giovedì 26 luglio 2012

FAMIGLIA BORSELLINO A FIANCO DI SCARPINATO

 «Condivido ogni parola della lettera emozionante con la quale Roberto Scarpinato si è rivolto a Paolo. Non avrei mai immaginato che alcuni stralci di quella lettera inducessero un membro laico del Csm a chiedere l'apertura di un procedimento a carico del procuratore generale di Caltanissetta e fossero ritenute così gravi da giustificarne la richiesta di trasferimento per incompatibilità ambientale e funzionale». La famiglia Borsellino si schiera con Roberto Scarpinato, ed esprime «sdegno per la richiesta» di apertura di un procedimento disciplinare del Csm, su sollecitazione del membro laico Nicolò Zanon (Pdl), per il procuratore generale di Caltanissetta. Scarpinato durante le manifestazioni di ricordo della strage di via D'Amelio, in un 'lettera a Paolo Borsellinò, Scarpinato aveva, tra l'altro, detto: «Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra la negazione dei valori di giustizia e legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere». «Condivido - dice Agnese Piraino Leto vedova di Borsellino - ogni parola della lettera emozionante con la quale Roberto Scarpinato si è rivolto a Paolo. Non avrei mai immaginato che alcuni stralci di quella lettera inducessero un membro laico del Csm a chiedere l'apertura di un procedimento a carico del procuratore generale di Caltanissetta e fossero ritenute così gravi da giustificarne la richiesta di trasferimento per incompatibilità ambientale e funzionale».

 «Se vi è oggi un magistrato 'compatibilè con le funzioni attualmente svolte - aggiunge Agnese Borsellino - quello è il dottor Scarpinato, che non dimenticherò mai essere stato uno degli otto sostituti procuratori della direzione distrettuale antimafia di Palermo che all'indomani della morte del 'lorò procuratore aggiunto Paolo Borsellino rassegnò le dimissioni, poi fortunatamente rientrate, dopo avere avuto il coraggio e la forza di denunciare le divergenze e le spaccature di 'quellà Procura di Palermo che avevano di fatto isolato ed esposto più di quanto già non lo fosse mio marito». Rita e Salvatore Borsellino condividono l'intervento di Agnese Piraino Leto e aggiungono: «Esprimiamo a nostra volta il nostro sdegno per questa improvvida iniziativa di un membro del Csm a carico del procuratore Scarpinato, tanto più - sottolineano grave perchè prende a pretesto proprio quella lettera a Paolo che, letta in via d'Amelio il 19 luglio pochi minuti prima dell'ora della strage, ha riempito di emozione i cuori delle migliaia di persone giunte da ogni parte d'Italia a Palermo - chiosano Rita e Salvatore Borsellino - per onorare la memoria del magistrato Paolo Borsellino e dei cinque poliziotti che hanno perso la vita al suo fianco».


L' Associazione nazionale magistrati esprime «sorpresa e preoccupazione» nell'apprendere dalla stampa della richiesta, avanzata al Comitato di presidenza del Csm, di apertura di una pratica nei confronti del procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato, in relazione al discorso da lui tenuto in occasione del ventennale della strage di via d'Amelio. «Quel discorso, infatti, pronunciato in un contesto commemorativo fortemente emotivo, non può che essere inteso, come manifestazione di libero pensiero, quale giusto richiamo, senza riferimenti specifici, nel ricordo delle idee e delle stesse parole di Paolo Borsellino, alla coerenza dei comportamenti e al rifiuto di ogni compromesso, soprattutto da parte di chi ricopre cariche istituzionali», sostiene l'Anm.

mercoledì 25 luglio 2012

STRAGE DI BOLOGNA. TORNANO LE POLEMICHE, MA ANCORA SCONOSCIUTI I MANDANTI

Di nuovo polemiche per la strage di cui non si conoscono ancora i mandanti.  Mentre Bologna si prepara a commemorare la strage alla stazione che il 2 agosto 1980 fece 85 morti e 200 feriti, viene presentato il documentario 'Un solo errorè che sarà proiettato lunedì in piazza Maggiore. Contiene interviste del 2010,  al capo della loggia massonica "Propaganda 2", Licio Gelli (condannato per i depistaggi nell'inchiesta sulla strage) e il terrorista nero Valerio Fioravanti (condannato per essere stato riconosciuto come uno degli autori della strage).  Dalla villa "Wanda l'ex capo della P2,  solleva da ogni responsabilità Francesca Mambro e Giusva Fioravanti: «non ne hanno colpa perchè io credo sia stato un mozzicone di sigaretta che è stata lanciata, c'è stato un surriscaldamento ed è esploso, perchè la bomba, se c'era la bomba, ma qualche frammento si sarebbe trovato, no?».

