle 19, in sella ad una moto e coperti da un caso integrale. Il loro obiettivo di morte era Luigi Formicola, 56 anni, un pregiudicato titolare di un circolo ricreativo, la cui sede di trova proprio a fianco dell’officina di Vincenzo Liguori. Pochi minuti e i killer ammazzano Formicola che nel frattempo si era rifugiato proprio nell’officina meccanica. Mentre stanno andando via, i due assassini ci ripensano, tornano indietro e ammazzano anche Vincenzo Liguori.

Due giorni dopo l’omicidio, Mary Liguori scrive una lettera–appello a chi è stato testimone del delitto di suo padre, affinché dica ciò che visto. La lettera viene pubblicata sul quotidiano “Il Mattino”. Stamani la svolta.

I tre responsabili dei quattro omicidi sono stati individuati dai carabinieri nel corso di indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Le accuse nei loro confronti sono di omicidio aggravato dall'avere agito per finalità mafiose.

lunedì 17 dicembre 2012

ANTONIO VASSALLO, IL FIGLIO DEL "SINDACO PESCATORE", NUOVO COORDINATORE DI "ANCI GIOVANE CAMPANIA"


Antonio Vassallo
Antonio Vassallo, figlio di Angelo, il “Sindaco Pescatore”, è il nuovo coordinatore di Anci Giovane Campania, l'organismo dell'associazione regionale dei Comuni che riunisce gli amministratori under 35 della Campania. Antonio Vassallo, Ventinove anni, da due in politica, assessore con tutte le deleghe presso il Comune di Pollica, è stato individuato come il nuovo coordinatore regionale di Anci Giovane in seguito all'assemblea dei giovani amministratori della Campania riunitasi oggi pomeriggio presso la sede del consiglio regionale. «Questo incarico mi onora tantissimo - afferma il neo coordinatore Antonio Vassallo - Da giovane amministratore è per me un onore rappresentare i tantissimi miei coetanei che tutti i giorni si impegnano nella nostra regione a mettere in pratica, in piccoli o grandi comuni, i principi del buon governo. Un impegno, quello di rappresentante dei giovani amministratori della Campania, che intendo portare avanti non solo per il cognome che porto, ma anche per dare un mio contributo personale forte su temi che ritengo fondamentali come il rispetto delle regole, l'importanza della legalità e il governo del territorio come governo del bene comune».


«Credo molto nei giovani amministratori perché sono gli unici a poter portare in ogni esperienza amministrativa elementi autentici di innovazione» afferma il presidente di Anci Campania Vincenzo Cuomo che ringrazia il coordinatore uscente di Anci Giovane, Luigi Famiglietti e augura buon lavoro al nuovo coordinatore Vassallo: «So che quella di Antonio è un'eredità pesante ma ritengo che con la sua nomina si possano rappresentare al meglio sia il valore del territorio come risorsa sia quegli aspetti di modernità, unità e concretezza che sono indispensabili per ridare forza e slancio a tutta l'azione della consulta». Ai lavori dell'assemblea, conclusasi con la nomina di Antonio Vassallo, ha partecipato anche il coordinatore nazionale di Anci Giovane nonché sindaco di Dogliani, Nicola Chionetti: «Con la nomina di Antonio entra in Anci l'esperienza amministrativa di Pollica come governo del territorio basato sulla difesa e la valorizzazione della specificità».

MENA MORLANDO, UNA VITA SPENTA SENZA UN PERCHE'

