lunedì 9 dicembre 2013

IL PREMIO NAZIONALE "MARCELLO TORRE" A LUCIA ANNUNZIATA E COMUNE DI LAMPEDUSA

Il Premio nazionale per l’impegno civile dedicato a Marcello Torre, il sindaco democristiano di Pagani ucciso dalla camorra l’11 di dicembre del 1980, quest'anno è stato assegnato al Comune di Lampedusa e alla giornalista Lucia Annunziata. La consegna del premio avverrà nel corso della manifestazione ufficiale prevista per la mattina di mercoledì 11 dicembre, presso l’aula magna del Liceo Scientifico “Bartolomeo Mangino” di Pagani, dove da 33 anni si rinnova il ricordo dell’avvocato Torre, grazie all’associazione che porta il suo nome e presieduta da Lucia De Palma e Annamaria Torre, rispettivamente moglie e figlia del sindaco di Pagani. Marcello Torre fu ammazzato poco dopo le 7 del mattino di quel tragico 11 dicembre. Aveva 48 anni. Non volle piegarsi ai diktat della politica e della camorra per gli appalti della ricostruzione post terremoto. Nel suo manifesto politico ai paganesi, aveva promesso di lottare per “una Pagani libera e civile”. Mantenne l’impegno pagando con la vita. I killer lo aspettarono sulla strada provinciale a bordo di una Fiat 127, proprio di fronte alla sua abitazione. Lo trucidarono con una scarica di pallettoni di lupara e con otto colpi di pistola. Fu come una fucilazione. Il suo collaboratore, Franco Bonaduce, che guidava l’auto, fu ferito alle spalle dopo essere riuscito ad aprire la portiera. “Dopo tanti anni – dice la figlia Annamaria Torre - mancano all’appello i mandanti politici dell’omicidio del mio papà. Non ci sarà giustizia fin quando non verranno fuori i nomi”.

 

Annanaria Torre

L’edizione 2013 del Premio, che si avvale, tra l’altro,  dell’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica, sarà incentrata sul tema della corruzione. Si comincia martedì sera con un concerto di Luca Bassanese e la piccola orchestra popolare, presso l’Auditorium Sant’Alfonso Maria de’ Liguori.  Il ricavato della vendita dei biglietti sarà devoluto al Comune di Lampedusa per le iniziative di sostegno e accoglienza ai migranti. Ma il clou della manifestazione  è previsto per  l’11 mattina, con un dibattito sulla corruzione, a cui parteciperanno Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, Nando dalla Chiesa, presidente onorario di Libera, Franco Roberti, Procuratore Nazionale Antimafia,  Alberto Vannucci, Docente di Scienza Politica e l’onorevole Rosy Bindi, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Nel corso della manifestazione saranno anche consegnati attestati di merito per l’impegno civile a don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, a Vincenzo Montemurro, Magistrato Antimafia e alla memoria di Simonetta Lamberti, giovanissima vittima innocente della camorra. La manifestazione avrà anche una coda napoletana. Alle ore 21, infatti, al Modernissimo sarà proiettato “La mafia uccide solo d’estate” e la serata dedicata alla memoria di Marcello Torre. Alla proiezione presenzieranno il regista del film, PIF e la moglie e la figlia di Marcello Torre.

venerdì 1 novembre 2013

UN MONUMENTO PER LE VITTIME DELLA STRAGE DI "ERBA ROSSA"

"Erba rossa", la strage dimenticata di Conca della Campania. Settant’anni fa, il primo novembre del 1943,  i tedeschi in fuga  uccisero per rappresaglia trentanove persone. Stamani nella frazione di “Cave” è stato inaugurato un monumento davanti alla chiesa e una croce in contrada “Faeta" con i nomi delle vittime. Di quell’eccidio non c’era una lapide, un ricordo. Niente. Se la strage è venuta fuori, lo si deve soprattutto a Graziella Di Gasparro e alla sua caparbietà. Graziella ha ottant’anni, all’epoca ne aveva 10. I tedeschi le uccisero il padre. Lo vide uscire quel primo novembre del ’43 con un secchio d’acqua e avviarsi verso una postazione tedesca, perché la loro casa era occupata dai nazisti. Fu tra coloro che non  tornarono più a casa. E’ seduta in prima fila su una sedia a rotelle e mostra tutta la sua soddisfazione per una battaglia cominciata tantissimi anni fa.



 “Finalmente qualcosa che ricordi le vittime dei tedeschi. Sono contenta davvero e lo sarebbe anche il mio papà”. In tutti questi anni, nonostante una disabilità che le limita la mobilità, non si è data pace per non far  dimenticare la morte di tanti innocenti. Una strage che non ha mai avuto riscontri ufficiali. Se n’è trovata traccia solo “nell’armadio della vergogna”. Un armadio che è stato trovato  pochi anni fa in un palazzo romano del cinquecento, in via degli Acquasparta, sede della Procura generale militare, dove venivano depositati fascicoli di tutte le stragi naziste. C’erano i nomi delle vittime e anche quelli dei carnefici. Ma fu deciso di salvare i criminali nazisti. Potevano essere utili per informazioni contro il nemico. Salvarono i criminali, ma uccisero nuovamente le vittime.



“Fu una rappresaglia – racconta lo storico Felicio Corvese che da anni cerca di ricostruire la strage di Conca della Campania – in località Orchi  un ufficiale americano travestito da frate, uccide un soldato tedesco. La rappresaglia nazista non si fa attendere. In tutta la zona ci furono morti ammazzati tra i civili dopo veri e propri rastrellamenti . La loro sete di vendetta li fa girare per le case sparse nelle campagne, prelevano diciannove uomini, tra cui anche due ragazzi di quindici e sedici anni. In contrada “Faeta” obbligano  prima a scavarsi la fossa l’uno per l’altro e poi li ammazzano a  tre alla volta”.



La strage di Conca della Campania, che  in questi anni è rimasta viva solo nella memoria di chi era stato testimone o  di quelli che hanno perso i fratelli, i padri, gli zii, ha avuto almeno un riconoscimento delle istituzioni locali. L’iniziativa del monumento,  infatti, è stata del Sindaco di Conca. Con lui c’erano anche  l’avvocato Carlo Sarro, parlamentare Pdl, che difende il Comune nella causa contro lo Stato italiano  per il riconoscimento della medaglia d’oro al valor civile; c’erano i primi cittadini dei numerosi comuni dell’alto casertano, Mignano Montelungo in testa,  dove gli anglo-americani sbarcati a Salerno,  rimasero impantanati per alcuni mesi prima di annientare la resistenza dei tedeschi in fuga. E, soprattutto, c’era tantissima gente.  “Caro papà – è la lettera che Graziella di Gasparro ha scritto al padre  -  io non so dove tu sia perché non riesco ad immaginare l'aldilà che dovrebbe accogliere gli esseri che non ci sono più. Eppure ti parlo. Ti parlo e so che tu mi ascolti, perché tu vivi da sempre nei miei pensieri…” Graziella ha letto la lettera davanti alla croce installata sul sentiero che porta al luogo della strage. “Volli vedere dov’era mio padre – ricorda tra le lacrime l’anziana donna – lo trovai in una pozza di sangue. Aveva il cranio sfondato da un proiettile e tutt’intorno l’erba era diventata rossa. Rossa del sangue del mio papà. Vorrei che si diffondesse in ogni valle l'orrore della guerra, perché mai più cresca nei prati un'erba tinta di rosso”.

mercoledì 30 ottobre 2013

GIOVANNI POMPONIO MORTO PER DIFENDERE LE PAGHE DEI FERROVIERI


Giovanni Pomponio
Il brano che segue è tratto dal mio libro "Come nuvole nere" (Melampo editore)
 
Giovanni Pomponio morirà il 30 ottobre 1975 dopo 3 giorni di agonia.
 
