martedì 24 gennaio 2012

ATTILIO ROMANO', AMMAZZATO PERCHE' SCAMBIATO PER UN'ALTRA PERSONA

Attilio Romanò non c’è più dal 24 gennaio 2005. Fu ammazzato senza pietà perché scambiato un’altra persona. Oggi pomeriggio alle 18,30, gli amici di Attilio e i familiari lo ricordano con una messa  nella parrocchia SS. Maria dell’Arco a Miano (NA).

Il testo che segue è tratto dal mio libro “La Bestia”, ed. Melampo

(...) Quel lunedì 24 gennaio 2005, i sogni di una giovane moglie morirono dietro un bancone di un negozio di telefonia, poco lontano dal quartiere di Scampìa, dove la vita negli ultimi anni vale quanto  poche dosi di cocaina. Erano quasi le 13,00 quando un killer del “clan Di Lauro” entrò nel negozio, che Attilio aveva voluto aprire con un suo amico, in via Napoli Capodimonte, a Secondigliano. Zona calda in quel periodo per una guerra di camorra in atto tra le bande dei “Di Lauro” e gli avversari, i cosiddetti “Scissionisti”, ex appartenenti al clan Di Lauro, che avevano abbandonato l’organizzazione camorristica, dando vita ad un altro clan. Alcuni di essi dopo la “scissione” si erano rifugiati in Spagna per evitare le ritorsioni minacciate dai figli dei Di Lauro, che li avevano accusati di essersi impossessati di somme di danaro dell’organizzazione. Perciò venivano chiamati anche “gli Spagnoli”. I due gruppi si contendevano il controllo delle piazze di spaccio della droga, all’interno del medesimo territorio, tra Secondigliano e Scampìa. Le roccaforti degli scissionisti erano concentrate alla "Vele" e presso lo "Chalet Baku" di Scampia. Mentre i Di Lauro controllavano il cosiddetto "Rione Terzo Mondo", sempre a Scampìa. L’ordine che i Di Lauro avevano dato ai loro sicari era quello di sparare a vista. Ammazzare senza pietà. Gli scissionisti si  nascondevano e colpivano alla prima occasione, con la stessa determinazione e ferocia.

 Quando entrò il killer, Attilio era al computer dietro la scrivania. Si alzò per chiedere al cliente cosa volesse. La risposta furono quattro colpi sparati a bruciapelo con una pistola, da una distanza di non più di mezzo metro. Tre colpi mirati al capo. Il quarto, mentre cadeva, entrò nella spalla destra. Attilio sgranò gli occhi. Non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa gli stesse accadendo. Si piegò prima su se stesso e poi stramazzò al suolo. Un rivolo di sangue cominciò a scorrere per terra. La morte fu immediata.

 Era stato scambiato per il suo socio che aveva una lontana parentela, ma nessun legame affaristico, con  Rosario Pariante,  esponente del clan degli "scissionisti" di Scampìa. Attilio, che era anche “team leader” della Wind, era rimasto vittima di un’assurda vendetta trasversale. Senza una ragione, senza uno scopo, senza un motivo plausibile. Il killer sparì immediatamente, così com’era arrivato. Forse aveva un complice che lo aspettava in auto. Forse era arrivato con una motocicletta di grossa cilindrata. Nessun testimone. Nessuno vede niente. Nessuno ode niente. Il killer è inghiottito dal traffico caotico che in via Napoli Capodimonte scorre sempre intenso, come l’acqua di un fiume in piena.

“Quando mi telefonò mia cognata Maria per avvertirmi di quello che era accaduto – racconta la moglie, Natalia -  io ero al lavoro ad Orta di Atella, dove insegno in una scuola elementare. I bambini erano in mensa perché era orario di pranzo. Pensai  subito ad una rapina. C’erano già stati episodi violenti in quella zona. Erano state uccise diverse persone, ma  non avrei mai potuto pensare ad una cosa del genere, perché Attilio non aveva nulla a che spartire con queste storie di camorra. L’avranno ferito. Fu la cosa più grave che riuscii a immaginare in quel momento. Tornai in classe, chiamai una collega e le dissi che era successo qualcosa a mio marito e dovevo andare via. Telefonai a mio padre che non sapeva niente. “Papà è successo qualcosa ad Attilio”. “Cosa”? “Non lo so. Mi devi accompagnare, perché io non so se ce la faccio a guidare”. “Va bene. Ma stai calma. Stai tranquilla per strada che ci sarò io ad aspettarti  appena arrivi a casa”. Mentre ero per strada, mi telefonarono i miei padrini di nozze. Mi chiesero: “Nata, ma cosa è successo ad Attilio?”. “Non lo so, non lo so. Sto andando là”. Ma ebbi l’impressione che loro sapessero e non me lo volessero dire.” Poi ancora una telefonata. Era un altro amico che cercò di dirmi la verità, ma non ci riuscì. Io gli domandavo: “Ma Attilio dove sta?” E lui farfugliava solo: “Eeeeh..., Nata..., Nata…” Ma sta in ospedale? “No..., No..., non sta in ospedale...”. E allora cominciai a gridare, perché temevo il peggio: “Ma mi volete dire dove sta?” Strillavo forte al telefono. Ma quel mio amico altro non riuscì a dire o, forse, non ebbe il coraggio di comunicarmi quella terribile notizia. Mio padre mi stava aspettando sotto casa, a Lusciano, alla periferia sud di Aversa, in uno dei quartieri residenziali sorti negli ultimi anni. Grandi spazi, ma senz’anima.  Anche se sono costruzioni nuove, danno al paesaggio un senso di desolazione e di tristezza. Da lontano assomigliano a padiglioni di carceri. Abitavamo lì perché avevamo trovato una soluzione sia logistica che economica che faceva al caso nostro. Arrivai presto, perché per strada correvo più che potevo. Posai la mia macchina e salii su quella di mio padre. Eravamo quasi fuori al negozio di mio marito, al termine della superstrada dove si sale anche al Cardarelli, quando mi telefonò nuovamente mia cognata Maria. “Nata, noi siamo arrivati al Cardarelli. Ma qui non c’è.” “E dove sta?” “Sta al negozio”. In quel momento mi si gelò il sangue nelle vene. Capìi che non era stato ferito, ma che poteva essere stato ucciso, perché se fosse stato ferito lo avrebbero portato sicuramente in  ospedale.  Poco dopo arrivammo al negozio e da lontano vidi un sacco di gente. Una folla enorme. Ma nonostante tanta gente, c’era un silenzio impressionante. Tutto il traffico fermo. Le auto non potevano circolare. La gente era in silenzio. Le serrande del negozio erano abbassate. Tutto intorno transennato. C’erano già i carabinieri che avevano bloccato l’accesso. Scesi di corsa dalla macchina e mi precipitai verso il negozio. In quel momento mi sentivo le gambe tremare. Il cuore mi batteva forte. Erano solo pochi metri,  e ci volevano pochi attimi per percorrerli di corsa. Ma mi  balenarono tante di quelle cose nella testa che speravo ancora di vedere quello che oramai era impossibile vedere. Tra me e me dicevo solo: “Non è vero, non può essere vero, magari non è Attilio. Magari avranno capito male tutti quanti”. Fui bloccata dai carabinieri. Mi dimenavo con tutte le mie forze,  come una forsennata, perché volevo entrare. Piangevo, urlavo: “Lasciatemi vedere il mio Attilio, lo voglio abbracciare” Me lo volevo baciare, stringere a me, sporcarmi del suo sangue. Non mi fregava niente. Ma mi impedirono di vederlo. Non vollero farmi entrare. Riuscii a scorgere solo le sue gambe da fuori.”