E’  il 17 dicembre del 1980. Sono da poco passate le 18,30. Mena Morlando, una ragazza di 25 anni, sta andando in lavanderia con una busta di panni da far lavare. La lavanderia è ad appena un centinaio di metri dalla casa dei Morlando, un’abitazione di un piano in via Monte Sion, quasi al centro di Giugliano, uno dei più popolosi centri a nord di Napoli.  Percorre il vicoletto che porta alla chiesa di Sant’Anna in poco meno di un minuto. Sta pensando a quando sarà il giorno di Natale, forse riuscirà ad organizzare una festa con gli altri ragazzi per ballare  e stare tra amici o forse no, sta pensando al giorno che si sposerà, alla famiglia, ai figli, ai panni da lavare, al concorso per essere assunta nella scuola pubblica... All’improvviso ha un soprassalto. Sente sparare. Sembrano mortaretti. I ragazzi in questo periodo ne sparano a bizzeffe. Ma lei non si è mai abituata. Le fanno sempre un certo effetto. Stavolta, però, Mena si sbaglia, non sono mortaretti, è proprio una sparatoria. Mena non ha il tempo di accorgersi di niente. Sente solo urlare da una parte all’altra della strada. Si trova tra due fuochi senza capire il perché. Vorrebbe mettersi in salvo. Sbarra gli occhi dalla paura. Non fa in tempo a scappare e un attimo dopo viene colpita da un proiettile calibro nove dietro il collo. Dal basso verso l’alto. Il proiettile le esce dalla fronte. Mena cade a terra. Muore in un attimo portando con sé i suoi sogni. Niente più concorso. Niente più ragazzo. Niente più matrimonio. Niente balletti. Niente amici.
La vita di Mena Morlando si chiude una settimana prima del Natale del 1980, come un libro che non si aprirà mai più.
Mena si era trovata per puro caso in mezzo ad una sparatoria tra bande camorristiche rivali. Un regolamento di conti tra Francesco Bidognetti, boss emergente della camorra casalese,  in soggiorno obbligato a Giugliano,  con vecchi esponenti della Nuova Camorra Organizzata,  affiliati al boss  Raffaele Cutolo.
C'è voluto un pò per cominciare a restituire dignità a questa ragazza, come per altre vittime innocenti di camorra, perché su quell'assurda morte sono circolate versioni infamanti. Per anni la famiglia ha vissuto il dramma in silenzio e di Mena nessuno più si è ricordato. A Mena Morlando un anno fa è stato intitolato il presidio di Libera di Giugliano. Non è molto, ma è il modo per non dimenticare chi non ha avuto la possibilità di vivere la propria vita per colpa di delinquenti che meritano solo il disprezzo di tutti noi.

domenica 16 dicembre 2012

GIUSTIZIA: AVVOCATI AVELLINO, CONVEGNO PER RICORDARE STRAGI DI FALCONE E BORSELLINO

           Ad Avellino verranno ricordate le stragi di mafia di Falcone e Borsellino. La Commissione per la formazione ed aggiornamento permanente dell'Avvocatura, istituita dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Avellino, ha organizzato un convegno dal titolo «A vent'anni dalle stragi di mafia nell'etica della memoria: fisionomie attuali della camorra in Irpinia, strategie e legislazione del contrasto». All'evento, commemorazione del ventennale della morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, verrà illustrata l'attuale fisionomia della camorra Irpina e la legislazione del contrasto alla criminalità organizzata. Prenderanno parte al convegno esponenti dell'avvocatura e della magistratura. Il convegno si terrà mercoledì prossimo alle ore 15.30 presso l'Aula Magna del Tribunale di Avellino.

Parteciperanno il Procuratore della Repubblica Angelo Di Popolo, il Presidente dell'Ordine degli avvocati di Avellino Fabio Benigni e del Consigliere Segretario dell'Ordine degli avvocati e responsabile della macro area di diritto penale e procedura penale della Commissione per la Formazione ed aggiornamento permanente dell'Avvocatura Biancamaria D'Agostino, mentre le relazioni sono affidate a Roberto Patscot, sostituto procuratore presso il Tribunale di Avellino, a Francesco Soviero, sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Napoli delegato per la provincia di Avellino, agli avvocati Gaetano Aufiero e Gerardo Di Martino, penalisti del foro di Avellino. Ad introdurre e moderare i lavori l'avvocato Claudio Frongillo, Presidente dei Giovani Penalisti di Avellino. «'È nostro preciso dovere - dice Biancamaria D'Agostino - di cittadini nonché di operatori del diritto, celebrare la memoria di due magistrati che hanno sacrificato l'intera esistenza al valore supremo della Giustizia, dimostrando un profondo senso del dovere; solo con una vera etica della memoria è possibile costruire con consapevole fiducia ed ottimismo il nostro futuro”

giovedì 13 dicembre 2012

DOPO 33 ANNI PIENA LUCE SULL'OMICIDIO DEL MARESCIALLO CALOGERO DI BONA ."COSÌ I BOSS DECISERO LA SUA FINE"

 Fu sequestrato e ucciso perché sospettato dalla mafia di aver picchiato in carcere un uomo d’onore. Dopo 33 anni la Dia di Palermo fa luce sull’omicidio del maresciallo Calogero di Bona, maresciallo delle guardie carcerarie nel carcere palermitano. Fu la cosca capeggiata dal capomafia Rosario Riccobono  a volere quell’omicidio. Calogero Di Bona,  fu sequestrato e strangolato il 28 agosto del 1979, al termine del suo turno di lavoro perché ritenuto responsabile di un ipotetico pestaggio subito in cella da un uomo d'onore, Michele Micalizzi, fidanzato con la figlia di Riccobono. Il maresciallo Di Bona era nato a Villarosa il 29 agosto del 1944. Il giorno dopo  avrebbe compiuto trentacinque anni. Per molti anni su questo delitto è calato il silenzio come tanti delitti di mafia, ma le indagini condotte dalla Dia e coordinate dalla Procura di Palermo hanno permesso di fare luce sui molti lati oscuri dell’omicidio Di Bona.