Quel giorno, il vice brigadiere di Polizia Giovanni Pomponio ha il turno di riposo. Ma i suoi superiori la sera prima lo hanno pregato di andare ugualmente al lavoro. “Ci sono gli stipendi da pagare e non abbiamo molti uomini per la sicurezza. Domani serve anche la sua presenza come responsabile di scorta”. Il mattino seguente, Giovanni ha un impegno importante: partecipare alla messa in ricordo di una giovane nipote della moglie. La ragazza era morta il 28 di ottobre di sei anni prima, a 16 anni, a seguito di un incidente. Giovanni vuole assolutamente andare alla funzione religiosa, ma la moglie lo rassicura: “Non ti preoccupare. Dirò a mia sorella che non sei potuto mancare dal servizio. Io andrò con l’autobus e al ritorno prenderò un taxi”. Quel consiglio dato al marito, Antonietta Vigliotti non se lo perdonerà mai, fi no alla morte. Il 28 ottobre del 1975, il vice brigadiere di Polizia Giovanni Pomponio è puntualmente al lavoro alla stazione ferroviaria di Napoli-Gianturco per scortare le paghe dei dipendenti delle Ferrovie. Sa che fra quattro giorni avrà tutto il tempo libero che vuole, perché andrà finalmente in pensione, dopo 37 anni di servizio in Polizia.

 

“E invece – racconta Sergio, il secondo figlio di Giovanni – la pensione non se la godrà mai, perché quella mattina mio padre verrà colpito a morte durante una rapina. Una banda di criminali assalta l’ufficio cassa. Sono armati di mitra e pistole per portare via 500 milioni che servono per pagare gli stipendi dei ferrovieri. Mio padre, ferito alla gola, morirà in ospedale, dopo tre giorni di agonia. Poteva rifiutarsi di rientrare in servizio quel giorno, ma lui era un servitore dello Stato, non sapeva dire di no”. Giovanni Pomponio il 28 ottobre parte presto dalla sua casa al Vomero, vuole evitare il traffico mattutino. Le strade sono quasi deserte a quell’ora, Napoli ancora dorme, ma presto si animerà di gente, di colori e di frastuoni. Poco dopo le sette è nella sede della Polizia Ferroviaria della stazione di Napoli-Gianturco. Giovanni non sa che ci sono anche altre persone che si sono alzate presto e che sono interessate agli stessi soldi che gli hanno chiesto di proteggere. Sono una banda di spietati criminali torinesi che fanno rapine in serie, negli ultimi diciotto mesi ne hanno messe a segno ben sedici. Sono arrivati a Napoli da qualche giorno, si spostano col treno, oppure in aereo, per evitare al massimo i controlli delle forze dell’ordine. Non si fanno vedere troppo in giro e non frequentano altre persone, solo quelle strettamente necessarie per organizzare nei minimi particolari le rapine. Colpiscono e spariscono senza lasciare tracce. Hanno saputo che a Gianturco il bottino è appetibile. Hanno avuto una soffiata da un basista e vogliono a tutti i costi mettere le mani sulle paghe dei ferrovieri.

 
Con Giovanni Pomponio ci sono altri sette agenti per difendere la cassa. Il vice brigadiere incarica cinque di essi di provvedere al trasferimento di 450 milioni alla stazione ferroviaria di Napoli Centrale, dove verranno pagati la gran parte degli stipendi. Abitualmente il trasporto delle paghe avviene intorno a mezzogiorno. Stavolta Giovanni Pomponio decide di anticipare questa incombenza. Appena in tempo. I rapinatori entrano in azione poco dopo le nove del mattino. Quattro banditi, armati di tutto punto, scavalcano il terrapieno di Rione Luzzatti e arrivano da un cancello laterale dell’ufficio cassa. Un cancello che sino ad allora è stato sempre chiuso.

 
Giovanni si accorge di una persona sconosciuta vicino all’ufficio paghe e forse vede anche un’arma che lo mette in allerta. Non ha notato che alle sue spalle ci sono altri due banditi. Carica il mitra e si gira verso lo sconosciuto: “Dove vai, fermati!”, gli intima. Quella mossa è la sua condanna a morte, perché da dietro gli sparano a bruciapelo per ucciderlo. Mirano alla testa, lo colpiscono alla nuca. Il proiettile fuoriesce dalla gola. Il colpo gli trancia la vena giugulare. Il vice brigadiere di Polizia cade a terra in una pozza di sangue. Un ferroviere ha visto tutto. Corre vicino a Giovanni cercando di soccorrerlo: “Bisogna portarlo in ospedale o morirà”. “Non lo toccare altrimenti farai la stessa fi ne”, gli grida uno dei banditi. Non si fanno scrupoli. Sono spietati. Si avvicinano al poliziotto a terra, gli sfilano il mitra e la pistola e continuano la rapina come se nulla fosse accaduto (…)”

 

 

sabato 12 ottobre 2013

GENNARO DE ANGELIS UCCISO 31 ANNI FA. A RICORDARLO DON LUIGI CIOTTI, SIRIGNANO E TANTI ALTRI


CESA - Simularono una rapina per ammazzarlo, ma il motivo vero della sua uccisione è da ricercare nel fatto che non si volle piegare al clan di Raffaele Cutolo. Gennaro De Angelis, agente di custodia nel carcere di Poggioreale, fu ucciso la sera del 15 ottobre del 1982. E’ stato ricordato stamani, in una cerimonia tenuta nella scuola media “Bagno” di Cesa, alla presenza di don Luigi Ciotti, il presidente di Libera,  dell’atleta Marco Maddaloni, del magistrato della DDA, Cesare Sirignano, familiari delle vittime di innocenti della camorra,  Valerio Taglione del Comitato don Diana, il Questore di Caserta Giuseppe Gualtieri e numerose altre autorità. Gennaro De Angelis era addetto alla spesa dei detenuti. Gli avevano chiesto di far passare armi e di chiudere un occhio durante i controlli. Disse di no. Il suo diniego lo condannò a morte. Quella sera di trentuno anni fa due giovani entrano armati e a volto coperto nel Circolo della Madonna dell’Arco nella piazza centrale di Cesa, a pochi passi da Aversa. Dentro ci sono una trentina di persone che giocano a carte a vari tavolini. “Fermi tutti, altrimenti vi ammazziamo”, gridano i due  a volto coperto. Tutti pensano ad una rapina. Invece i due giovani si dirigono decisi verso il tavolo dove sta giocando Gennaro De Angelis e gli sparano alla testa a bruciapelo. Alcuni colpi feriscono anche un’altra persona che era vicino alla vittima. Si tratta di Pasquale Marino, sessanta anni, pensionato. Morirà qualche giorno dopo in ospedale. Tutta la sparatoria dura meno di un paio di minuti. Fuori c’è l’auto ancora in moto guidata da un altro complice. I due escono in fretta dal circolo e salgono sulla vettura che li stava aspettando. Fuggono in direzione di Aversa. Sono le venti e quindici del 15 ottobre 1982.
 