venerdì 20 gennaio 2012

PARCO DON DIANA A CASAL DI PRINCIPE, DANNEGGIATO PER LA QUARTA VOLTA


Che brutta sensazione ho provato oggi pomeriggio nel Parco dedicato a don Peppe Diana, a Casal di Principe. E’ la quarta volta che viene vandalizzato. Stavolta hanno preso di mira piccole piantine di pioppo che alcuni anziani che frequentano il parco hanno piantato con la cura e l’amore di cui sono capaci. L’ho trovato sporco, pieno di buste di rifiuti sparse dappertutto. E’ abbandonato a se stesso, con panchine rotte e giostrine quasi inutilizzabili. Nessuno controlla, nessuno sorveglia, nessuno se ne importa. Appena fa buio,  “i soliti ragazzotti” diventano i padroni del parco. Indisturbati fanno quello che vogliono. Sinora non sono serviti a niente gli appelli e i tentativi di “aprire un dialogo” con coloro che sembrano divertirsi solo a distruggere. I carabinieri ,che pur conoscono “i ragazzotti” che frequentano il parco di sera, sembrano distratti. Il Commissario Prefettizio del Comune lo è altrettanto. Vigili urbani, neanche a parlarne. Ho parlato con gli anziani che si riuniscono in una stanzetta dentro il parco. E nemmeno loro sanno più che fare. “Di mattina ci pensiamo noi a vigilare - ci ha detto uno di loro -  ma la sera, quando qui non c’è nessuno, non possiamo farci niente. E' tutto aperto. Quando abbiamo provato a chiudere i cancelli con i catenacci, ce li rendono inutilizzabili mettendoci del silicone dentro. Perciò preferiamo non mettiamo nemmeno più i lucchetti. Però, non se ne può più”. Davvero, non se ne può più.

venerdì 13 gennaio 2012

LA SERA DEL 13 GENNAIO 2011, DUE KILLER AMMAZZANO VINCENZO LIGUORI. L'APPELLO DELLA FIGLIA "CHI HA VISTO PARLI" ANCORA SENZA RISPOSTA

Il raid la sera del 13 gennaio 2011, poco prima delle 19. I killer arrivano in sella ad una moto coperti da una casco integrale in via San Giorgio Vecchio, a San Giorgio a Cremano.  L’obiettivo è un pregiudicato, Luigi Formicola, 56 anni, titolare di un circolo ricreativo. La sede del circolo si trova a fianco ad una officina meccanica dove da anni Vincenzo Liguori, 57 anni, ripara moto, la sua passione da sempre. Il raid omicida si compie in pochi minuti. I killer abbattono con una raffica di colpi Luigi Formicola che tenta di sfuggire ai suoi assassini e cerca di ripararsi proprio nell’officina di Liguori. Dopo la missione di morte i due scappano a tutta velocità. Ma fanno pochi metri e tornano indietro. “Il meccanico ci ha visto. Può essere un testimone pericoloso”. Nonostante i caschi integrali, i killer non risparmiano nemmeno Vincenzo Liguori. Pochi colpi e per lui non c’è più nulla da fare.
La figlia di Vincenzo, Mary, che fa la corrispondente per il quotidiano “Il Mattino”, per la zona vesuviana, allertata dalla redazione, si avvia all’indirizzo che le hanno fornito per seguire l’ennesimo fatto di cronaca nera. E’ la strada dove ha l’officina meccanica il padre. Conosce bene la zona. Dalla redazione del “Mattino”, si rendono conto solo più tardi che una delle persone uccise è il padre di Mary. Tentano di richiamarla, ma è troppo tardi. La ragazza arriva in via San Giorgio Vecchio è scopre che uno delle persone uccise è  proprio suo padre Vincenzo, ucciso da un colpo al cuore.
Mary, due giorni giorno dopo, scriverà questa lettera che riportiamo, pubblicata sulle pagine del quotidiano “Il Mattino”, anche su consiglio della madre. Scrive per fare soprattutto un appello a chi è stato testimone del delitto di suo padre, affinché dica ciò che visto.
NAPOLI - 15 gennaio 2011 -  «Scrivo questo articolo perché me lo ha chiesto mia madre che in questo momento, forse più di me, crede nel potere dei mezzi di comunicazione. Mia madre spera che un appello possa smuovere le coscienze di testimoni che hanno visto il marito morire da innocente. Chi sa parli, collabori con i carabinieri, ci aiuti a fare giustizia», dice mia madre. Faccio mio quest’appello e non da giornalista, ma da figlia. La figlia di un uomo che ha cominciato a fare il meccanico ad appena otto anni ed è morto mentre lavorava. Quando i killer sono entrati nell’officina, per scovare l’uomo che cercavano e trucidarlo, mio padre stava cambiando l’olio ad un motorino. È morto lavorando, mio padre. Ed è morto per errore, perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era un uomo onesto, che amava vivere in disparte, stare lontano dai riflettori.
Oggi si ritrova sui giornali, vittima inconsapevole di una violenza inaudita e noi non possiamo che sperare che un giorno si trovino i suoi assassini, che la giustizia possa prevalere sull’omertà. Quante volte, da giornalista, ho raccolto appelli del genere: familiari di gente ammazzata che si aggrappano alla speranza della giustizia, pur sapendo che nulla farà tornare in vita il proprio caro.
Oggi tocca a me e alla mia famiglia fare i conti con questo sentimento. Posso solo dire che sto vivendo un incubo, il peggiore degli incubi. Per anni i cronisti come me coltivano il sogno della firma in prima pagina, oggi mi è toccato finirci nel modo più orrendo, quello che mai avrei voluto e nemmeno lontanamente immaginato.
Sento intorno a me tanta solidarietà: i colleghi giornalisti, i fotografi, i rappresentanti delle forze dell’ordine. Il Prefetto di Napoli mi ha inviato un telegramma, che mi ha molto colpito. Ripenso a quello che mi diceva sempre mio padre: «Non importa il lavoro che fai né quanto ti pagano, l’importante è che ti piaccia davvero». So di non essere sola, ma so anche di essere molto più debole senza di lui.
Spesso, dinanzi alla prospettiva di andare via da qui, mi sono risposta: che andassero via gli altri, quelli violenti, quelli che hanno reso questa città invivibile! Perché dovrei essere io ad abbandonare il campo? Io faccio la giornalista anche per cercare di cambiare le cose, per migliorarle. Oggi ci credo un po’ meno, mi chiedo se vale ancora la pena lottare. Ma un secondo dopo mi rispondo che sì, vale la pena. Devo farlo per mio padre, per mio marito che il suo papà l’ha perso appena un anno fa, per i miei fratelli. E per mia madre che, tramite me, vi dice: «Chi ha visto, parli».
Le indagini sono ancora in corso. Dei killer  nessuna traccia

mercoledì 11 gennaio 2012

PALERMO, ALBERO D'ULIVO PER RICORDARE IL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO

(Palermo - Adnkronos) - Un albero d'ulivo piantato dai ragazzi davanti alla scuola che frequentava, nove computer portatili in premio per i lavori realizzati dai bambini. Questo il ricordo del piccolo Giuseppe Di Matteo nel 16° anniversario della sua tragica uccisione, organizzato dall'assessorato alla Legalità della Provincia di Palermo, guidato dal vicepresidente Pietro Alongi. Oggi all'Istituto «Emanuele Armaforte» di Altofonte sono stati consegnati ufficialmente i premi del concorso «Giuseppe Di Matteo: La Storia e il Sogno» indetto lo scorso anno e conclusosi con le premiazioni coincise con l'anniversario della strage di Capaci. Presenti i bambini delle tre scuole che hanno partecipato al concorso: gli Istituti «Armaforte» di Altofonte, «Falcone» e «Riccobono» di San Giuseppe Jato, insieme ai sindaci di Altofonte, Enzo Di Girolamo e di San Giuseppe Jato, Giuseppe Siviglia. Sono intervenuti anche Germana Cupido, responsabile relazioni esterne di Banca Nuova e il presidente della Gesap, Stefano Mangano. I premi consistono in computer portatili offerti dagli sponsor (Banca Nuova, Gesap, Amap e Sispi) che vengono assegnati alla classe frequentata dai premiati. A tutti i bambini delle scuole è stato anche distribuito il libro «I dieci passi, piccolo breviario della legalità» del giudice Mario Conte (che è intervenuto alla manifestazione) e del giornalista Flavio Tranquillo.