La Dia si è avvalsa della testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia, particolarmente vicini agli indagati o pienamente inseriti nel mandamento criminale capeggiato dal sanguinario Riccobono, “anche al fine di attribuire puntuali ed inequivoche responsabilità penali in capo agli odierni indagati”.  

Nell’uccisione del maresciallo Di Bona risultano coinvolti, a vario titolo, diversi uomini d’onore, alcuni dei quali oggi deceduti, ed in particolare, oltre al boss Riccobono, mandante ed esecutore dell’omicidio, due dei suoi uomini di fiducia, Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga, noto “necroforo” al soldo di Cosa nostra. Lo Piccolo, catturato nel 2007, dopo 25 anni di latitanza, ai vertici di Cosa nostra palermitana dopo la cattura di Bernardo Provenzano, sconta la pena dell’ergastolo ed è sottoposto al regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario. Liga, arrestato nel '93, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Tommaso Natale (PA), ha svolto sin dagli anni ’70, con piena partecipazione criminale, anche il ruolo di “necroforo” dell’organizzazione mafiosa. Presso il suo podere, luogo di ritrovo abituale per gli aderenti al sodalizio criminale, ubicato nel fondo De Castro, sono state uccise decine di persone e ne sono stati eliminati i cadaveri mediante scioglimento nell’acido e successivo incenerimento dei resti all’interno di forni di proprietà dello stesso adibiti alla produzione del pane.

«Non sono stati reperiti atti che suffragassero questo evento - spiegano gli inquirenti - ma si è accertato che lo stesso Micalizzi era stato condannato, nel 1979 alla pena di otto mesi di reclusione, proprio perché riconosciuto colpevole del reato di lesioni in danno di un agente penitenziario».

Le indagini della Dia hanno dimostrato, però, che l’omicidio del maresciallo Di Bona risulta comunque legato a questo episodio, avvenuto all’interno delle mura del carcere palermitano dell’Ucciardone il 6 agosto 1979, quando una giovane ed inesperta Guardia carceraria fu dirottata presso la famigerata IV sezione del carcere dove si trovavano ristretti numerosi uomini d’onore ritenuti maggiormente pericolosi, che al tempo stesso fungeva da infermeria. La giovane guardia, il maresciallo Di Bona,  notava che alcuni reclusi si muovevano “ troppo liberamente”. Perciò avrebbe provato a richiamare quelli più indisciplinati, nel tentativo di farli rientrare nelle rispettive celle. Per tutta risposta un paio di loro lo aggredirono violentemente, tanto da costringerlo ad immediate cure, prestate presso la stessa infermeria del carcere. Sarebbe stato naturale avviare nei confronti dei detenuti un provvedimento disciplinare e contestuale deferimento all’Autorità Giudiziaria, ma così non avvenne.

«L’unico detenuto individuato senza incertezze dalla vittima, non scontò di fatto alcuna sanzione disciplinare e, probabilmente, se le cose fossero andate come illecitamente pianificato, non avrebbe subito nessuna conseguenza penale per quel gravissimo comportamento - dicono gli investigatori - Ma le cose non andarono come auspicato dai boss mafiosi coinvolti nel fatto: una cruda e spietata missiva, scritta da anonimi agenti carcerari, venne inviata intorno alla metà di agosto del 1979 alla Procura della Repubblica, al Ministero di Grazia e Giustizia e a due quotidiani cittadini, che, però, la pubblicarono soltanto dopo l’avvenuta scomparsa di Di Bona».

Nella lettera anonima, le guardie lamentavano non solo la mancata punizione del detenuto, etichettato con epiteti diffamatori, reo della vile aggressione in danno del loro compagno di lavoro, ma anche “il potere di mafia” esercitato dai boss all’interno delle antiche mura borboniche dell’Ucciardone.