Parlando della P2 Gelli spiega che «noi abbiamo facilitato lo Stato italiano per tanto tempo» e che «il potere nelle mani lo avevano avuto, era dovuto ai comportamenti amichevoli di quelli che avevano il potere». «Ci avevano riconosciuto e consentito di nominare il capo dei servizi segreti», prosegue. Più che dichiarazioni  sulla strage, quelli di Gelli, come sempre, sono messaggi inviati a chi ancora non è stato tirato in ballo in queste vicende.

  Ancora più forte l'ex Nar, Fioravanti, condannato all'ergastolo per la strage. L'intervista, ha spiegato il regista Matteo Pasi, è stata realizzata nella sede di Nessuno Tocchi Caino. Ma, a differenza di Gelli, nel filmato Fioravanti non compare mai nè in voce (una «scelta tecnica» per gli autori, dovuta alla cattiva qualità dell'audio), nè in video (in questo caso per una «scelta artistica»).

La trascrizione dell'intervista viene letta da un doppiatore; un disegno riproduce il volto di Fioravanti. Per buona parte del film manca un sottopancia che indichi allo spettatore chi sta parlando: per gli autori dell'associazione Pereira (che ha prodotto il filmato) si crea così l' «effetto suspence». «A noi è andata di lusso - sono le parole attribuite all'ex terrorista -. L'ho sempre detto e ringrazio i bolognesi perchè hanno esagerato talmente tanto che alla fine veniamo chiamati a rendere conto solo di una cosa che non abbiamo fatto e non di quelle che abbiamo commesso veramente, quindi veniamo perdonati per le cose che abbiamo fatto davvero perchè nessuno in fondo ci pensa e discutiamo invece all'infinito di un'altra cosa, è un paradosso». E ancora: «I servizi segreti deviati sono una bestemmia. I servizi segreti devono fare cose deviate, per fare le cose dritte ci stanno la polizia e i carabinieri».

E citando Cossiga: «la verità la saprà la figlia di tua figlia». Non solo: l'associazione dei familiari e delle vittime viene bollata come «politicizzata» e i suoi rappresentanti tacciati di far politica sul dolore. «Bolognesi (il presidente della associazione dei familiari, ndr) ha perso la suocera - è il senso della frase riportata nel documentario - e come dice un mio amico, la suocera non è una vera perdita». Lui, Bolognesi, alla presentazione, si è limitato a sottolineare per l'ennesima volta che «quella della esplosione fortuita è la pista seguita dalla commissione Mitrokhin. Ma la pista 'internazionale-casualè è quella appoggiata da Licio Gelli. Il fatto che Gelli ed altri (tra cui Cossiga e il terrorista internazionale Carlos, ndr) insistano sulla stessa cosa è un fatto da rilevare».

Ora si aspetta  il solito telegramma dei vertici istituzionali con il quale chiedono "che si faccia piena luce sulla strage". Ma  chi la deve fare questa luce?

martedì 24 luglio 2012

TRATTATIVA: PM PALERMO CHIEDONO PROCESSO PER 12 PERSONE

 (ANSA) - PALERMO, 24 LUG - Quando un mese fa si seppe che la sua firma non era accanto a quelle dei suoi pm nell'atto di chiusura dell'indagine sulla trattativa Stato-mafia, spiegò che la legge non lo obbligava a sottoscrivere il provvedimento conclusivo di un'inchiesta di cui non era titolare. Una argomentazione che aveva il gusto del cavillo giuridico, ma che non risolse il problema. Un problema che torna a porsi oggi che la Procura di Palermo ha chiesto il processo per i 12 indagati: ex ministri, mafiosi, ufficiali dell'Arma e Ciancimino jr. Sull'istanza, infatti, la firma del procuratore Francesco Messineo manca anche oggi. Anche se stavolta c'è il suo visto. «Una presa d'atto che non significa condivisione nè assunzione di responsabilità», commenta in Procura chi, già un mese fa, aveva criticato la presa di distanze di un magistrato ritenuto molto prudente e in attesa della pronuncia del Csm sulla sua nomina a Procuratore Generale di Palermo. La richiesta, comunque, è scesa all'ufficio del gip che ha cinque giorni per decidere la data dell'udienza preliminare, sede in cui gli imputati possono chiedere riti alternativi o sottoporsi alla pronuncia di proscioglimento o rinvio a giudizio. L'atto sarà notificato anche all'Avvocatura dello Stato perchè possa costituirsi in giudizio per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri indicata come parte lesa. «Preferisco farmi giudicare da un giudice terzo. Dimostrerò la mia estraneità ai fatti addebitatimi ritenuti falsa testimonianza, e la mia fedeltà allo Stato», ha commentato Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno coinvolto nell'inchiesta per le dichiarazioni rese durante il processo al generale Mario Mori, altro presunto protagonista della trattativa.