Per l'Istituto comprensivo «Riccobono» di San Giuseppe Jato, il primo premio è andato ad Alessandra Messina della 3ª E (che ha creato una poesia); al secondo posto si sono classificate le classi 5ª A e 5ª B (che hanno realizzato un collage); il terzo premio è stato assegnato alla 2ª A (con un libro). Per la scuola «Falcone» di San Giuseppe Jato i premi sono andati al tema di Andreana Termini della 5ª A, al disegno «Una stella brilla nel cielo»curato da Giovanni D'Amico della 5ª C e alla poesia «La vita e il sogno» degli alunni della 5ª B Biagio Prestigiacomo, Antonino Licari, Vincenzo Licari e Alessia Turdo. All'istituto «Armaforte» di Altofonte infine il primo premio è andato alla 1ª C che ha realizzato una presentazione multimediale in Power Point; il secondo premio è stato assegnato alle classi 2ª e 3ª E che hanno creato un cartellone con una poesia dal titolo «La cavalcata verso la libertà»; tre ex aequo per il terzo posto: il disegno di grande formato «Ascot e il cavaliere» realizzato dalle classi 5ª A e 5ª B, la fiaba illustrata «La storia di un grande fantino» della 5ª D e la fiaba «Un fantastico sogno» realizzata dalla 5ª C con una originale copertina a rilievo.


«Abbiamo scelto di consegnare ufficialmente i premi l'11 gennaio - sottolineano in presidente Giovanni Avanti e il vice Alongi - per ricordare il 16° anniversario della barbara uccisione del piccolo Giuseppe dando un segnale di speranza in un futuro di crescita nel segno della legalità. Un modo anche per unire simbolicamente il ricordo di una giovane vittima della mafia con quello di tutti coloro i quali hanno pagato con la vita il loro impegno di uomini delle Istituzioni, ad iniziare da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». «Il mio assessorato - ha aggiunto Alongi - si impegna oggi ufficialmente per realizzare la prossima estate una serie di iniziative culturali nell'arena del Giardino della Memoria dove fu ucciso il piccolo Giuseppe. Quel luogo deve, infatti, essere non solo un posto dove coltivare la memoria ma anche il cuore della cultura della legalità».

GIOVANNI TIZIAN: "NON TI PREOCCUPARE NON MOLLO L'OSSO". NELL'89 LA 'NDRANGHETA GLI UCCISE IL PADRE. IN UN LIBRO LE SUE INCHIESTE

Giovanni Tizian, 29 anni, collaboratore della “Gazzetta di Modena”, da una quindicina di giorni vive protetto da una scorta. Con Giovanni ho per lo più una corrispondenza telematica e telefonica, cominciata diversi mesi fa, grazie ad amici comuni. Ci siamo sentiti stamattina, poco dopo che si è diffusa la notizia che gli avevano assegnato una scorta. Poche battute, ma importanti, per capire che è in parte sorpreso da questa attenzione delle cosche, ma sereno quanto basta, in una situazione che serena non è per niente. Non è semplice vivere con la scorta, non lo auguro a nessuno, ma Giovanni ce la farà a reggere questo “peso imprevisto”.


Le persone come lui hanno una marcia in più. Perciò quando dice “non ti preoccupare che non mollo l’osso”, non solo gli credo, ma so che non si abbatterà facilmente, soprattutto se gli faremo sentire il calore di un sostegno diffuso dal nord al sud del paese, come già sta succedendo in queste ore. Giovanni ha una marcia in più perché è abituato alla sofferenza. La ‘ndrangheta lo ha lasciato senza il padre all’età di sette anni. Nell'estate '89, a Bovalino, nella Locride, lo uccisero a colpi di lupara mentre tornava a casa per abbracciare il suo bambino.  Era funzionario di banca. Dopo cinque anni dal delitto, la famiglia di Giovanni Tizian  si trasferì a Modena.


Ma il rapporto con la terra dov’è nato e dove ha perso gli affetti più cari, non è mai venuto meno. Fa parte dell'associazione “daSud”, associazione antimafia con sede a Roma costituita nel 2005 da giovani emigranti meridionali che sono andati via dalle loro terre, ma che non sono disposti a lasciare questi territori in mano alle cosche. Da qui vengono i nostri amici comuni. Numerose le inchieste che Giovanni ha fatto sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta al nord. E da qualche mese sono racchiuse anche in un bel libro: “Gotica, 'ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea”, edito da Round Robin, che consiglio a tutti di leggere.

martedì 10 gennaio 2012

UNO BIANCA, SEMILIBERO UNO DELLA BANDA. RABBIA PARENTI VITTIME

Sconta l'ergastolo dal '94, ma ora  la mattina potrà uscire dal carcere. Si tratta di  Marino Occhipinti, ex poliziotto della squadra mobile di Bologna che con i tre fratelli Savi  aveva organizzato la banda della Uno Bianca. Dunque a  quarantasei anni, quasi 24 dopo l'omicidio di Carlo Beccari, giovane guardia giurata freddata durante l'assalto ad un portavalori, Marino Occhipinti è semilibero.  Tra poche settimane potrà uscire la mattina dal carcere di Padova, dove sconta l'ergastolo dal '94, per andare a lavorare alla Cooperativa sociale 'Galileò. La notizia della richiesta della misura di detenzione alternativa, raggiunti i termini (con gli sconti) per presentarla, era arrivata alla vigilia dell'anniversario dell' eccidio del Pilastro, il 4 gennaio, e aveva fatto discutere. La concessione della semilibertà, in un'ordinanza del tribunale di sorveglianza di Venezia, ora scatena la rabbia dei familiari delle vittime: «siamo fuori dalla grazia di Dio», reagisce la presidente Rosanna Zecchi. Il più «avvelenato», come si definisce lui stesso, è Luigi Beccari, anziano padre di Carlo, ucciso nel 1988 davanti alla Coop di Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna. «No. Non accetto niente. Lui deve star dentro, deve marcire dentro», si infuria. È infermo, in carrozzina e, ricorda, ha la moglie con l'Alzheimer in una casa di riposo. «Io ho un figlio morto, sono solo e quel delinquente lì deve star dentro», ribadisce. «Non che la madre mi telefona da Forlì - continua - chiedendomi di venire a casa mia per domandarmi perdono per suo figlio. Se viene suo figlio a casa mia, lo perdono con una bara. Non esce con i suoi piedi, ma dentro una bara. Ho il coraggio di ammazzarlo, solo così posso star bene».

Già il permesso ottenuto nel 2010 da Occhipinti, per partecipare ad una Via Crucis, aveva suscitato polemiche. Così come le sue scuse a Bologna, per il dolore causato, erano state rispedite al mittente dai parenti. Reazione che ritorna, di fronte all'ordinanza: «Io me lo immaginavo ma speravo che tenessero conto di quello che ha fatto». A chi ha preso questa decisione «auguro solo di non pentirsene», attacca la presidente Zecchi, lei che era moglie di Primo, ucciso il 6 ottobre del 1990 per aver annotato la targa dell'auto dei criminali che dal 1987 al 1994 si lasciarono dietro 24 morti e oltre cento feriti tra Bologna, la Romagna e le Marche. «Vedremo cosa fare - ha aggiunto - e con il Comitato vedremo se scrivere una lettera al ministro Severino». «L'unica cosa che posso dire - ha commentato l'avvocato Milena Micele, che assiste Occhipinti - è che è stata fatta una applicazione rigorosissima della legge in fatto e in diritto, così come quando venne irrogata la sanzione più dura che la legge italiana prevede, cioè l'ergastolo». La semilibertà significa «una modifica profonda - ha aggiunto il legale - per una persona che è in carcere da quasi vent'anni, come si può facilmente capire». L'avvocato ha voluto anche sottolineare «l'assoluto e massimo rispetto per i familiari delle vittime». «Come sempre rispetto le decisioni della magistratura, anche se in questo caso mi sarei aspettato un pronunciamento diverso che tenesse conto delle circostanze e dell'efferatezza di ciò che è stato fatto subire alla città e alle persone coinvolte», ha commentato amaramente il sindaco di Bologna Virginio Merola.