«La giustizia degli uomini avrebbe agito con lentezza e con esiti incerti, al contrario, il “tribunale” della mafia, frattanto entrato in possesso della missiva, ancor prima della pubblicazione da parte degli organi di stampa, sentenziò in maniera rapida e spietata - dicono ancora gli investigatori - Ebbe, infatti, da qui inizio un escalation di episodi intimidatori nei confronti degli appartenenti all’Istituto Penitenziario cittadino, nell’ambito di una vera e propria controffensiva, che culminerà, appunto, nel sequestro e successivo omicidio del sottufficiale, “portato” al cospetto di Cosa nostra, al fine di indicare gli autori di quella missiva, che, “oltraggiando ” Micalizzi e l’intera organizzazione criminale, fornì l’input per altri provvedimenti penali, anche a carico di Micalizzi».

martedì 11 dicembre 2012

LA LETTERA IMMAGINARIA DI MARCELLO TORRE, SINDACO DI PAGANI, AI SUOI FAMILIARI

E' una lettera che ho inviato ai familiari di Marcello Torre, Lucia e Annamaria (la moglie  e la figlia), quando mi hanno chiesto di ricordarlo in occasione del 32° anniversario della sua uccisione. Ho immaginato Marcello che  da lassù scrive ai propri cari. (raffaele sardo)


Miei cari,

 è da un po’ che non ci vediamo e di questo me ne rammarico. Però non ho affatto dimenticato i vostri volti, il vostro sguardo e, soprattutto, il vostro sorriso. E devo dirvi che il mio amore per voi è tuttora intatto. Sapete, in quel giardino dove mi hanno colpito l’11 di dicembre, ci ritorno ogni anno, esattamente in quella data.  Mi danno il permesso per quel giorno, ma da lì non posso muovermi.  So che passerete anche voi per mettere un fiore vicino alla lapide all’ingresso del giardino e dire una preghiera. Perciò aspetto. Nell’attesa del vostro arrivo, passeggio lungo il viale che percorrevo a piedi con la borsa in mano,  dove Annamaria e Giuseppe, i miei piccoli tesori, mi correvano incontro per abbracciarmi quando tornavo dal lavoro. Poi me ne vado lentamente sotto gli alberi di arancio carichi dei loro saporiti frutti. Il loro profumo nell’aria fresca del mattino crea un’armonia di colori che rende il luogo carico di magia. E’ ancora bello il nostro aranceto. Quando è carico di frutti poi, so che il Natale è alle porte. Anche il loto è ancora lì. E’ invecchiato. I suoi rami rinsecchiti sembrano gridare aiuto. Ma è generoso come sempre quando porta i frutti. Quanti ricordi mi vengono in mente soffermandomi davanti. Giuseppe e Annamaria amavano giocare proprio vicino al loto. C’era anche Puffy, quel cagnolino così vispo e impertinente. Mi pare di sentire ancora le voci e il cane che non smetteva mai di abbaiare. Sotto il loto Giuseppe e Annamaria si riposavano stanchi e felici dopo le corse tra l’erba e la polvere. Spesso lo maltrattavano sfregiandolo con il temperino per scrivere i loro nomi, e quelli degli amici. E tu, Lucia, sempre pronta e a rimproverarli. Li guardavo correre e giocare dalla finestra. Se cadevano a terra il cuore mi sussultava e sembrava salirmi in gola fin quando non li vedevo rialzare. “Meno male, non  è niente” dicevo tra me. Le voci dei miei bambini mi tenevano compagnia quando ero nel mio studio. Stavo combattendo contro forze molti più grandi di me. Sapevo che era pericoloso, ma non potevo rinunciare. Quella spensieratezza, quelle voci, quei sorrisi erano la mia energia per affrontare le sfide che avevo davanti. Non avrei avuto il coraggio di guardarvi più in faccia se mi fossi tirato indietro. Per voi e per i figli di tutti i miei concittadini volevo finalmente, una Pagani, la mia città, civile e libera. E per questo sono stato sempre disposto a dare la vita.