A rischiare il processo, dunque, sono in 12: oltre a Mancino, finito in una rovente polemica per le sue conversazioni, intercettate dalla Dia, con il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio, i vertici del Ros di quegli anni: il generale Mario Mori, l'ex comandante Antonio Subranni e l'ex capitano Giuseppe De Donno che nel '92 avrebbero avviato il dialogo con Cosa nostra tramite Vito Ciancimino. E ancora i capimafia Bernardo Provenzano, Totò Riina, Luca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà e Massimo Ciancimino, figlio di don Vito. Nella lista anche l'ex ministro dc Calogero Mannino e il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri. L'uno, accusato di avere dato input alla trattativa perchè temeva di essere ucciso, l'altro perchè si sarebbe proposto come intermediario con i clan dopo l'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima. Le accuse per quelli che vengono ritenuti i principali protagonisti del patto, che parte delle istituzioni avrebbero stretto con Cosa nostra per fare cessare le stragi, sono diverse: minaccia a corpo politico dello Stato per i boss, i carabinieri, Dell'Utri e Mannino. Concorso in associazione mafiosa e calunnia all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro per Ciancimino jr e falsa testimonianza per Mancino. Le loro posizioni sono state stralciate da quella che in Procura chiamano 'indagine madrè, un altro fascicolo ancora aperto a carico di altri ufficiali dell'Arma ed esponenti dei Servizi Segreti, accusati di avere avuto un ruolo nella trattativa. Lo stesso fascicolo in cui si trovano le intercettazioni delle conversazioni tra Mancino e il capo dello Stato ritenute irrilevanti per l'indagine. I pm avevano intenzione di distruggerle dopo essere comparsi davanti al gip e le parti in un'udienza ad hoc. Ma l'idea dei pm per ora dovrà attendere. Il Capo dello Stato ha incaricato l'Avvocatura dello Stato di promuovere il conflitto di attribuzione tra poteri davanti alla Consulta, bacchettando la Procura per avere intercettato chi, come il presidente della Repubblica, non può essere ascoltato, se non nei casi previsti dalla Costituzione e solo dopo essere stato rimosso dalle Camere; e per non avere ancora distrutto le conversazioni indebitamente intercettate.

RITA ATRIA: NUOVA LAPIDE CON FOTO SULLA TOMBA

 Una lapide con il nome e la foto di Rita Atria - la giovane siciliana suicidatasi vent'anni fa a Roma, una settimana dopo la strage di via D'Amelio - sarà deposta nel pomeriggio di giovedì 26 luglio nella tomba del cimitero di Partanna, dove è sepolta, alla presenza del vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, e di don Luigi Ciotti, presidente di Libera. Oggi su quella tomba non c'è neppure impresso il suo nome: la lapide fu distrutta dalla mamma di Rita, Giovanna Cannova, e mai più ricollocata. Cognata di Piera Aiello (pure lei testimone di giustizia), Rita Atria, a 11 anni, perde il padre, Vito, ucciso durante una guerra di mafia. Cinque anni dopo uccidono anche suo fratello, Nicola (marito di Piera Aiello). Ed è in quell'occasione che le due cognate decidono di collaborare con la giustizia, raccontando i segreti carpiti tra le mura domestiche. Si affidano a Paolo Borsellino, che vedono come un «padre». «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita - scrive Rita nel suo diario -. Tutti hanno paura ma io l'unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta». (ANSA).

venerdì 20 luglio 2012

IN RICORDO DI ANGELO RICCARDO. QUANDO DON DIANA SCRIVEVA "BASTA CON LA DITTATURA ARMATA DELLA CAMORRA"

Me lo ricordo bene quel 21 luglio del 1991, quando fu ucciso “per caso” Angelo Riccardo. Quando per le strade di Casal di Principe e San Cipriano di Aversa si sparava senza guardare in faccia a nessuno e senza andare tanto per il sottile.  Fu quella morte a scatenare la reazione di un piccolo gruppo di “resistenti” e ad osare, per la prima volta, di contrastare apertamente e pubblicamente la camorra del Clan dei Casalesi. Non fu facile.

Mi telefonò Nicola, un amico di San Cipriano di Aversa: “Hanno ucciso un’altra persona. Ma stavolta la vittima non c’entra nulla. Ci dobbiamo vedere. La gente non ne può più. Anche don Peppe Diana è d’accordo”.   