Fonte ANSA

domenica 8 gennaio 2012

IL MARESCIALLO DEI CC LUIGI D'ALESSIO E UNA RAGAZZA, ROSA VISONE, UCCISI A TORRE ANNUNZIATA IN UN CONFLITTO A FUOCO

Incontrai la sorella di Luigi D’Alessio, Maria,  a Lusciano. Cercavo da giorni i familiari del maresciallo dei carabinieri ucciso in un conflitto a fuoco con dei malviventi a Torre Annunziata, insieme a Rosa Visone una ragazza che passava sul luogo della sparatoria per caso. Mi avevano dato delle indicazioni generiche. Dopo aver girato a vuoto per un paio d’ore, incontro una signora a cui chiedo informazioni. Era proprio lei, la sorella del maresciallo D’Alessio, che mi raccontò questa storia, pubblicata nel mio libro “Al di là della notte” ed. Tullio Pironti

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«Non aveva saputo dire di no al nuovo capitano. E così, nonostante avesse finito l’orario di servizio, andò in perlustrazione per la città. Ma quella sua disponibilità lo portò alla morte». Maria D’Alessio, settantacinque anni ben portati, racconta l’ultimo giorno di servizio del fratello Luigi, maresciallo dei carabinieri a Torre Annunziata, che perse la vita in un conflitto a fuoco con alcuni camorristi, l’8 gennaio del 1982. Luigi D’Alessio era originario di Lusciano, paesino dell’agro aversano in provincia di Caserta. Aveva sposato una sua concittadina, Maria Russo, più giovane di dieci anni, da cui aveva avuto quattro figli. Ne sono vivi tre, Stefania, Nicola e Isabella. «Andavamo spesso a casa sua a Torre Annunziata», racconta la sorella Maria, che abita ancora a Lusciano, «anche perché uno dei figli era gravemente malato. Quel giorno lo venimmo a sapere verso le undici di sera che mio fratello era morto in uno scontro a fuoco.



Nella sparatoria morì anche una povera ragazza, Rosa Visone, di sedici anni». Tutta la tragedia di quella sera si consumò in pochissimo tempo. Erano da poco passate le venti. Il maresciallo Luigi D’Alessio, che comandava la stazione dei carabinieri di Torre Annunziata, stava smontando dal servizio. Doveva correre a casa. Uno dei suoi quattro figli non stava molto bene e questo lo preoccupava fortemente. Da poco era arrivato anche il nuovo comandante della Compagnia, il capitano Gabriele Sensales.



«Luigi», racconta Maria, «non se la sentiva di dirgli: “Devo andarmene perché ho finito il turno e sono preoccupato per mio figlio malato”. Così salirono sulla Fiat 500 di mio fratello in tre per perlustrare la città. La guidava il capitano Sensales, Luigi al fianco e dietro un altro collega, il maresciallo Gerardo Santulli. Tutti e tre in borghese». Cominciarono a girare per le varie zone della città. Dal vecchio borgo, passando per le vecchie terme, trasformate in pastificio. Poi più vicino al mare. Percorsero lentamente una delle più importanti arterie di Torre Annunziata, quella che congiunge la città con il grande porto, dove all’epoca i contrabbandieri di sigarette ormeggiavano gli scafi blu. Questa parte della città aveva assunto un ruolo strategico nel contrabbando di sigarette da quando il porto di Torre Annunziata era diventato il terzo in Campania per attività commerciale.



Tutto il tratto del Tirreno che va da Torre Annunziata al litorale domizio era controllato dai clan della camorra. Ogni tratto di mare era assegnato ad un clan che assicurava uomini disposti a tutto e motoscafi molto potenti in grado di sfuggire a quelli della Guardia di Finanza. Ed è proprio nel centro cittadino che i tre militari avvistano una Simca Horizon targata Milano con a bordo quattro pregiudicati. Due di essi vengono riconosciuti dal maresciallo D’Alessio. Il capitano Sensales con la Fiat 500 comincia a seguirli e poco dopo affianca l’auto sospetta e intima all’autista di fermarsi. I malviventi a quel punto accelerano per darsi alla fuga e cominciano a sparare. La cinquecento si ferma. Il maresciallo D’Alessio esce dall’auto, ma in pochi attimi dalla Simca fanno fuoco con una lupara che prende in pieno il maresciallo D’Alessio. Gli altri due carabinieri rispondono al fuoco. È un inferno. Si spara all’impazzata in pieno centro cittadino. Nella strada principale di Torre Annunziata sembra di stare al fronte. La gente scappa in tutte le direzioni.



I negozi abbassano le saracinesche. I bar sbarrano le porte, mentre i banditi in fuga continuano a fare fuoco con pistole e colpi di lupara. «Mio fratello muore quasi subito», dice singhiozzando Maria D’Alessio, «all’ospedale arriverà già cadavere. Anche gli altri due carabinieri vengono feriti, ma leggermente». Il capitano Sensales al braccio e all’avambraccio destro. Il maresciallo Santulli all’occhio sinistro. Quando tutto sembra finito e con i banditi ormai lontani, si odono le grida di una ragazza che stringe tra le braccia un’altra ragazza, tutta piena di sangue. È stata colpita da alcuni proiettili. E ora è priva di vita. È Rosa Visone. Aveva solo sedici anni. Rosa stava tornando a casa insieme a sua sorella, Lina. Avevano tentato di scappare anche loro. Si tenevano per mano. Volevano ripararsi dentro un palazzo. Un proiettile colpì Rosa prima che potessero mettersi al riparo. Più in là si odono altre grida. C’è anche un altro passante ferito, è Tancredi Mariotti, di ventiquattro anni. Viene colpito alla schiena. Anche lui non ce l’ha fatta a nascondersi. Vengono trasportati tutti in ospedale. Ma per il maresciallo Luigi D’Alessio e per Rosa Visone non c’è più nulla da fare. Al nosocomio arrivano i parenti di Rosa e Tancredi. Grida, imprecazioni, lacrime, dolore. Scene che da quelle parti sono frequenti. Ma per i familiari che piangono i loro cari non ci sarà mai l’abitudine al dolore.



La moglie del maresciallo D’Alessio, Maria Russo, viene avvisata non appena il marito arriva in ospedale. Anche per lei sarà uno strazio. Aveva già da sopportare il dolore del figlio malato. Adesso perde anche il marito. «Oggi, grazie a Dio», dice Maria D’Alessio, la sorella del maresciallo ucciso, «i figli sono tutti sistemati. Ma è il dolore per la morte di Luigi che non se n’è mai andato. Chi ripagherà tutti noi della sua mancanza? È stata davvero difficile abituarsi a pensare che Luigi non c’era più. Che non sarebbe tornato più a casa. Che non avrei più rivisto quel mio fratello così bello quando indossava la divisa di carabiniere». Maria si commuove ancora e pensa ai suoi due

figli che si sono arruolati nell’Arma come lo zio. «Sì, quando tornano a casa i miei due ragazzi, è come se vedessi mio fratello che torna dal servizio. Sono sempre preoccupata che anche a loro possa accadere una cosa del genere». Alla sua morte il maresciallo Luigi D’Alessio è insignito della medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione: «Durante servizio preventivo automontato capeggiato da ufficiale, intercettava autovettura con a bordo quattro persone, due delle quali riconosciute per pericolosi latitanti, le affrontava con determinazione e sprezzo del pericolo. Fatto segno a proditoria azione di fuoco, benché mortalmente ferito, trovava la forza di reagire con l’arma in dotazione prima di abbattersi esanime al suolo. Fulgido esempio di attaccamento al dovere spinto fino all’estremo sacrificio. Torre Annunziata (NA), 8 gennaio 1982».



Alla sua memoria è intitolata, dal 1° aprile 2009, la Caserma dell’Arma sede del Comando Gruppo Carabinieri di Torre Annunziata (NA). Anche in provincia di Caserta Luigi D’Alessio lo ricordano in tanti. AParete gli hanno intitolato la Caserma e a Lusciano una strada. È la strada dove nacque il 20 di febbraio del 1938, che si trova proprio di fronte alla chiesa principale del paese.


Luigi D’Alessio è sepolto nel cimitero di Lusciano. «Ci vado spesso», dice ancora la sorella Maria, «porto fiori sulla sua tomba. È l’unica cosa che mi è rimasta ancora da fare per lui».