“Quei colpi di pistola – ha detto don Luigi Ciotti  – non hanno ucciso solo Gennaro De Angelis e Pasquale Marino, ma hanno ucciso dentro anche la giovane moglie Adele, e i figli, Vincenzo, Marianna e Annamaria. Allora – ha proseguito -  quei colpi  o li sentiamo che hanno sparato anche a noi, se no, non ha senso nulla. Voi troverete tanta gente che si commuove e poi dimentica in fretta. Non basta commuoversi. Bisogna muoversi di più, tutti”. Sul palco sono  saliti testimoni importanti della lotta contro la criminalità, chiamati ad uno ad uno da Salvatore Cuoci, coordinatore della manifestazione. Davanti a centinaia di studenti, Marco Maddaloni, che insieme ai suoi parenti a Scampia sta provando da un po’ di tempo a recuperare ragazzi difficili, ha cercato di spiegare che il bullismo può essere l’anticamera  del camorrista. “Essere furbetti è una cosa, essere delinquenti è un’altra. Bisogna cominciare dalle scuole ad aiutare i bambini più deboli per farli diventare grandi, esattamente come noi”. Ha premiato poi le squadre che hanno partecipato ad un torneo di calcio in memoria di Gennaro De Angelis.
 
Per Valerio Taglione, del Comitato don Diana, ricordare Gennaro De Angelis significa anche ricordare anche tutte le vittime che in questi anni sono state ammazzate dalle mafie. “Proviamo a dire  ai familiari, noi stiamo con voi. Ce la possiamo fare a costruire un territorio completamente diverso. Ce la possiamo fare, ce la dobbiamo fare”. Per il magistrato della DDA, Cesare Sirignano bisogna aiutare quelli che hanno più difficoltà. “Ho visto troppi giovani nella aule di tribunale ricevere condanne molto serie e tanti di quei giovani sono di queste terre. Non è bello che persone dell’età dei miei figli debbano essere  condannati a pene così dure. E’ una sensazione molto brutta per un magistrato. Però  - ha aggiunto - è importante diffondere messaggi di speranza. Non bisogna cedere alle facile ricchezze. Non bisogna seguire messaggi di prepotenza, ma bisogna aiutare le persone che hanno bisogno di più. Altrimenti solo con le parole non riusciamo a cambiare molto”. Alla fine della manifestazione, per tutti una grande torta,  preparata dai ragazzi dell’alberghiero di Cesa. Sopra c’era l’immagine di Gennaro de Angelis e i nomi di tutte le vittime della camorra della provincia di Caserta.

La manifestazione in ricordo di Gennaro De Angelis è stata promossa da Libera, "Comitato don Peppe Diana", coop. "Carla Laudante", la Pro Loco di Cesa, e le associazioni "Vinci", "Cesarinasce", Labor Mentis", "Attiviamocinsieme", Coordinamento Campano familiari vittime innocenti e Fondazione Polis 

 

 

sabato 5 ottobre 2013

RICORDATO ANTONIO CANGIANO A 25 ANNI DALL'AGGUATO DI CAMORRA CHE LO PARALIZZO'


Don Ciotti fa visita a Tonino Cangiano
CASAPESENNA - La sera del 4 ottobre del 1988 lo ferirono in un agguato di camorra costringendolo a vivere su una sedia a rotelle. Antonio Cangiano, assessore ai lavori pubblici e vice sindaco a Casapesenna, paese del boss Michele Zagaria, doveva essere punito perché aveva rifiutato di sottostare ai ricatti del clan per l'affidamento di un appalto. Cangiano, che è deceduto il 23 ottobre del 2009, a 60 anni,  anche in seguito a quelle ferite, è stato ricordato nel centro sociale cittadino, alla presenza della moglie e dei suoi tre figli. “Vogliamo la verità su quella vicenda che ha segnato la nostra comunità – ha detto Pasquale Cirillo, di Legambiente che ha promosso l’iniziativa – perché a distanza di tanti anni non si conoscono né i killer, né i mandanti di quell’agguato”. Il commando che sparò alcuni colpi di pistola a Cangiano in piazza Petrillo, gli spezzò anche la colonna vertebrale. Da allora rimase paralizzato.
 
Don Luigi Menditto
A commemorare Cangiano anche don Luigi Menditto, parroco di Casapesenna da 50 anni. Don Luigi ha ricordato come  Cangiano aveva tentato di riprendersi una rivincita nei confronti della camorra. “Lo convinsi a candidarsi a Sindaco della città. Era il 1993 – ha detto il parroco – Mi recai a casa sua insieme ad una delegazione di un comitato cittadino. Tonino accettò, nonostante le sue condizioni di salute e divenne Sindaco il 21 novembre 1993, con quasi 4000 preferenze”. Ma fu di nuovo costretto alle dimissioni in seguito a nuove minacce da parte della camorra. Il 23 gennaio del 1996 il consiglio comunale fu sciolto, ancora una volta, per condizionamenti di camorra. La prima volta avvenne a settembre del 1991. Nel 1995 gli amputarono anche le gambe e comunicava solo attraverso un computer. Il 19 marzo del 2009, in occasione del quindicesimo anniversario della morte di don Giuseppe Diana, gli fece visita don Luigi Ciotti. “Per noi sei un simbolo vivente del movimento anticamorra” gli aveva detto il presidente di Libera. 
 
 
“Apprendo solo ora che Antonio Cangiano non è stato riconosciuto vittima di camorra – dice Gianni Solino, responsabile provinciale di Libera Caserta – l’umiltà, la dignità e la riservatezza della sua famiglia non devono essere di ostacolo al suo riconoscimento, perché sappiamo tutti che Tonino Cangiano è una vittima della camorra. La sua è una storia di resistenza che è avvenuta in questo territorio. Una resistenza non di massa, di pochi, ma che c’è stata. Cangiano ha pagato come don Peppe Diana la sua scelta di non piegarsi alla camorra”.
 
Gianni Zara, ex sindaco di Casapesenna, che con le sue dichiarazioni ha fatto scattare una nuova indagine sugli amministratori della città, ha ricordato di quando incontrò  Tonino Cangiano a casa sua. “Era il natale del 2008 ero ancora sindaco in quel periodo. In quell’incontro Tonino mi ha trasmesso  la sua forza, la sua intelligenza e il suo coraggio. Mi ha detto: “Non mollare. Qualunque sia il pericolo che hai davanti, qualunque  sia il sistema che rappresenta l’illegalità, lo devi combattere senza avere paura e con grande determinazione”.
 