Era in atto la guerra di camorra per il primato all’interno del clan dei casalesi dopo che Mario Iovine aveva fatto fuori Antonio Bardellino, in Brasile. Da una parte il gruppo Schiavone – Bidognetti, dall’altro il gruppo Caterino-De Falco. A Casal di Principe e San Cipriano di Aversa si sparava e si moriva quasi ogni giorno. Tanti ragazzi uccisi da altri ragazzi. Ogni giorno c’era la caccia all’uomo. E quel giorno il 21 luglio del 1991, Angelo Riccardo venne ucciso senza un perché. Ecco lo scarno comunicato dell’ANSA: “Un giovane di 21 anni, Angelo Riccardo, è stato colpito mortalmente questo pomeriggio a San Cipriano di Aversa (Caserta) da tre proiettili sparati da tre killer che hanno aperto il fuoco nella centrale via Roma nel tentativo di colpire il conducente di un’altra auto riuscita a sfuggire all'agguato.  La vittima insieme a quattro amici (Massimiliano e Bruno Cirillo, quest'ultimo rimasto ferito di striscio al capo, Ciro Tettone e Giovanni Alfiero) stava recandosi ad una funzione religiosa di Testimoni di Geova quando è rimasto coinvolto nella sparatoria. La ''Renault 9'' condotta dal Riccardo è stata raggiunta da decine di colpi d'arma da fuoco che erano invece diretti ad un' altra auto che proprio in quel momento stava effettuando un sorpasso. I proiettili vaganti hanno ferito altri due automobilisti di passaggio, Antonio Quadrano di 21 anni che era alla guida di una Opel e Pasquale Corvino di 21 anni, quest'ultimo con precedenti penali per renitenza alla leva, che era fermo in una Fiat Uno a circa duecento metri dal luogo della sparatoria. I carabinieri di Aversa stanno indagando per scoprire quale fosse il vero obiettivo dell' agguato. A tal fine stanno controllando negli ospedali e nelle case di cura private della zona la eventuale presenza di pregiudicati rimasti feriti nelle ultime ore”.



Più tardi la precisazione l’ANSA dava per  certo che la vittima dell’agguato doveva essere un’altra persona: “Angelo Riccardo é stato colpito per errore nel corso dell'agguato di San Cipriano di Aversa. Lo hanno appurato i carabinieri i quali hanno reso noto che obiettivo dell'agguato era invece un'altra auto con a bordo tre o quattro persone che è riuscita con ogni probabilità a sottrarsi alle decine di proiettili sparati dai tre killer.  Angelo Riccardo, incensurato, testimone di Geova stava recandosi  insieme con altri quattro seguaci della stessa comunità (i fratelli  Bruno e Massimiliano Cirillo, di 23 e 21 anni, Ciro Tettone di  24 e Giovanni Alfiero di 26, questi ultimi tre rimasti illesi)  ad una funzione religiosa quando sono rimasti coinvolti nella  sparatoria avvenuta in via Roma…”

 “Ho preparato un volantino – mi dice don Peppe Diana al telefono il giorno dopo – te lo leggo. Se sei d’accordo lo firmiamo  e domenica lo diamo fuori le chiese di San Cipriano e Casal di Principe”. Il titolo era forte e significativo: “Basta con la dittatura armata della camorra”. Il Volantino fece il giro di tutte le case del circondario. Venne inviato alle più alte cariche dello Stato ed al Vescovo di Aversa. Ci fu un forte consenso.

Il Prefetto di Caserta, Corrado Catenacci, portò personalmente ai parroci di Casal di Principe un messaggio di solidarietà del Ministro dell'Interno, Vincenzo Scotti. E il 29 settembre del 1991, furono sciolti “perché condizionati dalla camorra” i consigli comunali di Casal di Principe e Casapesenna.

La causa scatenante della  lunga guerra di camorra, fu l’interruzione di un summit dei vertici del clan dei casalesi da  parte dei carabinieri. Era il giorno di Santa Lucia, il  13 dicembre del 1990. A quella riunione, che si svolgeva nella casa di un assessore del Comune di Casal di Principe, Gaetano Corvino, mancava uno dei pezzi da novanta del clan, Vincenzo De Falco. I sospetti di una soffiata caddero subito su di lui. Vi fu un conflitto a fuoco e furono catturati Francesco Schiavone (Sandokan), Raffaele Diana, Francesco Schiavone di Luigi, Giuseppe Russo, Salvatore Cantiello e Francesco Bidognetti. Le armi da fuoco furono utilizzate per  consentire la fuga di  Mario Iovine, uno dei capi storici del clan dei casalesi. Mentre accadeva tutto questo, l’assessore Corvino era in Municipio per una seduta di Giunta.

Per Vincenzo De Falco fu emessa una sentenza di morte da parte dei boss della camorra casalese. La sentenza fu eseguita a Casal di Principe  il 2 febbraio del 1991. Ma quasi un mese dopo, il 6 marzo,  Mario Iovine fu ucciso in Portogallo a Cascais.  Ad ordinarne l’uccisione fu Nunzio De Falco, per vendicare la morte del fratello Vincenzo.