GERARDO D'ARMINIO, UCCISO MENTRE STRINGEVA LA MANO AL SUO BAMBINO

Montecorvino Rovella è una cittadina in provincia di Salerno di cui fino a qualche anno fa ne conoscevo vagamente  l’esistenza.  Da qualche anno, invece, so che è il paese di origine di Gerardo D’Arminio, il maresciallo dei carabinieri che fu trucidato  nella piazza di Afragola da esponenti del clan Moccia, la sera prima della Befana, il 5 gennaio del 1976. Aveva per mano il suo figlioletto di 4 anni, Carmine. Cosa accade quella sera, me l’ha raccontato qualche tempo fa una una delle sorelle di Gerardo D’Arminio, Orsola.

La storia è tratta dal mio libro "Al di là della notte" ed. Tullio Pironti

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«“Scendo con Carmine al negozio in piazza. Compro dei giocattoli e torno. Domani è la Befana. A lui voglio comprargli una bicicletta”. Furono le ultime parole di mio fratello. Si avviò con uno dei figli piccoli, Carmine, che allora aveva quattro anni e non l’abbiamo più rivisto». È la sorella Orsola, l’unica ancora vivente, a ricordare quegli ultimi momenti del maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, padre di quattro bambini, ucciso nella piazza principale di Afragola il 5 gennaio del 1976. «Fino a qualche mese prima», racconta Orsola D’Arminio, «aveva comandato la stazione dei carabinieri di Afragola. Poi era stato trasferito al nucleo operativo a Napoli, alla caserma Pastrengo. Aveva dovuto lasciare la sua abitazione in caserma. A Napoli le case erano care. E così rimase ad abitare ad Afragola». Il maresciallo D’Arminio era originario di Montecorvino Rovella, in provincia di Salerno. Vi era nato il 12 dicembre del 1937. Era sposato con Anna Benvenuto, da cui aveva avuto quattro figli: Giusy, Orsola (che lui chiamava Annalina), Carmine e Marco. AMontecorvino aveva la sua famiglia, le sorelle, gli amici d’infanzia. Lì c’erano le sue radici. Le radici di una famiglia nobile e antica, consacrata dagli Aragonesi, con titolo nobiliare e proprietà terriere. Gerardo amava il suo piccolo paese. Amava le sue sterminate piantagioni di ulivo. Amava passeggiare sui vicini monti picentini, che da ragazzo si divertiva a scalare in bicicletta. Faceva lunghe passeggiate sul monte Nebulano che domina il paese. Andava alla scoperta di sorgenti di acque sulfuree, che da quelle parti sono numerose. Si divertiva un sacco e, soprattutto, si rilassava. E ogni volta che poteva, tornava ben volentieri nella sua Montecorvino per ritrovare i luoghi e gli amici della sua infanzia. Partì giovane da Montecorvino. Lasciò le campagne e la vallata per arruolarsi nell’Arma a vent’anni, in cerca del «posto sicuro», come tanti giovani meridionali. A ventidue era già vicebrigadiere. Il suo fascicolo personale è ricco di encomi solenni per aver partecipato a varie operazioni nelle città dove prestava servizio: Chieti, Isernia, i piccoli paesini della Sicilia e Palermo dove venne promosso maresciallo. Poi fu trasferito a Napoli e assegnato alla caserma dei carabinieri di San Giovanni a Teduccio.


Siamo nel 1970, proprio nel periodo in cui c’è la lotta tra i siciliani e i marsigliesi per il controllo delle «vie del tabacco» dove passa anche la droga. Il maresciallo D’Arminio viene incaricato di dirigere il nucleo antidroga. Sequestra ingenti quantitativi di droga. Scopre il canale attraverso il quale si importa eroina dal Perù passando per Francoforte e Milano. Arresta Antonio Ammaturo, a capo della holding criminale che traffica in droga. Era anche la memoria storica delle vicende di criminalità. Si ricordava degli atti giudiziari di ogni delinquente. Delle sue alleanze, dei suoi crimini, delle inchieste in corso. Il maresciallo D’Arminio era un investigatore di razza, destinato ad una carriera importante all’interno dell’Arma. «Erano da poco passate le nove di sera», riprende a raccontare Orsola. «Io e l’altra mia sorella eravamo a casa di Gerardo ad Afragola. Ci passavamo le festività natalizie. E spesso stavamo a casa sua per aiutare la moglie con i quattro figli piccoli. Con i bambini da accudire non era facile andare avanti. Quella sera mio fratello tornò tardi dal servizio, ma volle uscire comunque.

 Faceva di tutto per essere un buon padre, nonostante avesse un lavoro così impegnativo. Non erano ancora le nove e il negozio dove aveva scelto di andare, nella piazza principale del paese, era poco distante dalla casa in cui abitava. I negozi erano ancora aperti e affollati, come accade sempre il giorno prima della Befana. Verso le ventuno e quindici mentre stava facendo vedere la bicicletta al figlioletto, da una cinquecento gialla gli spararono con un fucile a canne mozze. Fu raggiunto da una scarica di otto pallettoni che gli si conficcarono tra il collo e la spalla. Il bambino era con lui, vide tutto. Vide il padre cadere con il corpo insanguinato. Vide la gente urlare e scappare. Carmine non capì subito cosa stava accadendo. Si sentì lasciare dalla mano del padre. Ebbe solo la forza di gridare: “Papà, papà, non mi lasciare!”.


Mio fratello fu trasportato al Loreto Mare, ma vi giunse cadavere. In quella cinquecento c’erano tre giovani, appartenenti ai Moccia, Luigi, Antonio e Vincenzo»: il clan sul quale il maresciallo D’Arminio aveva condotto indagini. Investigava da tempo sui rapporti tra clan siciliani e boss napoletani legati ai traffici internazionali di droga. «Eravamo in pena, perché alle undici di sera mio fratello non era ancora ritornato. La moglie cominciava a preoccuparsi. Mi chiedeva continuamente: “Ma quando torna? Ha con sé anche il bambino. Cosa sarà accaduto?”. Nessuno ci avvertì.


 La notizia della morte di mio fratello la sentimmo dalla televisione. Gerardo aveva condotto tante indagini delicate», dice ancora Orsola. «Era diventato maresciallo maggiore non per anzianità, ma per meriti acquisiti sul campo. Aveva avuto undici encomi. Mio fratello era uno che lottava contro la criminalità e che a detta di tutti quando c’era lui a comandare la stazione di Afragola i crimini erano diminuiti di parecchio. Era considerato un esperto di mafia perché era stato quattro anni a Palermo. Del delitto di mio fratello Gerardo alla fine si autoaccusò il più piccolo dei tre fratelli Moccia, Vincenzo, che all’epoca era minorenne e credo che lo chiamassero “Angioletto”. Al processo venne condannato a diciassette anni, ma, dopo abbuoni vari e buona condotta, è stato in carcere solo undici anni». Vincenzo Moccia, appena uscito dal carcere, fu assassinato da un commando, nell’ambito di una guerra di camorra. «Da allora c’è una famiglia distrutta. La primogenita di mio fratello, Giusy, è morta il 25 luglio del 2003. Aveva un male incurabile. La moglie Anna è deceduta a maggio del 2009.


La famiglia, in pratica, non c’è più. I figli non vogliono conservare niente che ricordi la morte del padre. Gli è mancato tanto e non riescono a colmare il vuoto che ha lasciato. E ora sembra che nessuno più se ne ricorda di quel maresciallo così attivo e così dedito all’Arma dei Carabinieri», dice Orsola con una vena di amarezza nella voce. «Per lui la divisa che indossava era tutto. Prima della divisa c’era la famiglia. Che ora è come se fosse morta con lui. E dopo tanti anni dalla sua morte, mio fratello è come scomparso dalla vita collettiva, nessuno più ne ha memoria. Per ricordarlo gli facciamo dire una messa tutti gli anni. È venuta una mia cugina a casa proprio il giorno dell’anniversario della sua morte e ha portato un articolo di giornale che lo ricordava. S’è messa a piangere solo parlandone. E con lei anche tutta la famiglia. Qui è come se ci fosse perennemente il lutto. Ora che sono passati trentaquattro anni, al solo parlarne, il dolore che portiamo dentro è come se si riacutizzasse. Si aprono tutte le ferite». La voce di Orsola è rotta dall’emozione. «Non esistono più feste, non esistono più giornate di sole. Non esiste più niente. È tutto spento. Si va avanti per inerzia. La nostra vita s’è fermata a quel 5 di gennaio del 1976».