E’ toccato infine a Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e suo amico personale, ricordare le battaglie comuni contro la camorra. “Tonino era uno di noi. Insieme abbiamo denunciato i rischi di un sistema camorristico che stava conquistando pezzi della nostra economia, che conquistava anche pezzi delle nostre istituzioni, candidandosi direttamente alla gestione della cosa pubblica e stabilendo una vera e propria dittatura militare. Lui ha pagato il prezzo più alto. Come don Diana, come il sindacalista della CGIL, Tammaro Cirillo a Villa Literno.  Abbiamo fatto una promessa a noi stessi – ha concluso Natale -  tutti questi morti per mano della camorra, non devono essere dimenticati, perciò siamo qui ancora a parlare di Tonino Cangiano”. Dopo il saluto dei familiari di Cangiano, e la lettura di alcuni passi in suo ricordo da parte di ragazzi delle medie di Casapesenna, una corona di fiori è stata deposta alla fine della cerimonia all’ingresso del centro sociale che porta il suo nome.






Alla manifestazione hanno partecipato, tra le tante persone, anche una delegazione del coordinamento familiari di vittime innocenti della camorra (Salvatore Di Bona, Pasquale Scherillo, Carmen del Core), Valerio Taglione, portavoce del Comitato don Peppe Diana, il sindaco di San Marcellino, Pasquale Carbone, esponenti di Legambiente e del movimento 5 stelle.

 

sabato 14 settembre 2013

"CAMBIATE LA TABELLA SU DON DIANA". IL VESCOVO RAFFAELE NOGARO PRIMO FIRMATARIO DI UN APPELLO AL SINDACO DI CASERTA

“Cambiate la tabella su don Diana”. Un appello è stato consegnato stamattina al sindaco di Caserta, Pio del Gaudio, affinché rimuova  e modifichi la tabella apposta all’inizio dello slargo che il  6 settembre scorso è stato dedicato a don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso il 19 marzo del 1994. Sulla tabella, infatti, non è scritto che è stato ucciso dalla camorra: “Largo Giuseppe Diana, sacerdote – medaglia d’oro al valor civile 1958 – 1994”. Come invece è riportato correttamente sulla tabella dello slargo intitolato a don Puglisi  e inaugurato nello stesso giorno: Largo Giuseppe Puglisi, sacerdote – vittima della mafia 1937 – 1993”.

L’appello che chiede la modifica della tabella, è stato firmato da diverse personalità cittadine, primo fra tutti, Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, amico fraterno di don Diana e tra i più strenui difensori della sua memoria. Alla cerimonia di inaugurazione, erano presenti, tra gli altri, lo stesso sindaco di Caserta e il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo. Il giorno dopo l’inaugurazione, voluta fortemente dai padri Sacramentini, è stato lo stesso fratello di don Diana, Emilio, a sottolineare questa omissione così palese, precisando che il fratello non era morto per un incidente sul lavoro. “Omettere di scrivere che è stato ucciso dalla camorra  - aveva aggiunto Emilio Diana - è occultare la verità. Non riesco a capire come ancora adesso c’è chi ha paura di pronunciare la parola camorra”. I due preti, don Puglisi e don Diana, furono uccisi a distanza di sei mesi l’uno dall’altro: Don Puglisi il 15 settembre 1993, nel giorno del suo 56° compleanno, mentre don Diana fu ammazzato il 19 marzo 1994, quando aveva 36 anni, nel giorno del suo onomastico. Insieme a Nogaro hanno firmato l’appello anche  le suore orsoline di “Casa Rut”, Pasquale Iorio (Le Piazze del Sapere),Maria Carmela Caiola (Italia Nostra), Carlo De Michele (Carta 48), don Nicola Lombardi (Diocesi di Caserta), Elisabetta Luise        (Auser Caserta), Nicola Melone (Ordinario SUN), Andrea Mongillo (Confederdia Campania), Biagio Napolano (Arci Caserta), Pasquale Sarnelli (Acli Caserta) e Gianfranco Tozza (Legambiente Caserta).

lunedì 9 settembre 2013

IL PRIMO CIACK PER LA FICTION SU DON DIANA


Alessandro Preziosi
Sono cominciate stamattina a Frignano le riprese per la fiction su don Giuseppe Diana, “Per amore del mio popolo”, che andrà in onda su Rai1 il 19 marzo del 2014. Il primo ciak alle 8,30 dentro lo spazio della fiera settimanale. Uno spazio che è diventato per l’occasione una stazione di autobus. Sul set, che è stato attrezzato sin dalle primi luci dell’alba, la numerosissima troupe guidata dal regista Antonio Frazzi, insieme al produttore, Giannandrea Pecorelli, responsabile dell’Aurora film che produce la fiction e, ovviamente, l’attore protagonista, Alessandro Preziosi, che interpreta il ruolo di don Diana. Sul posto anche tantissimi cittadini armati di telefonini che per tutto il tempo hanno cercato di fotografare Preziosi, ma sono stati tenuti a debita distanza da vigili urbani e carabinieri.
Nel pomeriggio di ieri l’attore protagonista si era recato a casa della famiglia di don Diana, in via Garibaldi a Casal di Principe, accompagnato dal regista e dal produttore, per incontrare i fratelli e la mamma del sacerdote ucciso. Voleva capire ulteriormente una personalità così semplice, ma al tempo stesso così dirompente, come quella di don Diana. “Ha visitato la stanza di don Peppe che è ancora intatta –  spiega Valerio Taglione responsabile del Comitato don Diana, presente all’incontro -  e ha parlato a lungo con i familiari. Preziosi è venuto per interpretare con lo spirito giusto un sacerdote che con la sua morte ha cambiato il corso della storia di queste terre. Anche per un attore bravo come lui non deve essere facile affrontare questo ruolo. Siamo convinti  - ha aggiunto Taglione - che la scelta di girare buona parte del film nelle terre di don Diana avrà delle ricadute positive, sia economiche che sociali, a partire dall’incremento della presenza di tanti giovani che già da alcuni anni arrivano qui per partecipare ai campi di lavoro di Libera”. Poco dopo le 10 c’è stato il trasferimento della troupe dentro il cantiere di una ditta di autotrasporto di materiali edili, tra Frignano e Casaluce, per girare altre scene. La lavorazione del film andrà avanti per almeno quattro settimane e coinvolgerà anche numerose comparse locali. “Mi auguro – dice Emilio Diana, il fratello di don Giuseppe – che questo film possa dare più forza a quelli che si battono per cambiare questa terra. Solo così potremo dire che il suo sacrificio non è stato invano”.

sabato 7 settembre 2013

"RIMUOVETE QUELLA TARGA". IL FRATELLO DI DON PEPPE DIANA, EMILIO, CONTRO IL COMUNE DI CASERTA


Il Comune di Caserta intesta una strada a don Pino Puglisi e una a don Giuseppe Diana, ma nella tabella del prete ucciso a Casal di Principe, omette di scrivere che è stato ucciso dalla camorra. Una scelta criticata dalle associazioni  anticamorra e soprattutto dalla famiglia di don Diana che chiede di sostituirla. L’iniziativa di dedicare due strade a due preti uccisi dalle mafie, è stata fortemente voluta dai padri Sacramentini di Caserta che gestiscono la parrocchia di Sant’Augusto Vescovo, ospitata nella struttura dalla Tenda di Abramo in via Borsellino. Il Comune ha aderito alla richiesta, scegliendo due piccoli slarghi nei pressi di via Borsellino, che distano circa 500 metri tra di loro. Alla cerimonia di inaugurazione, avvenuta venerdì sera alla presenza del Sindaco di Caserta, Pio del Gaudio, e del vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, sono state scoperte le due tabelle stradali dove sulla prima c’è scritto: Largo Giuseppe Puglisi, sacerdote – vittima della mafia 1937 – 1993, mentre sulla seconda c’è scritto Largo Giuseppe Diana, sacerdote – medaglia d’oro al valor civile 1958 – 1994”.
 