E in piena guerra tra i clan di Schiavone-Bidognetti contro i Caterino-De Falco, ad ottobre del 1991 un corteo di auto  sfilò per le strade del paese. L’insolita folla di persone si mosse lentamente per le strade di San Cipriano, Casapesenna e Casal di Principe. Budelli stretti dove è già difficile passare quando si incrociano due auto. A fianco e dietro le macchine c’erano uomini armati di tutto punto. Alcuni erano seduti sui cofani delle auto.  Erano circa le 18,00.  I negozi, i bar, i circoli e tutti i locali pubblici abbassavano le saracinesche. La gente scappava. Le tapparelle delle finestre affacciate sulla via, si chiudevano. Le strade erano ben presto deserte. C'era il coprifuoco. Sembrava di stare nel far west. Come quando arrivavano all’improvviso i banditi sui cavalli per scorazzare nei saloon, indisturbati, per rapinare banche o ammazzare persone. Qui al posto dei cavalli c’erano le auto. Ma il clima era lo stesso. Paesi interi erano nelle mani del clan dei casalesi. La violenza, la prepotenza avanzava indisturbata. Nemmeno un poliziotto, né un carabiniere passò in quel momento, né intervenne dopo. Come quando lo sceriffo nel far west si nascondeva. Fu una dimostrazione di forza che il clan Schiavone-Bidognetti diede davanti a tutti i cittadini. Il controllo del territorio, se ancora ce ne fosse stato bisogno dimostrarlo, era pienamente nelle mani della camorra. Il corteo passò sotto le case degli esponenti del clan  perdente Li provocavano, li invitavano ad uscire di casa per ammazzarli. Il tutto durò all’incirca un'ora. Per due giorni di seguito alla stessa ora ci fu il coprifuoco senza che nessuno lo avesse proclamato.  Per le strade non si trovava anima viva. La Chiesa, ancora una volta, scelse di non stare in silenzio.

A Natale del 1991 i parroci della Foranìa di Casal di Principe (di cui fanno parte le parrocchie dei comuni di Casal di Principe, San Cipriano di Aversa, Casapesenna, Villa Literno, Frignano, Villa di Briano e San Marcellino)  stilarono un documento con il quale  invitavano il popolo a ribellarsi. Il titolo, che riprendeva un documento dei vescovi meridionali di alcuni anni prima, era simbolicamente forte: "Per amore del mio popolo". Cominciava con queste parole:


Siamo preoccupati

 Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.

Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione.

Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che é la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

 Esprimeva un giudizio di condanna senza appello per la camorra e i suoi affiliati.

La Camorra


 La Camorra  oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.

I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.



Individuava nella politica le responsabilità di una corruzione  e di una inefficienza che devastava tutte le istituzioni democratiche.


Precise responsabilità politiche


E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.

La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi  per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.

Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di  esempi, per essere credibili (…)

 E concludeva con un appello alla mobilitazione per ridare speranza  ai cittadini:

NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO

 Appello

Le nostre  “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa;

Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace... abbiamo dimenticato il benessere... La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,... dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare... sono come essenzio e veleno”.


 Per la prima volta la Chiesa parlava un linguaggio chiaro, netto, immediato, capace di arrivare subito al cuore del problema. Il documento fu distribuito nelle chiese. Furono soprattutto i giovani dell'azione cattolica ad impegnarsi per la sua diffusione. Il consenso riscontrato tra cittadini di Casal di Principe e dei comuni limitrofi fu straordinario.  La voce della protesta varcò i confini dei paesi dov’era nata. Don Peppino Diana cominciò a girare per le scuole della provincia e della regione. Cominciò a portare la voce del suo popolo alle marce anticamorra. Diventò un simbolo riconosciuto da quanti volevano combattere la camorra.


Di Angelo Riccardo e dei suoi familiari si erano “perse le tracce”. Nel senso che anche lui, come tanti altri, era caduto nel dimenticatoio. E quando dopo tanti anni la famiglia è stata contattata dal “Comitato don Peppe Diana” per dare la giusta dignità anche a quella morte, la prima reazione, come avviene sempre in questi casi, è stata di  fastidio e di incredulità. Poi, anche la famiglia di Angelo ha deciso che è giusto fare memoria del proprio congiunto e di ricordarlo ai ragazzi delle scuole perché queste cose non accadano mai più.