Quella mattina dell’11 dicembre me la ricordo bene. Erano da poco passate le sette. Mi stavano aspettando fuori il cancello. Me la dovevano far pagare. Non ve l’ho mai detto, anche se forse tu Lucia l’hai capito che ero stato minacciato. Presi il caffè dal nostro giardiniere, come facevo ogni mattina, in attesa dell’auto dei vigili urbani che mi avrebbe portato in Comune. Arrivò anche Franco, il mio collaboratore. Preferii farmi accompagnare da lui.  Ma non ci diedero il tempo di uscire dal vialetto.  Erano in due e col volto coperto. Prima un colpo di lupara e poi altri colpi di pistola. Non so quanti ne furono sparati. Ma ogni colpo che penetrava dentro la carne, scavava come un trapano. Faceva freddo, ma io  sentivo caldo in tutto il corpo. Facevo fatica a respirare. Poi, all’improvviso, sentii un silenzio totale. Né rumori, né urla, né frastuoni. E non sentivo nemmeno più il dolore. Le ferite erano scomparse e riuscivo a vedere il mio corpo nell’auto, dall’alto. Stavo abbandonando il mio corpo sulla terra per andare in un’altra vita. Partivo per un luogo dove non si fa più ritorno.  Ora sono proprio in un bel posto. Qui il giorno e la notte non esistono. Non esiste il tempo. Si sentono solo voci di bambini che giocano felici. Si sente il profumo dei fiori d’arancio e dei  gelsomini. Ci sono donne che tengono in braccio i figli e raccontano loro le favole. Si odono canti molto belli di fanciulle dai volti angelici. E c’è una luce molto forte  e molto dolce che avvolge tutto lo spazio di questo luogo.

Oh, Lucia, Lucia. Mia dolce e amata consorte, lo so che in questi anni hai versato tutte le lacrime che avevi. Ma sei stata forte nonostante le avversità. Ti ho sentita piangere molte volte di notte, quando  i bambini già dormivano. Ti ho visto imprecare contro la vita che ti aveva riservato un sorte che non volevi. Sono venuto spesso in punta di piedi in quei momenti. Ero con te, credimi, per non farti sentire persa, abbandonata, umiliata. E ti sarò sempre vicino fin quando non arriverà il momento di raggiungermi.

E tu, Annamaria, così fragile e generosa, mai doma e sempre pronta a reagire, sappi che non mi hai mai deluso.  Sono fiero  e orgoglioso di te.

Ho saputo anche di quello che è accaduto per l’intitolazione della strada e di tanti altri fatti che sono avvenuti nella mia Pagani. Ne ho sofferto. Anche io mi sono sentito deluso e abbandonato. E’ come se mi avessero ucciso di nuovo. Per fortuna tanta gente si è indignata, arrabbiata  e ha avuto anche il coraggio di reagire. E voi tra loro. Voglio dirvi, però, di  non piangere per me, perché qui sono felice. Siate sempre degni del mio sacrificio e non smettete mai di lottare per la verità e la giustizia.

 Ah, dimenticavo, Giuseppe è con me. Vi chiede scusa, ma ora è sereno e chiede anche a voi di rasserenarvi. L’11 dicembre Giuseppe sarà ad aspettarvi nel giardino degli aranci, sotto l’albero di loto.

A 32 ANNI DELL'OMICIDIO DEL SINDACO DI PAGANI, MARCELLO TORRE, SI CERCANO ANCORA I MANDANTI POLITICI


Fare luce sui  mandanti politici del delitto di Marcello Torre. Sono passati trentadue anni dalla mattina dall'11 dicembre del 1980, quando  poco dopo le 7,00, fu ucciso il sindaco democristiano di Pagani, Marcello Torre. Un delitto che ha visto la condanna come mandante di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata, ma mancano ancora all’appello i mandanti politici di quel delitto.

 
Il procuratore capo di Salerno, Franco Roberti, in un’intervista al quotidiano “la Città”, che stamani è uscito con un supplemento di otto pagine per ricordare il sindaco che sognava “una Pagani libera e civile”, è stato chiaro in proposito: “La sentenza giudiziaria si è fermata a quel punto, a quel livello di verità”. E ha aggiunto subito dopo: “Il delitto Torre, che io paragono per molti aspetti al delitto di Piersanti Mattarella a Palermo, è uno di quei delitti sui quali non si può  mai mettere una pietra sopra, che non si può mai dichiarare archiviati definitivamente. E questo perché  l’azione e l’opera di Marcello Torre, come avvocato e soprattutto come pubblico amministratore integerrimo, sono da inserire  nel contesto politico e purtroppo anche criminale di quegli anni, e ci impongono di continuare a sperare di poter verificare la fondatezza o meno dell’ipotesi di una pista politica per questo omicidio”. Dunque le indagini su quel delitto sono sempre aperte. E’ quello che hanno chiesto sempre a gran voce in tutti questi anni, Lucia e Annamaria Torre, la moglie e la figlia di Marcello  che non hanno mai lasciato spegnere i riflettori su quella che è non solo una  tragedia familiare, ma di tutta la comunità paganese. Si, perché Marcello Torre, come ha ricordato don Luigi Ciotti stamattina: “era il volto pulito della politica, serviva la gente invece che servirsene. Amava la politica perché amava le persone e questo territorio che voleva contribuire a cambiare".