“Mio fratello non è certo caduto dal terzo piano di un fabbricato in costruzione – dice con un amaro filo d’ironia Emilio Diana, il fratello di don Peppe, dopo aver appreso della notizia – omettere di scrivere che è stato ucciso dalla camorra è occultare la verità. Non riesco a capire come ancora adesso c’è chi ha paura di pronunciare la parola camorra”. I due preti, don Puglisi e don Diana, furono uccisi a distanza di sei mesi l’uno dall’altro. Don Puglisi il 15 settembre 1993, nel giorno del suo 56° compleanno, mentre don Diana fu ammazzato il 19 marzo 1994, quando aveva 36 anni, nel giorno del suo onomastico. Ma per don Diana questa è una vicenda che ritorna. Nel giorno dei suoi funerali, il 21 marzo del 1994, fu l’allora vescovo di Aversa, Lorenzo Chiarinelli, a omettere la parola camorra nella sua omelia funebre. Qualcuno gli aveva suggerito di stare attento a sbilanciarsi perché don Diana “era stato ucciso per una vicenda di donne”. Un depistaggio messo in atto dagli stessi uomini della camorra per infangare la memoria del prete di Casal di Principe. Da più parti, intanto, si sono levate voci per rimuovere quella tabella e modificarla. Emilio Diana è d’accordo e dice: “Quella tabella così anonima rischia di offendere la memoria di mio fratello. Mi appello al Sindaco della città di Caserta affinché la faccia sostituire con la scritta esatta: “Giuseppe Diana, sacerdote – vittima della camorra  1958 – 1994”. Intanto lunedì mattina cominceranno le riprese per la fiction su don Diana: “Per amore del mio popolo”, che andrà in onda su rai1 il 19 marzo dell’anno prossimo.  Il primo ciak nella piazza di Frignano, a pochi passi da Casal di Principe.

mercoledì 28 agosto 2013

INTERVISTA DELLA FIGLIA DI RIINA AD UNA TV SVIZZERA. FACEVA MEGLIO A STARSENE ZITTA


La figlia di Totò Riina, Lucia, la terzogenita,  in una intervista alla tv svizzera Rts,  dichiara di essere  dispiaciuta per le vittime della mafia, ma di essere onorata di portare il cognome del padre. Un video che ha  già suscitato molte polemiche e, soprattutto le stizzite reazioni della presidente dell’associazione vittime di via Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli.

 «La smetta di rilasciare interviste a tanto il chilo - scrive Maggiani Chelli -, suo padre non ha ucciso qualcuno durante un raptus, ma ha macellato e fatto macellare scientificamente centinaia di poveri cristi che si sono trovati anche solo sulla sua strada come i nostri figli. Inorridisca una buona volta Lucia Riina davanti a tanto sangue innocente versato perché quelle come lei potessero fare la bella vita». «La prossima volta che rilascia una intervista del genere - scrive Maggiani Chelli - penseremo seriamente a cercare la possibilità di querelarla per lesa memoria dei nostri morti torturati e massacrati come cani dal macellaio di via dei Georgofili Salvatore Rina. Inoltre bastano le nostre di televisioni che esaltano i figli dei criminali , non ci si mettano anche quelle svizzere, guardino in casa loro e scopriranno così che capi mafia come Riina Salvatore non ne hanno mai avuti e che non è il caso di dare voce alla loro progenie».

Il commento della sociologa Alessandra Dino. «Nulla di nuovo. Ancora una volta la strategia comunicativa della mafia, e in particolare quella della famiglia Riina, passa attraverso l'utilizzo di rassicuranti figure femminili, come accade in questo caso in cui a parlare è la figlia minore del boss». Così la sociologa Alessandra Dino, docente dell'università di Palermo e autrice di numerosi saggi sul rapporto tra la mafia e le donne, commenta l'intervista rilasciata a una Tv svizzera da Lucia Riina. «Quello che più mi ha colpito - sottolinea la studiosa - è la continuità familiare: nell'intervista in studio Lucia ha la stessa facies, lo stesso look, perfino la stessa pettinatura che aveva la madre, Antonietta Bagarella, quando negli anni '70 fu intervistata dal giornalista Mario Francese, poi ucciso dalla mafia. Ed anche gli argomenti sono gli stessi, come il richiamo alla tradizione cattolica familiare e la difesa del cognome che porta. Insomma, lascia riflettere non poco il fatto che una donna di 32 anni usi gli stessi clichè della madre, a quarant'anni di distanza». Riferendosi infine alla frase di Lucia Riina che si è detta «dispiaciuta» per le vittime di mafia ma «onorata» di portare il cognome del padre, la sociologa osserva: «C'è un corto circuito logico in queste dichiarazioni, un forte distacco emotivo, come se nessuno fosse responsabile della morte di queste persone. Una separazione tra sfera privata e responsabilità pubbliche. Il fatto che Lucia Riina non riesca a condurre una vita 'normale’ non dipende certo dallo Stato ma è legato alla storia della famiglia cui appartiene»

Maria Falcone  - «Provo sconcerto e biasimo per le dichiarazioni di Lucia Riina. Pur rispettando il suo ruolo di figlia e consapevole che le colpe dei padri non possano per nessuna ragione ricadere sui figli, non accetto che una donna cattolica praticante, come lei sottolinea più volte nell'intervista, non prenda le distanze da un padre assassino. Un padre che ha provocato lacrime e dolore disumano alle tante famiglie delle vittime colpite dalla sua efferata violenza e ferocia». Così Maria Falcone, sorella di Giovanni, il giudice antimafia ucciso da Cosa nostra nel 1992, commenta l'intervista rilasciata a una tv svizzera dalla figlia di Totò Riina, Lucia. «Sarebbe stato meglio, per etica, moralità e discrezione verso gli italiani - prosegue -, non sbandierare il proprio 'onorè di portare un cognome tanto scomodo e relegare al proprio privato i sentimenti che si nutrono verso un genitore. Così come è altrettanto grave che per facile audience una tv svizzera si interessi alla figlia di un boss italiano, raccogliendo le sue opinioni su fatti tanto drammatici per la storia del nostro Paese e per le famiglie dei martiri colpiti dalle azioni mafiose ordite dal boss Salvatore Riina».

Sonia Alfano - «Lucia Riina proprio non ce la fa a stare lontana dalle luci della ribalta. È più forte di lei. E non ce la fanno giornali e tv a mantenere la decenza evitando di darle spazio» commenta Sonia Alfano, presidente della Commissione Antimafia Europea. «È francamente esasperante e disgustoso assistere a tale reiterato spettacolino da parte di Lucia Riina: - aggiunge - si dice dispiaciuta per le vittime del padre, ma al contempo orgogliosa del cognome che porta, perché corrisponde alla sua identità. Una contraddizione in termini, senza dubbio. Del resto Lucia Riina non è nuova a queste uscite e da lei non mi aspetto nulla di meglio di quanto fino ad ora fatto (o non fatto) e detto (o non detto)».