 La famiglia D’Arminio ora vive a Montecorvino Rovella, cercando di sopravvivere alla tragedia. È ritornata dove aveva le radici. Dove ci sono i monti che circondano il paese, pieni di sorgenti sulfuree. Ma quel carabiniere che non aveva paura di niente, non c’è più. C’è solo il dolore e una lapide nella piazza principale di Afragola che lo ricorda. Alla sua memoria è stata assegnata la medaglia d’argento al valor militare.

BEPPE ALFANO, "UN GORNALISTA CHE NON SI FACEVA I FATTI SUOI"

Beppe Alfano stava rientrando a casa, a Barcellona Pozzo di Gotto. Erano da poco passate le 22 e quella sera, l’8 gennaio di diciotto anni fa, lo aspettavano anche i killer di Cosa Nostra per ammazzarlo. Beppe Alfano era corrispondente del giornale “La Sicilia” da Messina. Scriveva di mafia in modo chiaro e puntiglioso. Denunciò quello che molti non avevano il coraggio di fare: la presenza della criminalità organizzata negli affari  in una zona della Sicilia che tutti ritenevano immune dagli interessi di Cosa Nostra. Dai suoi articoli nacquero grandi inchieste, ma anche la sua condanna a morte, perché era solo nelle sue denunce. Lo ammazzarono con tre colpi di pistola mentre era a bordo della sua auto.

Beppe Alfano lo ha ricordato anche il senatore del PD, Giuseppe Lumia, in una nota diffusa dalle agenzie di stampa. «Nella provincia di Messina, cosiddetta 'babbà perché allora erroneamente considerata immune dal fenomeno mafioso, Beppe Alfano svelò una realtà ben diversa da quella che si voleva far credere». Lo dice il senatore Pd Giuseppe Lumia, ricordando il giornalista ucciso dalla mafia a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) l'8 gennaio 1993. «Nei suoi articoli e nelle sue inchieste giornalistiche - aggiunge - raccontò la presenza di consorterie criminali e collusioni mafiose con il mondo delle istituzioni locali e degli affari che condizionavano la vita politica, economica e sociale. Una scelta coraggiosa che Alfano fece per amore del giornalismo e della sua terra, quando scrivere di mafia voleva dire guadagnare una miseria e allo stesso tempo rischiare la vita. Beppe Alfano sapeva che per combattere la mafia bisognava renderla visibile ai cittadini, chiamarla per nome, spiegarne gli effetti nefasti sulla vita dei cittadini e delle imprese. La sua testimonianza è un faro per chi vuole intraprendere e per chi svolge l'attività giornalistica, ma anche un esempio di coraggio e di libertà per tutti».

sabato 7 gennaio 2012

RUBATI FIORI SULLA LAPIDE DI PIPPO FAVA. "DOMANI LI RIMETTEREMO"

Hanno rubato i fiori e la corona sulla lapide che ricorda di Pippo Fava. Erano stati messi  giovedì scorso a Catania, davanti al luogo in cui il 5 gennaio del 1984 venne assassinato dalla mafia il giornalista siciliano. Lo ha reso noto la fondazione che prende il nome del giornalista e scrittore assassinato, dopo che ieri pomeriggio non sono stati più trovati dove erano stati collocati la corona che era stata posta ai piedi della lapide dall'amministrazione comunale, due mazzi di fiori appoggiati al muro e un mazzo di lilium gialli, quest'ultimo appeso, come ogni anno, sopra la lapide, ad una considerevole altezza da terra. «Ora basta. Questo succede ogni anno - ha detto Elena Fava, figlia del giornalista ucciso - ma ora ho deciso di dire la mia: vergognatevi. Ma quanto fastidio continua a dare quest'uomo a questa città?». «Quello che è accaduto - ha aggiunto - è una forma di disprezzo nei confronti di quello che noi facciamo e ribadiamo anno per anno. Rubare i fiori per strada è come rubarli ad una tomba»




Ma domani ci saranno nuovi fiori sulla lapide di Pippo Fava Lo ha reso noto proprio  la Fondazione Fava. Alla manifestazione, in programma alle 10, parteciperà, tra gli altri, la figlia del giornalista, Elena. L'amministrazione comunale ha intanto reso noto che i suoi giardinieri, su disposizione del sindaco Raffaele Stancanelli, hanno collocato stamani sotto la lapide una nuova corona d'alloro coi nastri rossazzurri. Stancanelli ha definito l'accaduto «un isolato atto indegno che la città tutta respinge con fermezza, riconfermando invece i diffusi sentimenti di apprezzamento per le coraggiose battaglie civili di libertà dall'oppressione mafiosa che furono proprie di Giuseppe Fava»

venerdì 6 gennaio 2012

ASSOCIAZIONE VITTIME GEORGOFILI: "BOSS NON HA DIRITTO A GRATUITO PATROCINIO"

L'associazione delle vittime di via dei Georgofili è decisamente contro alla concessione del gratuito patrocinio al boss Vincenzo Vigna «Il gratuito patrocinio non può essere un diritto per Vincenzo Virga perchè non si è pentito, non ha collaborato con la giustizia, e quindi non si sa dove siano i suoi ingenti capitali rubati alla collettività. Il gratuito patrocinio è un diritto per le vittime della mafia, non per i suoi carnefici». Lo scrive il presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, Giovanna Maggiana Chelli, riguardo al fatto che lo Stato paga l'avvocato al boss Vincenzo Virga poichè sarebbe nullatenente. «Il piatto continua a sbilanciarsi dalla parte della mafia - commenta Maggiani Chelli -, un giorno non si può fare a meno di passare mafiosi da 41 bis a carcere normale, un altro non si può fare a meno da parte dello Stato di saldare il conto per le spese processuali per mafiosi del calibro di Vincenzo Virga, che qualche nomination l'ha trovata pure nei processi per le stragi del 1993». «Abbiamo visto in questi 18 anni - continua Maggiani Chelli - decreti governativi approvati in poche ore, quando i torti da riparare erano per i potenti, quando si tratta di vittime di mafia; non si sa perchè per avere giustizia bisogna aspettare i tempi di confisca dei beni alla mafia che non si realizzano mai fino in fondo».

RICORDATO A PALERMO PIERSANTI MATTARELLA A 32 ANNI DALLA SUA UCCISIONE PER MANO DELLA MAFIA

A trentadue anni dalla sua uccisione, una cerimonia di commemorazione dell'ex presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella, assassinato il 6 gennaio 1980, si è svolta stamane a Palermo. Nel luogo dell'eccidio in via Libertà sono state deposte corone di fiori. Sono intervenute autorità politiche e militari. Presente anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. «Cosa nostra - ha affermato Grasso a margine della cerimonia - tenta sempre di rifondare la commissione provinciale di Palermo, una struttura necessaria per assumere decisione strategiche, dare input e formulare decisioni. Basta pensare a quanti delitti eccellenti sono stati decisi da questa struttura. La reazione dello Stato ha destrutturato la commissione - ha sottolineato il capo della Dna - bisogna continuare a impedire che si ricostituisca». «Mattarella, trentadue anni fa, fu brutalmente assassinato dalla mafia perchè cercava di fare della politica un punto di riferimento del buon Governo e dello sviluppo, stanando il passo allo strapotere della mafia», ha affermato Carlo Vizzini (Psi), presidente della commissione Affari costituzionali. «Il suo insegnamento, dopo trentadue anni, resta un formidabile esempio che, - ha aggiunto - purtroppo, molti ammirano ma non troppi seguono concretamente». «Cambiamo passo - ha concluso Vizzini - e riportiamo la politica, quella vera, tra i giovani e le persone per bene come avrebbe fatto lui se, proprio per questo, non l'avessero massacrato».