Nel corso della cerimonia per ricordare Marcello Torre, tenuta come sempre, nell’aula magna del liceo scientifico “Mangino”, e coordinata da Riccardo Christian Falcone, è stato anche ricordata la figura di Amato Lamberti, sociologo, presidente della provincia di Napoli e tra i fondatori del premio “Marcello Torre”. Lamberti è stato ricordato da Luciano Brancaccio, un suo allievo e ora collega, docente di sociologia umana alla Federico II.  Nel corso della mattinata c’è stato anche l’intervento di  Vittorio Mete, ricercatore di sociologia all’università della Magna Grecia di Catanzaro; la testimonianza importante, del sindaco di Corsico (MI), Maria Ferrucci,  in prima linea nella lotta contro la ‘ndrangheta al nord, e di Andrea Campinoti, presidente di Avviso Pubblico. Al termine del dibattito, dove sono intervenuti molti familiari di vittime innocenti della criminalità e del terrorismo, e tantissimi studenti, è stato assegnato per la trentesima volta  il premio nazionale per l'impegno civile "Marcello Torre". Un premio  che quest’anno è andato a Milena Gabanelli, giornalista e conduttrice della trasmissione “Report” (il premio è stato ritirato da Giorgio Mottola)  e agli autori del libro "Il casalese". Un attestato di merito è andato invece alla giornalista Tiziana Zurro.

 

giovedì 6 dicembre 2012

ERGASTOLO PER IL MANDANTE DELL'ASSASSINIO DI TERESA BUONOCORE


Ergastolo per Enrico Perillo, ritenuto il mandante dell'assassinio di Teresa Buonocore, uccisa a Napoli il 20  settembre del 2010 dopo aver denunciato abusi sessuali su una delle due figlie. La condanna, come richiesto da pm Graziella Arlomede e Danilo De Simone, è stata decisa dalla terza corte d'Assise di Napoli. La Corte d'Assise ha deciso anche di accordare un risarcimento di 20mila euro in favore dell'Ordine degli avvocati e delle altre parti civili e una provvisionale di 100mila euro ad ognuna delle due figlie della donna per complessivi 200mila euro. Gli esecutori materiali del delitto Alberto Amendola e Giuseppe Avolio erano già stati condannati al termine del processo con rito abbreviato (21 anni e quattro mesi il primo e 18 anni il secondo). Perillo secondo i giudici abusò di una delle due figlie della donna, che frequentava la sua casa in quanto amica delle sue figlie. Teresa Buonocore venne assassinata a Napoli il 20 settembre del 2010, secondo la Procura, proprio perché si era costituita parte civile nel processo di primo grado, ottenendo una provvisionale di 25.000euro.

martedì 4 dicembre 2012

TRE ERGASTOLI PER L'OMICIDIO DI DOMENICO NOVIELLO

I FUNERALI DI DOMENICO NOVIELLO
 Arrivano le condanne per l’uccisione di Domenico Noviello. Tre  ergastoli sono stati comminati stamattina per l’assassinio dell’imprenditore  originario di San Cipriano di Aversa, ucciso dal gruppo camorristico di Giuseppe Setola il 16 maggio del 2008 a Castel Volturno, in località Baia Verde. La condanna è stata emessa stamattina nella sezione 35 del tribunale di Napoli, che ha accolto la richiesta del PM Alessandro Milita. L’ergastolo è stato comminato a Davide Granato, Massimo Alfiero e Giovanni Bartolucci, i tre che avevano chiesto il rito abbreviato. Gli altri 8 coinvolti nell’omicidio dell’imprenditore titolare di una scuola guida, è in corso presso il tribunale di Santa Maria C.V.
Noviello  venne assassinato perché nel 2001 aveva denunciato i suoi estorsori, tutti del clan di Francesco Bidognetti. Finì sotto scorta per alcuni anni. In seguito alle sue denunce furono condannate 5 persone. Lo uccisero poco dopo le 7 di mattina, mentre si recava al lavoro con la sua  Fiat Panda. Gli esplosero addosso una ventina colpi di pistola calibro 38 e calibro 9, l'ultimo dei quali alla testa di Noviello.
«Lo colpii con il primo colpo al volto. Scaricai tutto il caricatore, 13 botte... – Massimo Alfiero, il killer di Noviello  ha raccontato così la sua versione dei fatti –  Appena Noviello svoltò a destra - dice Alfiero - lo affiancammo e sparai subito quattro o cinque colpi con la 9 corta; ricordo che lo colpii con il primo colpo al volto. Scaricai tutto il caricatore, 13 botte, in direzione di Noviello e questi cercò di porsi al riparo sdraiandosi sul sedile e poi strisciando verso l'esterno; riuscì ad aprire lo sportello - lato passeggero - per tentare la fuga uscendo dalla macchina. Io a quel punto scesi dalla vettura, girai attorno alla macchina del Noviello e gli sparai anche altri colpi della pistola Beretta 92 F, finendolo poi con un colpo in testa. Era la prima volta che riuscivo ad uccidere personalmente qualcuno».