«È figlia di uno dei più cruenti mafiosi che la storia ricordi ed orgogliosa di esserlo. - prosegue - Questo, per me, basta a qualificarla. Mi aspetterei però maggiore prudenza e dignità da parte dei media. I familiari delle vittime, loro sì giustamente orgogliosi dei nomi che portano, vengono spesso ignorati. Si riesce a dare maggiore spazio e visibilità ai figli dei mafiosi che ai figli degli eroi civili che i mafiosi li hanno combattuti con coraggio e sprezzo del pericolo, rimettendoci la vita».


Intanto,  è sparito dal sito della tv svizzera TSR il video dell'intervista a Lucia, la figlia di Totò Riina. Lo annuncia Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell' Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. «Ci aspettiamo ora - aggiunge l'associazione - che quanti, nel mondo, hanno in queste ore divulgato il video contenente l'intervista alla figlia del Capo di »Cosa nostra«, facciano altrettanto». «L'enormità della strage di Firenze in via dei Georgofili il 27 Maggio 1993 ha fatto il giro del mondo , perché erano stati colpiti gli Uffizi , ma quella notte morirono sotto 277 chili di tritolo distribuito da Salvatore Riina per salvaguardare i suoi affari e quelli dei suoi eredi, due bambine piccolissime, un ragazzo di venti anni e due giovani di poco più di 30 anni. Va tolta quindi ogni voce ai mafiosi terroristi eversivi del 1993 e ai suoi eredi, a meno che non vogliono verbalizzare ciò che sanno nella procura della Repubblica di Firenze» conclude l'associazione.

martedì 27 agosto 2013

TESTIMONI DI GIUSTIZIA ASSUNTI NELLA P.A. UNA NUOVA BEFFA PER AUGUSTO DI MEO CHE FECE CONDANNARE IL KILLER DI DON DIANA

Augusto Di Meo
“Il Decreto che assume i testimoni di giustizia nella Pubblica Amministrazione? Una buona norma, ma per me sfuma anche questa possibilità di aiuto, perché lo Stato non mi ha mai riconosciuto come testimone di Giustizia”. Augusto Di Meo, il fotografo di Casal di Principe che fece condannare il killer di don Giuseppe Diana, è amareggiato e deluso, perché nonostante la sua testimonianza sia stata determinante ai fini del processo e delle condanne comminate, non è stato mai riconosciuto come “testimone di giustizia”. Ora, con l’approvazione del decreto da parte del governo di norme che prevedono l’assunzione per “chiamata diretta nominativa” e che dovrebbe riguardare circa 80 persone in tutt’Italia, Di Meo rischia di perdere un altro treno che potrebbe contribuire a rendere meno difficoltosa la sua attuale condizione lavorativa e familiare, penalizzata dai problemi derivanti della crisi economica. Augusto Di Meo ha  citato in giudizio il Ministero dell’Interno per ottenere un riconoscimento che a diciannove anni da quei fatti, non è mai arrivato.  Fu grazie al suo coraggio se gli inquirenti cominciarono da subito la caccia a colui che aveva osato profanare una chiesa con l’uccisione di un prete.  Appena dopo il delitto, Di Meo riconobbe in fotografia la persona che aveva sparato quella mattina: “Si è lui, è Giuseppe Quadrano"  disse deciso il fotografo ai carabinieri che lo interrogavano 
Dopo quella testimonianza, Augusto Di Meo,  temendo probabili ritorsioni, fu costretto a chiudere  la sua attività di fotografo a Villa di Briano. Si recò in Umbria, insieme con la moglie e i due figli piccoli, dove tentò di trasferire la propria attività di fotografo professionale, ma senza successo. “Negli anni passati in Umbria – racconta Di Meo -  ho dovuto attingere a tutti i miei risparmi per poter continuare a svolgere la mia attività anche dopo il trasferimento e  mantenere la mia famiglia. Nel frattempo ho maturato anche diversi debiti, perché lo Stato non mi ha mai fornito alcuna protezione, nè mi ha mai aiutato dal punto di vista economico”.  
 
         Di Meo, oggi 52enne,  è ritornato  da quindici anni a vivere facendo il fotografo nei suoi luoghi di origine. La moglie Silvana 55 anni,  insegna nelle scuole materne del Comune di Roma. Tutte le mattine parte da Villa di Briano da casa poco prima delle 5  e torna a sera, poco prima delle 20, con un disagio familiare non indifferente. I figli, Antonio  (laureato in ingegneria) è disoccupato. La ragazza,  Livia Rosa,  è laureata in scienze della formazione ed è anche lei disoccupata. Per di più, Di Meo si trova anche a fronteggiare un forte un debito con Equitalia dovuto proprio al fatto di non aver avuto la possibilità di far fronte a tutte le scadenze economiche perché per anni non ha potuto svolgere pienamente la propria attività.
 Augusto, intanto, continua a raccontare come sono andati i fatti quella mattina del 19 marzo del 1994. Lo fa con  centinaia di ragazzi che passano nelle “terre di don Diana”, per i campi di lavoro promossi da Libera. Per questa sua attività , il 30 novembre del 2012 gli è stato assegnato il “premio Nazionale don Giuseppe Diana”, insieme al procuratore della DDA, Federico Cafiero De Raho e al padre comboniano, Giuseppe Zanotelli.
 
Il suo legale, l’avvocato Alessandro Marrese, per ottenere il riconoscimento da parte dello Stato quale testimone di Giustizia, ha scritto una prima lettera  alla Commissione Centrale che definisce e applica le misure di protezione presso il Ministero dell’Interno,  il 6 febbraio del 2012. Ma non ha ottenuto risposta. Ho sollecitato   tre mesi dopo un nuovo intervento, ma niente. E così il 16 gennaio 2013 ha presentato un atto di citazione al tribunale di Napoli contro il Ministero dell’Interno per un giudizio che è cominciato il 13 maggio, perché Di Meo e la sua famiglia non possono essere abbandonati così.
“Il Ministero dell’Interno si è opposto con motivazioni che se conosciute pubblicamente – spiega l’avvocato Marrese -  sicuramente non invoglierebbero altre persone a testimoniare contro la criminalità organizzata”.
 
La prossima udienza del giudizio contro il Ministero dell’Interno è stata fissata per il mese di dicembre 2013.
“Non mi fermo – dice Augusto con un volto che diventa rosso dalla rabbia – aspetto giustizia. Ho ancora fiducia nello Stato anche perché so che don Diana da lassù non mi abbandonerà”.

LIBERO DI NOME E DI FATTO


L'imprenditore palermitano Libero Grassi
29 Agosto 1991, un killer aspetta sotto casa un imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo. Il killer è Salvatore Madonia. L’imprenditore è Libero Grassi, non un eroe, ma un uomo qualunque, un uomo Libero di nome e di fatto. Anzi, la libertà l'aveva nel dna Libero Grassi. La portava con sé ogni giorno, scolpita in quel nome che i genitori, convinti antifascisti, gli avevano dato in ricordo del sacrificio di Giacomo Matteotti. Libero Grassi, l'imprenditore tessile che disse di no al pizzo, che non si piegò all'imposizione mafiosa, perché, spiegò a Michele Santoro durante una puntata di Samarcanda dell'aprile del 1991, «non mi piace pagare. È una rinuncia alla mia dignità d'imprenditore». La sua impresa, la Sigma, era sana, produceva biancheria intima ed aveva un bilancio in attivo. «La prima volta mi chiesero i soldi per i 'poveri amici carcerati’, i 'picciotti chiusi all'Ucciardone’ - scrive Grassi in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera -. Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: 'Attento al magazzino’, 'Guardati tuo figliò, 'Attento a tè. Il mio interlocutore - racconta - si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli». Libero Grassi denuncia agli investigatori e pubblicamente. Chiede l'aiuto degli altri industriali, cerca solidarietà, sostegno, ma trova silenzio ed indifferenza. Di più ostilità. La mafia non esiste, gli imprenditori siciliani non pagano il pizzo, dice il presidente di Confindustria. Ma lui, quell'uomo austero, convinto sostenitore della libertà d'impresa non ci sta. Non si piega, non accetta, non ammicca.