SALVATORE, ROSARIO E ALBERTO. VITE SPEZZATE IL 20 LUGLIO DEL 1998


Alberto Vallefuoco - Rosario Flaminio e Salvatore De Falco
Salvatore De Falco, Rosario Flaminio  e Alberto Vallefuoco, sono felici. Sono tre ragazzi che ce l’hanno fatta. Tra poco saranno assunti nel pastificio Russo di Pomigliano, dove da alcuni giorni lavorano attraverso una “borsa lavoro”. Salvatore ha 21 anni, Rosario e Alberto 24. I tre hanno legato subito. Sono diventati amici. Sono sempre insieme in fabbrica e anche fuori. Hanno gli stessi ideali, gli stessi sogni, la passione per lo sport, per le ragazze. Così quando il 20 luglio del 1998 escono dal pastificio durante la pausa pranzo, vanno insieme in un bar proprio vicino al pastificio Russo. Un caffè, quattro battute con la giovane cassiera e poi il rientro in fabbrica. Ma proprio in quel momento giungono tre persone a bordo di una "Lancia Y" . Hanno in mano pistole e kalashnikov ed il volto coperto da cappucci. Sparano in direzione di Salvatore, Rosario e Alberto. Sono loro l’obiettivo di morte dei killer. Sparano decine di colpi. Li uccidono all'istante. Viene ferita anche la cassiera del bar. Attimi di terrore che creano scompiglio tra gli altri avventori del bar e i pochi passanti. In zona è in atto una guerra tra clan. Precisamente tra il clan “Cirella” e “Veneruso”.  I tre sono stati scambiati per emissari del clan “Veneruso”, alleato dei “Piccolo” di Marcianise venuti per chiedere il pizzo ai titolari del Pastificio Russo. Invece sono solo tre ragazzi che aspettavano di vivere la loro vita.  A rivelare i particolari di questa vicenda nel dicembre 2010, dodici anni dopo, è stato un collaboratore di giustizia. I tre ragazzi furono uccisi per rappresaglia dopo la strage del “giovedì Santo”, avvenuta a Marcianise  nell’aprile del 1998. Quella strage è l’antefatto che porta alla morte di Salvatore, Rosario e Alberto. I particolari di tutta la vicenda sono ricostruiti dall’Agenzia Ansa il 7 dicembre del 2010:



Un falso geometra e un falso ingegnere bussarono alla porta del boss Achille Piccolo, sperando di ingannarlo e di ucciderlo. Lui però aveva intuito il tranello e si fece trovare circondato da uomini armati. Ne scaturì una feroce sparatoria che si concluse con la morte di tre persone dell'uno e dell'altro gruppo: è quella che a Marcianise (Caserta) si ricorda come «la strage del giovedì santo». Dodici anni dopo, grazie ad alcuni collaboratori di giustizia, di quell'episodio si conoscono nel dettaglio dinamica, movente, mandanti ed esecutori. Quattro le ordinanze di custodia cautelare notificate oggi dai carabinieri di Napoli: destinatari sono Salvatore Belforte, Michele Cirella, Roberto Vicale ed Achille Piccolo. Tra i Belforte e i Piccolo, un tempo alleati tra loro sotto l'egida del boss Raffaele Cutolo, era in atto da tempo una faida cruenta. Nel conflitto a fuoco dell'aprile 1998 morirono Elpidio Gravante e Giuseppe De Crescenzo, legati al clan Piccolo; Achille Piccolo, benchè ferito, riuscì a sua volta ad uccidere Aniello Cirella, alleato dei Belforte. Di lì a pochi mesi la strage di Marcianise ebbe un tragico corollario: il padre di Aniello Cirella chiese al boss Salvatore Belforte di vendicare il figlio. Fu organizzata una spedizione punitiva a Pomigliano d'Arco, davanti al pastificio Russo. Qui, secondo le informazioni raccolte, dovevano giungere, per chiedere una tangente ai proprietari dell'azienda, tre taglieggiatori di un gruppo alleato dei Piccolo. Per un tragico errore, invece, gli uomini inviati dal boss Salvatore Belforte (paragonato dal gip al re Erode, che ordinò una strage di bambini per uccidere Gesù ed eliminare un potenziale rivale) scambiarono per taglieggiatori tre operai del pastificio che stavano prendendo un caffè a uno chalet vicino. Così il pentito Giovanni Messina racconta la strage di Marcianise: «Io ed il Cirella ci accordammo che sarebbe sceso prima lui ed entrato nel portone del Piccolo per verificare l'eventuale presenza di persone armate e, in caso di necessità, avrebbe usato una frase convenzionale per consentirmi di intervenire già armato e cominciare a sparare. La frase era: 'ingegnere, potete entrare. Fu così che quando giungemmo nuovamente al portone di ingresso dell'abitazione del Piccolo, io attesi vicino alla macchina, mentre il Cirella citofonò e si fece aprire. Quando venne aperto il portoncino d'ingresso, il Cirella, dopo aver fatto un passo avanti, si girò verso di me e mi invitò ad avvicinarsi con la frase convenzionale. Intuii immediatamente che si trattava di una situazione di pericolo per cui mi avvicinai impugnando la pistola semiautomatica già pronta all'uso. Appena fui alle spalle del Cirella, che era appena entrato nel portoncino, udii alcuni colpi di arma da fuoco e vidi il Cirella cadere davanti a me. Di fronte intravidi una persona con una pistola semiautomatica, contro cui feci immediatamente fuoco, vedendola cadere all'istante. Con la coda dell'occhio mi accorsi che sulla mia sinistra, appoggiato all'interno del portone, vi era una persona armata, contro cui girai l'arma che impugnavo con la destra e feci fuoco a ripetizione, scaricandole addosso tutto il caricatore. Contemporaneamente estrassi dalla cintola il revolver e con la sinistra esplosi altri tre o quattro colpi all'indirizzo della persona che era di fronte a me e che già era a terra. Sono certo di aver ucciso entrambi. Il tutto ebbe luogo in pochissimi secondi».  