Nel corso delle udienze precendenti si erano costituite parti civili varie associazioni, tra cui anche Il comitato “Don Peppe Diana” di Casal di Principe,  la Federazione Antiracket Italiana (Fai), con la famiglia Noviello. La sentenza emessa stamani prevede anche il pagamento di 50 mila euro per ognuna delle parti offese e 300 mila euro per le parti civili. Al momento della sentenza erano presenti in aula i figli di Domenico Noviello, Massimiliano e Mimma.

sabato 1 dicembre 2012

SI E' PENTITO GIOVANNI MARINO, L'AUTISTA DEL COMMANDO CHE UCCISE LINO ROMANO A MARIANELLA


Si è pentito Giovanni Marino, l'autista del commando che uccise Pasquale “Lino” Romano la sera del 15 ottobre scorso. L’obiettivo dei sicari era un’altra persona: Domenico Gargiulo. Oggi il gip ha confermato il fermo dell'indagato emettendo un'ordinanza di custodia cautelare a suo carico ma anche di altre 3 persone, coinvolte nell'omicidio di Romano. Si tratta di Anna Altamura, presentatasi al commissariato di Scampia con i suoi due figli Carmine e Gaetano Annunziata per rivelare i retroscena dell'uccisione di Lino Romano. La donna è stata rinchiusa in carcere ma il luogo è stato tenuto segreto in quanto collaboratrice di giustizia. I suoi due figli che hanno svolto un ruolo minore nell'ambito dell'agguato sono stati condotti agli arresti domiciliari in una località anch'essa segreta e in stato di protezione. Anna Altamura aveva il compito di inviare un sms ai killer per avvertirli che il vero obiettivo dell'agguato, Domenico Gargiulo stava per uscire da casa della fidanzata. Il numero al quale Anna Altamura avrebbe dovuto inviare l'sms era memorizzato alla voce «Amore». Lo ha riferito agli inquirenti la stessa Altamura.

 

 

Il cellulare, che era stato privato del microfono perché‚ così gli scissionisti lo ritenevano più sicuro, le era stato consegnato attraverso il figlio Gaetano e dopo il tragico errore di persona costato la vita a Pasquale Romano era stato gettato in un tombino. Quell'sms non fu inviato e al suo posto fu ucciso un innocente, Lino Romano. Lino era andato a trovare la fidanzata Rosanna che vive nello stesso palazzo di Flora, la fidanzata di Gargiulo. Anna Altamura stava prendendo parte ad una cena in casa della sorella, madre di Flora. Quando Romano salutò la fidanzata per andare a giocare una partita di calcetto con gli amici, una volta avvicinatosi alla sua auto fu scambiato per Gargiulo. Perché i killer comprendessero quale fosse la persona da uccidere, Gaetano Annunziata mostrò loro su Facebook una foto di Domenico Gargiulo, ritratto insieme con la fidanzata Flora, cugina dello stesso Annunziata. La circostanza emerge dall'ordinanza di custodia cautelare emessa oggi dal gip Luigi Giordano nella quale sono contenuti alcuni stralci dei verbali di interrogatorio di Gaetano Annunziata e delle altre persone coinvolte nel delitto che hanno deciso di collaborare con la giustizia. I carabinieri, in realtà, avevano subito concentrato la loro attenzione sulla famiglia Altamura, che abita nello stesso palazzo della fidanzata di Pasquale Romano. Marcella Altamura, nella cui abitazione si trovava a cena Domenico Gargiulo la sera del 15 ottobre, è sorella di Anna, la donna che avrebbe dovuto segnalare l'uscita di Gargiulo dal palazzo ai killer in attesa, e zia di Carmine Annunziata.