E la sua ribellione la grida. Forte e chiara perché possa varcare i confini di Palermo e della Sicilia. Prende carta e penna e il 10 gennaio del 1991 scrive al Giornale di Sicilia. È una lettera indirizzata al suo «Caro estortore». «Volevo avvertire il nostro ignoto estortore - dice Libero Grassi - di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al 'Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui». Poche semplici parole, che hanno l'effetto, però, di una deflagrazione. Troppo per Cosa nostra. Un affronto da punire con la morte, perché non sia di esempio ad altri, perché la ribellione non diventi contagiosa. Il 29 agosto del 1991 Salvatore Madonia lo attende sotto casa, in via Alfieri, e lo uccide sparandogli alle spalle. Per quell'omicidio molti anni dopo fu condannato all'ergastolo e, come lui, altri boss del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ad uccidere materialmente Libero Grassi è stata la violenza del piombo mafioso, ma le colpe, le responsabilità di quella tragica morte vanno ricercate altrove: nel silenzio, nell'indifferenza di una città troppo compiacente, abituata a convivere con la prepotenza mafiosa. Una città fragile squassata dall'esempio eversivo della dignità e del rispetto delle regole. Ci sono voluti 13 anni perché Palermo si risvegliasse, perché nascesse il primo comitato antiracket, AddioPizzo, e a distanza di tre anni 'LiberoFuturo’, la prima associazione di imprenditori e liberi professionisti che hanno detto no al pizzo.

mercoledì 24 luglio 2013

ALBERTO VARONE UCCISO A SESSA AURUNCA IL 24 LUGLIO 1991. A LUI E' INTITOLATO IL PRESIDIO DI LIBERA DELLA CITTA'

Il giardino della Memoria a Sessa Aurunca
Il brano è tratto dal mio libro "La bestia" editore Melampo


C’era un forte odore di finocchio selvatico quella notte. Ai bordi della strada statale ce n’era tantissimo. Erano in piena fioritura e le infiorescenze gialle non avevano ancora i frutti maturi. Un’auto, un’Opel K adett, era ferma con la parte anteriore sul lato sinistro della mezzeria della Statale Appia, in direzione di Capua, al chilometro 183+000, in località “Acqua Galena”, nel territorio del comune di Francolise, tra Teano e Sessa Aurunca. La sua corsa era finita proprio sopra un bel mucchio di finocchi selvatici. Ne crescono tanti da queste parti da maggio ad agosto. L’auto aveva la terza marcia inserita e il quadro acceso. Il freno a mano non era tirato. All’esterno, all’altezza della maniglia dello sportello di guida, un foro d’arma da fuoco e poi ancora altri fori nel poggiatesta e nel vano motore. All’interno il conducente era  ferito mortalmente. L’Opel Kadett la trovarono così alle 4,30 del mattino del  24 luglio 1991 i carabinieri della stazione di Sant’Andrea del Pizzone. Furono avvertiti da una telefonata anonima che segnalava la macchina crivellata di colpi. Il sangue schizzato dappertutto e un uomo accasciato sullo sterzo. Un corpo quasi privo di vita.  Era Alberto Varone, 49 anni, un piccolo imprenditore di Sessa Aurunca. Aveva un negozio di mobili e distribuiva giornali alle edicole dei comuni intorno a Sessa Aurunca, la sua città. Era molto conosciuto nella zona. A quell’ora era uscito proprio per andare a prendere i quotidiani al deposito di San Nicola La Strada, una cittadina alle porte di Caserta. Cinquanta chilometri  per andare e cinquanta per tornare, ogni santo giorno. Non esistevano festività, se non quelle legate al riposo dei giornalisti. Ossia la vigilia di Natale e Natale, Pasqua, il primo maggio e il 15 agosto. Partiva più o meno dal centro cittadino di Sessa Aurunca attorno alle 4,00, da un pendìo di tufo vulcanico a Sud-Ovest del vulcano spento di Roccamonfina, e faceva sempre la stessa strada: Verso Carinola, prendendo la statale appia, lambendo Francolise, Sparanise, Capua, Casagiove e prima di Caserta, arrivava a San Nicola La Strada. Paesi distanti tra loro, inframmezzati dalla campagna estesa per centinaia e centinaia di ettari  e per decine di chilometri. La vegetazione tipica delle colline, a volte rigogliosa e umida, a volte secca, su cui arriva la brezza del vicino mare della riviera domizia. Le canne, i fichi d’india, i pini. Man mano che si sale più in alto, l’ambiente cambia aspetto: i pioppi, gli ulivi, i castagni. La stessa vegetazione che migliaia di anni fa si trovarono a contrastare gli Aurunci, antico popolo di queste  terre, per trovare luoghi abitabili a ridosso del fiume Garigliano. Qui in epoca preromana costruirono le  mura ciclopiche, che racchiudevano l’originario nucleo abitato di Sessa Aurunca dove si coniava moneta prima della conquista della città da parte dei Romani nel IV secolo avanti Cristo. Un territorio incontaminato se non fosse per la centrale nucleare, ora chiusa, sorta in un'ansa del Garigliano, agli inizi degli anno ’60. La centrale venne fermata  nel 1978 per un guasto tecnico a un generatore di vapore secondario, ma i danni all’ambiente sono stati evidenti negli anni.

La strada, Alberto Varone, la conosceva a menadito. Oramai di quei chilometri, che percorreva ogni mattina, col vento, con la pioggia, con la neve o col sole,  si può dire che ricordasse tutto: il guardrail rotto, la buca quasi mai riparata appena usciva dal centro abitato, la pianta di fico a pochi chilometri da Francolise, le aziende agricole prima di arrivare a Capua. Tutti elementi di riferimento che legava all’orario. Ogni mattina ad un’ora precisa  doveva trovarsi ad un certo punto della strada. Era tutto cronometrato. Il tempo era tiranno, perché alcune edicole aprivano alle 7,00 e per quell’ora doveva essere già di ritorno coi giornali da consegnare. Un lavoro fatto di tempestività, meticolosità, professionalità. Ad ogni edicola il suo pacco. In ogni pacco c’erano i quotidiani, i settimanali, i rotocalchi mensili. Un lavoro che Alberto Varone svolgeva da anni e senza mai avere grandi problemi. Cento  chilometri alle prime luci dell’alba si fanno in fretta, se non fosse che ogni tanto, nel tratto da Sessa Aurunca a Francolise, ci sono una serie di curve e tornanti che impediscono una guida molto veloce. Soprattutto se davanti si mette un camion di quelli che portano la merce che di mattina deve arrivare sul litorale domizio o nelle città del basso Lazio, Minturno, Scauri, Formia, Gaeta, subito dopo il fiume Garigliano. Sessa Aurunca è in una posizione strategica. E’ collocata al confine Nord-Ovest della Campania e della Provincia di Caserta. E’ divisa dalla Provincia di Latina proprio dal fiume Garigliano. Lo sapevano bene i Romani che nel 313 dopo Cristo, una volta sconfitti gli Aurunci, fecero di Sessa Aurunca una loro colonia. E per la sua posizione strategica tra la Via Appia e la Via Latina diventò un centro di produzione.