«Sembra che l'inferno si sia trasferito sulla terra, con il Maligno che spinge gli uomini a compiere azioni terrificanti»: così una delle più alte cariche ecclesiastiche della provincia di Caserta cominciò l'omelia tenuta in occasione della celebrazione eucaristica della Pasqua del 1998, avvenuta tre giorni dopo la strage di Marcianise. La citazione è agli atti dell'inchiesta che ha portato questa mattina alla notifica di quattro ordinanze di custodia cautelare. Anche in altre occasioni i Belforte avevano scelto giorni festivi per commettere omicidi: oltre al Natale del 1997, in cui vennero assassinati due uomini vicini ai Piccolo, era accaduto per esempio l'11 novembre del 1986, quando, nella stessa abitazione teatro del massacro del giovedì santo, c'era stata un'altra feroce sparatoria in cui era caduto, tra gli altri, il boss Antimo Piccolo, padre di Achille, arrestato questa mattina; quell'episodio è tuttora ricordato in zona come «la strage di San Martino».



«Il boss Salvatore Belforte, destinatario di una ordinanza di custodia per un triplice omicidio avvenuto 12 anni fa, è paragonato dal gip al re Erode: «Una vicenda - scrive il giudice riferendosi alla strage del giovedì santo - animata da autentica sete di sterminio, riassumibile nelle rivelate intenzioni di Salvatore Belforte, moderno Erode, il quale vagheggia l'annientamento fisico di tutti i discendenti maschi del gruppo rivale, a prescindere dalla loro età. Eliminato in un'azione analoga, oltre dieci anni prima, il capoclan Antimo, tutti i Piccolo, anche i giovanissimi, devono ora morire, affinché di loro non resti neppure il ricordo e la genia si estingua definitivamente, soffocata nel sangue». Il gip si riferisce alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. Spiegando le perplessità nell'attuare il piano per colpire i Piccolo (i killer dovevano spacciarsi per geometri e ingegneri di un cantiere che volevano concordare il pagamento di una tangente) il pentito Giovanni Messina, che partecipò alla strage e uccise sia Elpidio Gravante sia Giuseppe de Crescenzo, racconta infatti: «Gli raccontammo (a Belforte, ndr) anche di quei passaggi di quelle persone sui ciclomotori ed in particolare di quel ragazzino biondo, che mi aveva colpito in maniera particolare. Il Belforte mi disse che quello era il fratello minore di Piccolo Achille, e mi aggiunse di ucciderlo qualora se ne fosse ripresentata l'occasione. Ricordo ancora che mi disse che era sua intenzione estirpare alla radice tutta la famiglia Piccolo, a prescindere dall'età dei suoi componenti». Belforte, è scritto ancora nell'ordinanza, «si vanterà coi suoi accoliti di aver rovinato anche la Pasqua ai Piccolo, dopo avergli rovinato il Natale (nelle precedenti festività natalizie lo scontro aveva lasciato sul terreno due cadaveri, inducendo le autorità a disporre un inutile coprifuoco».



Bruno Vallefuoco, il papà di Alberto, in un’intervista a Road TV: “Alberto era un ragazzo come tanti. Aveva 24 anni  e i suoi  sogni erano quelli dei ragazzi della sua età. Aveva già dovuto misurarsi con la realtà, quindi i suoi sogni erano qualcosa di più concreto. Sognava un lavoro. Perché dalle nostre parti anche il lavoro è un sogno. Sognava di farsi una famiglia. Ed è stato ucciso  mentre cercava di concretizzare qualche suo sogno. E’ stato ucciso insieme a due suoi coetanei, Rosario e Salvatore, mentre frequentava una borsa lavoro. Erano già sicuri che alla scadenza sarebbero stati assunti da questa azienda di Pomigliano. Loro non sapevano, però che questa  azienda pagava il pizzo al clan Cirella ex clan Egizio e che  nel luglio del 1998 un altro clan stava cercando di farsi spazio sul territorio. I titolari del pastificio anziché comportarsi come esemplari cittadini e denunciare tutto alla polizia, preferirono stare zitti, contribuendo ad alimentare voci diffamanti sui tre ragazzi.  Il 20 luglio del 1998, questi tre ragazzi vengono trucidati perché qualcuno è stato troppo vigliacco per rivolgersi alla polizia. E sono stati ancora trucidati nel corso delle indagini. I titolari del pastificio Russo non hanno fatto niente per aiutare le forze dell’ordine nelle indagini e nemmeno quando i giornali prezzolati dalla camorra hanno continuato a massacrare Salvatore, Rosario e Alberto. Quando hanno tentato di far credere a tutti che in fondo se la sono meritata. Non hanno mosso un dito quando sui giornali si scriveva che i tre sono stati puniti perché: “Hanno violentato una ragazza; Hanno spacciato droga per clan rivali, o uno di loro era l’amante della moglie di uno che stava in galera”. Il pastificio sapendo quello che veramente era successo ha lasciato fare. Ha continuato a negare e a non dire la verità. Vigliacchi”.