VIA D'AMELIO, INDAGATO MECCANICO A PALERMO. È ACCUSATO DI AVERE ELABORATO FRENI AUTOBOMBA PER STRAGE

Per la strage di via D'Amelio c'è un altro indagato. Si chiama  Maurizio Costa, 46 anni e fa il  meccanico, E' accusato di aver  sistemato le ganasce della Fiat 126 poi trasformata dai boss di Brancaccio nell'autobomba che esplose uccidendo il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. Costa è residente nel quartiere palermitano dello Sperone. A citare il meccanico, che oggi è impiegato come Lavoratore socialmente utile al Comune di Palermo, è il pentito Gaspare Spatuzza. Nei mesi scorsi, Costa è stato interrogato e messo a confronto con Spatuzza, ma, come riporta stamane l'edizione locale di Repubblica, continua a negare di aver mai lavorato su quella automobile. Il procuratore Sergio Lari e i magistrati del suo pool l'hanno indagato per false dichiarazioni al pubblico ministero. In passato Costa era già stato coinvolto in inchieste di mafia. Il suo nome emerge ora dagli atti che la Procura generale di Caltanissetta ha inviato alla Corte d'appello di Catania per supportare la richiesta di revisione del processo.

«Costa lo portammo in un garage che si trova in una traversa di corso dei Mille, andando verso Villabate», ha raccontato il pentito Spatuzza. Il racconto è stato confermato anche da un altro favoreggiatore dei boss di Brancaccio, Agostino Trombetta, oggi pure lui collaboratore di giustizia. «Diedi a Costa 100 mila lire, per comprare i pezzi di ricambio - spiega Spatuzza - gli spiegai che dovevamo fare un lavoretto su una 126, per sistemare la frenatura». I magistrati stanno anche ricostruendo la posizione di Salvatore Vitale, l'ex gestore del maneggio «Palermitana equitazione salto ostacoli», già condannato per il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo. Secondo Spatuzza, sarebbe lui la talpa della mafia nel palazzo di via d'Amelio: la sua abitazione era al piano terra, un posto perfetto per controllare le mosse di Paolo Borsellino, che andava spesso a trovare la madre.

I BAMBINI DANNO "UN CALCIO ALLA CAMORRA" AL MEMORIAL VALLEFUOCO DI MUGNANO

“Ogni calcio che questi ragazzi daranno al pallone sarà un calcio alla camorra” Don Tonino Palmese, referente regionale di Libera, ha aperto con queste parole “il memorial Vallefuoco”, un torneo di calcio per bambini, promosso dall’amministrazione comunale di Mugnano, di cui è sindaco Giovanni Porcelli, e dedicato ad Alberto Vallefuoco il ragazzo ucciso dalla camorra insieme a due altri suoi amici, perché scambiati per affiliati ad un clan.


Alla cerimonia era presente anche il padre di Alberto, Bruno Vallefuoco, in rappresentanza di tutti i familiari delle vittime, ed è stato proprio lui a dare simbolicamente il calcio d’inizio al torneo.  “Quello che si sta facendo è molto importante, ma ricordare non basta – ha detto Bruno Vallefuoco -  ci vuole l’impegno quotidiano, questo noi chiediamo alla Istituzioni”. La manifestazione è stata patrocinata oltre che da Libera anche dalla Fondazione Pol.i.s. Il torneo, per la cronaca, è stato vinto dalla Mariano Keller dei Ponti Rossi a Napoli che ha avuto la meglio tra le 9 squadre pulcini categoria 2002/2003.

RICORDATO IERI A CATANIA PIPPO FAVA, UCCISO DALLA MAFIA IL 5 GENNAIO 1984

Ricordato ieri a Catania Giuseppe “Pippo” Fava, il giornalista ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984. Nel pomeriggio, davanti la sede del Teatro Stabile di Catania, c’è stato un presidio proprio dove c’è la lapide che ricorda il suo assassinio.  Nel Centro Zo di piazzale Asia, è stata proiettato, a cura della Fondazione Fava, il film 'Un siciliano come noì, di Vittorio Sindoni. Alle 21, a Cittainsieme, la presentazione del mensile 'I siciliani giovanì.

Pippo Fava, che con il periodico 'I Sicilianì aveva condotto importanti e delicate inchieste antimafia che toccavano anche rapporti tra Cosa nostra, politica e affari, quella sera di  28 anni fa, aveva appena parcheggiato la sua Renault 5 davanti il Teatro Stabile dove si doveva recare per assistere a una recita di una nipotina. Quando aprì lo sportello un sicario gli sparò e cinque proiettili calibro 7,65 lo raggiunsero al collo e alla testa. Per l'omicidio, con sentenza passato in giudicato, sono stati condannati come mandanti il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola e il nipote del boss, Aldo Ercolano. Sono stati invece assolti Marcello D'Agata, Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola, presunti esecutori del delitto, che in primo grado erano stati invece ritenuti colpevoli. Redattore e inviato speciale per riviste come Tempo illustrato e La domenica del Corriere, corrispondente di Tuttosport, Giuseppe Fava collaborò a La Sicilià. Dal 1956 al 1980 era stato capocronista del quotidiano Espresso sera. È stato anche un apprezzato drammaturgo, romanziere e autore di libri-inchiesta: nel 1975 ottenne grande successo il romanzo Gente di rispetto; nel 1977 pubblicò Prima che vi uccidano«; nel 1983 L'ultima violenza, considerato il suo capolavoro drammaturgico.

«Pochi giornalisti e scrittori come Pippo Fava hanno saputo svelare la realtà e l'anima della Sicilia, di una terra stuprata dal potere di Cosa nostra, di una politica e di una economia colluse, di una società narcotizzata dalla cultura mafiosa del compromesso e del clientelismo». Ha detto il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente la Commissione antimafia, ricordando il giornalista ucciso dalla mafia «Pippo Fava -ha aggiunto Lumia- lo ha fatto con coraggio, attraverso le sue inchieste e i suoi libri, ben sapendo che tutto questo in Sicilia sarebbe potuto trasformarsi in una condanna a morte. Ma Fava amava la Sicilia e credeva nel suo lavoro, nel giornalismo che fa pensare, che apre gli occhi ai cittadini, che mette le istituzioni di fronte alle proprie responsabilità, che fa riconoscere i problemi per affrontarli, che contribuisce alla promozione della legalità e dello sviluppo. Per questo rappresentava una pericolosa insidia da eliminare».

Pippo Fava, è stato ricordato anche a Roma nel pomeriggio di ieri, nella sede della Federazione Nazionale della Stampa dove è stato anche presentato il mensile 'I Siciliani giovanì,.

mercoledì 4 gennaio 2012

PINO MASCIARI TESTIMONE DI GIUSTIZIA: "LO STATO DEVE ESSERE PUNTUALE NON SOLO QUANDO DEVE RISCUOTERE, MA ANCHE QUANDO DEVE PAGARE"


Pino Masciari imprenditore edile e il testimone di giustizia del vibonese  che è stato costretto a lasciare la Calabria, dopo avere denunciato chi cercava di imporgli il pizzo, è intervenuto in merito a ciò che sta accadendo in questi mesi in relazione alla situazione di Equitalia.

 «La mia premessa è forse inutile, ma la faccio perchè non voglio vedere strumentalizzate le mie parole: la violenza in tutte le sue forme è sbagliata sempre e comunque, e la mia storia personale è la testimonianza più diretta ed evidente di quanto dico. Con la violenza non si ottengono che risultati negativi per tutti». Ha sostenuto Masciari.  «Ciò detto - ha aggiunto - voglio fare un appello a tutta la classe politica perchè rifletta con grande attenzione su quanto sta avvenendo intorno ad Equitalia; assisto con sgomento e con dolore a quello che sembra un vero e proprio sterminio dell'imprenditoria italiana. Lo Stato pretende puntualità nei pagamenti, si appella al senso del dovere, a volte ne fa addirittura una questione etica e morale: tutto questo quando deve riscuotere. Quando invece lo Stato deve dei denari, che siano essi rimborsi o pagamenti per prestazioni ricevute, ecco che tutto diventa più fumoso, più dubbio, e la puntualità viene a mancare».