 

Il gruppo Abete - Abbinante - Notturno, hanno riferito i collaboratori di giustizia, ha tentato più volte di uccidere Gargiulo, sia prima che dopo la morte di Romano. Prima, il giovane, noto a Secondigliano con il soprannome di «Sicc Penniell», sarebbe dovuto morire all'uscita di una discoteca di Chiaiano dove si festeggiavano i 18 anni di Flora, la sua fidanzata. Il piano tuttavia non si realizzò perché‚ all'ultimo momento Gargiulo diede forfait. Ma anche dopo l'uccisione di Romano, i killer tentarono ancora di sparargli in un bar, ma la pistola si inceppò. «Io quando poi inizio a sparare non mi fermo più»: così Salvatore Baldassarre, l'uomo che la sera del 15 ottobre sparò a Pasquale Romano scambiandolo per Domenico Gargiulo, spiegò all'altro affiliato al gruppo degli scissionisti, Carmine Annunziata, il clamoroso errore di persona costato la vita a un innocente. È lo stesso Carmine Annunziata, che ha deciso di collaborare con la giustizia, a riferirlo ai pm Sergio Amato ed Enrica Parascandolo in uno dei primi interrogatori. Dall'ordinanza di custodia cautelare emessa oggi dal gip Luigi Giordano emerge che le dichiarazioni delle persone coinvolte nell'omicidio hanno consentito la svolta nell'inchiesta, ma sono suffragate da una serie di riscontri già emersi nel corso delle indagini.

CAFIERO DE RAHO AL PREMIO DON DIANA: "IL RISCATTO DI QUESTE TERRE CI SARA' "

Alex Zanotelli, Augusto Di Meo,
Federico Cafiero De Raho
ed Emilio Diana
“Il riscatto di queste terre ci sarà”.Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto della DDA di Napoli, lo dice convinto durante la cerimonia di premiazione del premio nazionale “Don Peppe Diana” ad Aversa, presso la Fattoria Sociale "Fuori di Zucca, nel vecchio Opg "Santa Maria Maddalena ", nell'ambito del "Meeting della Solidarietà" promosso da Asso. Vo. Ce. Cafiero de Raho, intervistato da Aldo Balestra, ha raccontato di quella mattina del 19 marzo del 1994, quando fu ucciso a Casal di Principe don Giuseppe Diana: “Mi recai in chiesa dov’era il corpo senza vita di don Diana. Ricordo che trovai una piazza deserta e c’erano solo le forze dell’ordine. Le finestre sbarrate e un silenzio irreale. Ebbi l’impressione di trovarmi in quei paesini siciliani dopo un delitto di mafia. Tutti chiusi in casa senza fiatare dopo il delitto di un sacerdote. Cosa mai accaduta da queste parti”. Ma un testimone si fece avanti: Augusto di Meo, fotografo, amico di don Diana e che ieri è stato anche lui premiato per il coraggio di dire la verità in quel contesto così difficile: “Dovetti andare via da Casal di Principe – ricorda Di Meo con le lacrime agli occhi - Per quattro lunghi anni dovetti nascondermi in Umbria. Con me tutta la mia famiglia, i figli piccoli, il lavoro che non avevo più. Allora non c’era una legge che proteggeva i testimoni di giustizia. Cercavo di non far pesare sulla mia famiglia la mia scelta, ma era impossibile. I miei bambini, pur piccoli, avevano capito tutto e mi venivano a riferire di tutte le auto che vedevano presso la nostra abitazione con una targa di Caserta”. Nonostante ciò, Augusto di Meo non ebbe alcuna esitazione ad indicare in Giuseppe Quadrano, uno dei più feroci killer del clan De Falco- Caterino, l’assassino di don Diana. “Questo sistema ci ha ridotti ognuno a pensare a se stessi - ha detto il comboniano Alex Zanotelli terzo assegnatario del premio don Diana - Abbiamo sbagliato strada. Ora dobbiamo prenderne un’altra”. Il premio, una vela con il volto di don Diana opera dell’artista Giusto Baldascino, è stato consegnato da Emilio Diana, fratello di don Peppe e da Valerio Taglione, coordinatore di Libera Caserta e del Comitato che porta il nome del sacerdote ucciso.