 
Il presidio di Libera "A. Varone" a Maiano di Sessa Aurunca
Gli assassini lo aspettavano già da qualche ora. Per loro quella notte era passata insonne. Sapevano che sarebbe passato di lì, a bordo della sua autovettura furgonata. Sapevano che il suo era un percorso obbligato. Lo avevano seguito e avevano verificato l’ora e il punto giusto dove tendergli l’agguato. Potevano anche decidere di ucciderlo quando sarebbe andato a consegnare i giornali in una delle 26 frazioni  del territorio di Sessa Aurunca. Un territorio grande ed esteso per 163 chilometri quadrati. In pratica il primo Comune della provincia di Caserta per estensione territoriale. Ma avrebbero dovuto organizzare l’agguato non più nel cuore della notte. E questo sarebbe stato più pericoloso. Potevano esserci testimoni ingombranti. Decisero allora di eliminarlo a notte fonda. Lo avrebbero fatto a pochi chilometri fuori da Sessa Aurunca. Lo avrebbero ucciso e lasciato li. Nella macchina che lo stava attendendo c’erano almeno due persone: uno che doveva  materialmente sparare. Sicuramente un esperto di armi per colpire l’obiettivo in movimento, e l’autista. C’erano anche altri complici per l’appoggio logistico. Dovevano far sparire le armi e bruciare l’auto impiegata per l’omicidio.

Quando i carabinieri di Sant’Andrea del Pizzone trovarono l’auto con il corpo di Alberto Varone, si resero subito conto che era in fin di vita. Fu una corsa disperata verso l’Ospedale civile di Capua, il “Palasciano”. Ma quel nosocomio non era attrezzato per salvare la vita di Alberto. Alle 12,40, fu trasferito all’ospedale “Nuovo Pellegrini” di Napoli. Ma, ugualmente, non ci fu niente da fare. Nel primo pomeriggio, alle 16.35, Alberto Varone lasciava questo mondo. La missione di morte dei suoi assassini era compiuta. Dei suoi killer nessuna traccia.

venerdì 12 luglio 2013

INTITOLATA A DON PEPPE DIANA LA SALA CONSILIARE DI CASAL DI PRINCIPE


Iolanda di Tella la mamma di don Diana
“Si, ho piacere di questa manifestazione. Sono anche emozionata, ma vorrei che a mio figlio non fosse intitolato niente, perché vorrei averlo ancora qui con me”. Iolanda Di Tella la mamma di don Giuseppe Diana, ha le lacrime agli occhi. Nonostante i suoi acciacchi, è voluta essere presente alla cerimonia di intitolazione della sala consiliare del Comune di Casal di Principe che la commissione straordinaria, a cominciare dal Prefetto Silvana Riccio in testa, ha fortemente voluto. Iolanda è seduta in prima fila con a fianco i figli, Marisa ed Emilio.
La sala è piena. Lo spazio è poco per contenere tutti. Ci sono le autorità: il prefetto di Caserta, Carmela Pagano, il questore, Giuseppe Gualtieri, Il maggiore dei carabinieri, Alfonso Pannone, l’assessore regionale Daniela Nugnes, l’assessore alle politiche giovanili del Comune di Napoli, Alessandra Clemente, il magistrato Raffaello Magi, tantissime altre autorità, esponenti delle associazioni Libera, Comitato don Peppe Diana, il coordinamento per il riscatto. Imprenditori. Molti familiari delle vittime innocenti di camorra, i sacerdoti di Casal di Principe.
Il prefetto Silvana Riccio
E’ come se nessuno avesse voluto mancare a questo appuntamento che per la città è importante. Lo sottolinea innanzitutto il Commissario del Comune Silvana Riccio: “Abbiamo voluto questo momento mettendo semplicemente una targa, perché chiunque venga qui dopo di noi  dopo questa esperienza commissariale,  sappia che questa sala è intitolata a don Peppe Diana. Un sacerdote che ha detto che ognuno di noi si deve assumere la responsabilità di essere segno di contraddizione”.  
Don Tonino Palmese
“Ricordare don Peppino dando il suo nome a questa sala – ha detto Don Tonino Palmese, referente regionale di Libera -  Ci  ricorda due parole importanti: Memoria e impegno e pone  anche una responsabilità a tutti coloro che entreranno in questa sala come consiglieri comunali. Questo luogo non potrà essere più infangato dalla presenza  di criminali, ma dà anche un possibilità di conversione a tutti. Spinge ognuno di noi a fare la propria parte per poter cambiare il nostro presente, non solo per la nostra felicità, ma anche per la felicità degli altri”.
Il magistrato Donato Ceglie
“Don Peppino era un parroco che interpretava il messaggio di cristo ponendo prioritariamente nel suo impegno la mobilitazione della chiesa al centro della sua azione contro la camorra e contro le organizzazioni criminali – Il magistrato Donato Ceglie, amico di don Diana, ha voluto sottolineare l’aspetto religioso della figura del parroco ucciso dalla camorra -  Ed anche per questo, come è scritto a chiare lettere nelle pagine giudiziarie, che lui è stato ammazzato, perché simbolo di impegno per la legalità per la sua terra contro le organizzazioni criminali. Don Peppe un successo lo ha già conseguito – ha ribadito Ceglie -  queste che per decenni sono state terre di camorra, ora possiamo dire che sono le terre di don Peppe Diana”. 
Il vescovo di Aversa, Angelo Spinillo
“Don Diana era un sacerdote, ma era anche un cittadino – ha sottolineato il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo - I cristiani da sempre si sono posti il problema di essere cittadini e come vivere da cittadini animati dalla luce della fede. Ma posso dire a ragion veduta che non può esistere un buon cristiano che non sia un onesto cittadino. L’espressione “per amore del mio popolo non tacerò” – cita il documento scritto da don Diana -  “dice come il cristiano vive il suo ruolo di cittadino con l’atteggiamento del profeta, non per predire il futuro, ma con l’atteggiamento di chi in ogni situazione va a cercare le cause più profonde e nel fare questo, tende ad orientare il cammino di ciascuno verse una metà più grande. Don Diana è stato capace di tutto ciò.”
E’ stata poi la mamma di don Diana, Iolanda,  a scoprire la targa posta all’entrata della sala consiliare alla fine della cerimonia commemorativa. Una corona di fiori è stata infine deposta sulla tomba di don Diana alla presenza delle autorità e dei familiari di don Peppe. Dopo la cerimonia è stato presentato il libro “Mafie” presso l’Università per la legalità, alla presenza degli autori, il giornalista Giuseppe Crimaldi e il magistrato della DDA, Giovanni Conzo.