 
«Il mio - ha sostenuto Masciari - è un appello a favore dell'imprenditoria e del commercio, perchè continuiamo a sentire notizie terribili di imprenditori che si suicidano, di famiglie che si sfasciano, di imprese che chiudono e di lavoratori sul lastrico. Allo stato attuale, non possiamo meravigliarci se commercianti e imprenditori per sopravvivere e dare da mangiare alle famiglie dei lavoratori ricorrono all'usura: per continuare a lavorare bisogna ricorrere agli strozzini». «È giunto il momento - ha concluso il testimone - di comprendere le ragioni dei cittadini, degli imprenditori, degli esercenti e di tutti coloro che lavorano: bisogna rivedere e riformare questo sistema vessatorio e trasformarlo in un sistema virtuoso, perchè in caso contrario da questa crisi non usciremo mai».

SALVATORE AVERSA E LA MOGLIE LUCIA PRECENZANO UCCISI 20 ANNI FA RICORDATI A LAMEZIA TERME

Salvatore Aversa, sovrintendente della polizia di Stato, venne ucciso a Lamezia Terme in un agguato mafioso  il 4 gennaio 1992 insieme alla moglie Lucia Precenzano, nella centralissima  via dei Campioni 1982 (successivamente è stata intitolata proprio ai coniugi uccisi). Oggi i due coniugi sono stati  ricordati con una messa  che si è celebrata nella Cattedrale di Lamezia. Alla celebrazione liturgica, presieduta dal vescovo di Lamezia Terme, mons. Luigi Cantafora, hanno partecipato i figli ed i familiari di Aversa; il prefetto di Catanzaro, Antonio Reppucci; il questore, Vincenzo Roca; numerosi funzionari e dirigenti della polizia di Stato e rappresentanti istituzionali tra cui il sindaco, Gianni Speranza. Nella sua omelia il vescovo ha affermato che «la circostanza dell'anniversario del duplice omicidio dei coniugi Salvatore Aversa e Lucia Precenzano ravviva sicuramente tanti perchè, andando forse anche ben oltre gli interrogativi su chi siano assassini e mandanti. Le indagini della giustizia umana sono legittime e doverose e molti di voi presenti siete con generosità e competenza impegnati a tutelare l'ordine pubblico con azioni sia preventive che repressive. La Chiesa italiana ha voluto recentemente ricordare, in un suo documento ufficiale, i numerosi testimoni immolatisi a causa della giustizia: magistrati, forze dell'ordine, politici, sindacalisti, imprenditori e giornalisti, uomini e donne di ogni categoria. Tra loro possiamo certamente annoverare Salvatore Aversa e la moglie Lucia Precenzano, anche loro vittime di un'ingiustizia disumana». «Le mafie - ha aggiunto - sono un vero e proprio 'cancrò, una tessitura malefica che avvolge e schiavizza la dignità della persona. Non bisogna però rassegnarsi, quasi che siano invincibili. Con Cristo è possibile cambiare vita, convertirsi, abbandonare lo stile di vita mafioso ed ogni forma di male e di peccato. L'annuncio evangelico ci interpella tutti: Convertitevi, cambiate mentalità, cambiate vita! È un appello rivolto a tutti». Ad uccidere Salvatore Aversa e la moglie furono  Salvatore Chirico e Stefano Speciale.

martedì 3 gennaio 2012

DOMANI SI RICORDANO I TRE CARABINIERI VITTIME DELLA BANDA DELLA UNO BIANCA. UNO DEI COMPONENTI DELLA BANDA QUASI CERTO IN SEMILIBERTA'

Domani il sindaco di Bologna, Virginio Merola, accompagnato dal Gonfalone del Comune, parteciperà alla commemorazione del 21esimo anniversario dell'eccidio del Pilastro nel quale morirono i carabinieri Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini, uccisi nel 1991 dai killer della banca della Uno Bianca. La cerimonia in ricordo delle vittime si aprirà alle 11.30 nella chiesa di Santa Caterina da Bologna con la messa in suffragio. Alle 12.15 in via Casini, ci sarà deposizione delle corone al monumento in memoria delle vittime. Alla commemorazione parteciperanno anche la Provincia e l'esponente Pd Raffaele Persiano in rappresentanza del partito.

Intanto Marino Occhipinti, uno dei componenti della 'banda della uno biancà condannato all'ergastolo, ha chiesto la semilibertà e prima di Natale si è tenuta un'udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Venezia per discutere la richiesta. La notizia si è appresa alla vigilia del 21/o anniversario dell'eccidio del Pilastro del 4 gennaio 1991 quando i killer della banda, composta quasi interamente da poliziotti, uccisero tre giovani carabinieri di pattuglia, Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini. Occhipinti è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio della guardia giurata Carlo Beccari, compiuto durante un assalto ad un furgone portavalori davanti alla Coop di Casalecchio (Bologna) il 19 febbraio 1988.

L'ex poliziotto della squadra mobile del capoluogo emiliano è in carcere a Padova ed ha già usufruito nel 2010 di un permesso per partecipare alla Via Crucis. Sempre nel 2010 aveva chiesto scusa a Bologna per il dolore causato. Scuse respinte al mittente dai familiari delle vittime, che avevano criticato anche la decisione di concedergli il permesso. Occhipinti è in carcere dal 1994 e quindi ha raggiunto già da tempo (con gli sconti maturati) i termini per fare domanda di semilibertà. E contro premi agli ex componenti della banda, alle celebrazioni di un anno fa, si è schierato decisamente anche l'arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra. Nell'omelia della messa celebrata in ricordo dei militari disse: «Chi ha ucciso deve accettare la punizione, senza sconti, come vera e propria espiazione non solo davanti agli uomini ma anche davanti a Dio». La banda della Uno bianca - che prese il nome dal modello di auto che gli assassini usavano prevalentemente per i loro raid - tra la metà del 1987 e l'autunno del 1994 si lasciò dietro 24 morti e oltre cento feriti tra Bologna, la Romagna e le Marche, rapinando banche, uffici postali e supermercati, sparando a testimoni o a chi, come unica colpa, era nomade o extracomunitario.

«Siamo sorpresi, sbalorditi. Non sapevamo niente». È la reazione di Rosanna Zecchi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, alla notizia appresa dai giornalisti della richiesta di semilibertà da parte di Marino Occhipinti. «Se questo è dobbiamo prenderne atto - ha detto Zecchi - . Certo non è che ci faccia piacere, ma se lui ha la possibilità di farlo e questa è la giustizia... non so cosa dire, siamo sbalorditi».



domenica 1 gennaio 2012

CAPODANNO PROIETTILI VAGANTI. QUATTRO VITTIME DAL 2008 A NAPOLI E PROVINCIA

Ancora una volta, a funestare il Capodanno in provincia di Napoli c'è una vittima: non provocata dallo scoppio di petardi pericolosi, ma - come era successo altre tre volte, dal primo gennaio 2008 - da un proiettile vagante esploso durante i festeggiamenti di mezzanotte. È questa, al momento, la pista prevalente nelle indagini sulla morte di Marco D'Apice, il ristoratore napoletano trovato cadavere fuori del suo esercizio a Casandrino, popoloso comune dell'hinterland. D’Apice è stato portato all'ospedale «San Giovanni Bosco» di Napoli poco dopo la mezzanotte. Aveva delle ferite alla bocca causate molto probabilmente da un'arma da fuoco.

Ad avvalorare l’ipotesi della morte per arma da fuoco  è stato il ritrovamento di alcuni bossoli calibro 7,65 anche se l'arma non è stata finora rinvenuta. Dinanzi al ristorante ci sono ancora i resti dei numerosi petardi esplosi per salutare l'arrivo del nuovo anno. La polizia, in ogni caso, non esclude che l'uomo sia stata raggiunto da qualche petardo. Sarà comunque l'esame medico legale, disposto dal pm di turno, ad accertare l'esatta causa del ferimento mortale. Negli anni passati, la barbara abitudine di sparare colpi di arma da fuoco aveva fatto vittime a Torre Annunziata, a Crispano e nei quartieri spagnoli di Napoli. Nella conferenza stampa di fine 2011, il questore Luigi Merolla aveva appunto richiamato questo dato: negli ultimi anni a Napoli e provincia non ci sono state vittime dei botti (anche se i fuochi illegali hanno causato centinaia di feriti e gravissime mutilazioni) ma a uccidere, più volte, è stato proprio il folle modo di celebrare con una pistola l'arrivo del nuovo anno.
Fonte: ANSA