mercoledì 18 luglio 2012

PALERMO: SFILANO AGENDE ROSSE. CORI CONTRO NAPOLITANO

 PALERMO - (ANSA) Sono arrivati da tutta Italia per ricordare Paolo Borsellino, il giudice ucciso dalla mafia il 19 luglio del 1992. E, come ogni anno, a simbolo della loro battaglia per la ricerca della verità sulla strage di via D'Amelio, hanno scelto l'agenda rossa, con il diario del magistrato, scomparsa misteriosamente subito dopo l'attentato. Con il presidio delle Agende rosse - che nel corso di un corteo hanno contestato il presidente Napolitano manifestando solidarietà ai Pm di Palermo che indagano sulla trattativa - hanno preso il via oggi a Palermo le iniziative per ricordare, nel ventennale, l'eccidio di via D'Amelio. «Quando ci sono state le stragi del '92 - racconta Marco, milanese - avevo 18 anni. Mi è sembrato giusto mostrare una reazione civile. Purtroppo il lavoro dei pm è molto difficile perchè hanno a che fare anche con tanti condizionamenti». Al giudice ucciso il Comune intitolerà l'atrio della biblioteca di Palermo, mentre a tutti quelli nati il 19 luglio del 1992 a Palermo l'amministrazione ha regalato dei block notes con l'elenco di tutte le vittime della mafia dal 1893 a oggi. Sempre per ricordare l'eccidio in cui morirono anche gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, le agende rosse hanno «scalato» il monte Pellegrino per raggiungere il castello Utveggio, luogo da cui si pensava fino a qualche tempo fa fosse partito il segnale per azionare la bomba. «Il castello Utveggio - ha spiegato Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e ideatore del movimento delle agende rosse - è un simbolo visto che sicuramente lì c'era un centro del Sisde. Da lì qualcuno avrà visto la colonna di fumo il 19 luglio 1992 e avrà comunicato a chi di dovere che l'attentato era andato a buon fine». Per le vie della città, intanto, si snodava il lungo cordone degli scout, organizzato dall'Agesci, dalla Magione a piazza San Domenico, dove il figlio di Borsellino, Manfredi, che oggi fa il commissario di polizia, non è riuscito a trattenere le lacrime mentre leggeva il discorso pronunciato vent'anni fa dal padre in quella stessa basilica per ricordare Giovanni Falcone.

L'ultimo appuntamento della giornata alla facoltà di Giurisprudenza per il convegno, organizzato da Antimafia Duemila, sul tema «Trattative e depistaggi: quale stato vuole la verità sulle stragi?» con gli interventi - tra gli altri - di Salvatore Borsellino, Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Domenico Gozzo. Le iniziative culmineranno domani, anniversario della strage, in via D'Amelio dove un albero d'ulivo raccoglie i messaggi e le testimonianze di solidarietà portate negli anni. Quell'albero e quel luogo, però, secondo la famiglia Borsellino non devono «essere meta di rappresentanti delle istituzioni venuti a portare corone di fiori. Vogliamo che ci siano persone che scelgono di fare memoria». Polemiche che non sono passate inosservate, tanto che Gianfranco Fini, presidente della Camera, farà visita solo in forma privata. Il presidio in via D'Amelio avrà inizio alle 8 dando spazio alle iniziative della società civile e soprattutto ai bambini per i quali sono previsti, dalle 9.30 alle 13, animazione ludica e didattica e percorsi di «Legalità». La giunta distrettuale dell'Anm di Palermo commemorerà il giudice con un convegno alle 11 nell'aula magna del palazzo di giustizia con un incontro aperto dal titolo: «Paolo Borsellino. Venti anni dopo» a cui parteciperanno anche il segretario nazionale del Pdl Angelino Alfano e il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Alle 16.58 ci sarà il minuto di silenzio e Marilena Monti, cantautrice e scrittrice, reciterà «Giudice Paolo». Alle 17.15 sono previsti gli interventi dei familiari di Paolo Borsellino e della scorta. In via D'Amelio arriverà in serata anche la fiaccolata organizzata da Giovane Italia che partirà alle 20 da piazza Vittorio Veneto. Parteciperanno, tra gli altri il segretario del Pdl Angelino Alfano, il coordinatore nazionale Ignazio La Russa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il vice presidente del Parlamento Europeo Roberta Angelilli e l'ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni.(ANSA).

domenica 15 luglio 2012

ANTONIO AMMATURO E PASQUALE PAOLA UCCISI DALLE BR PER CONTO DELLA CAMORRA?

La morte di Antonio Ammaturo e del suo autista, Pasquale Paola, è ancora avvolta da troppi misteri. Si dice che fu un "favore" delle Br al boss Raffaele Cutolo. Ammaturo aveva scoperto molte cose della trattativa tra lo Stato e le Br,  per la liberazione dell'assessore regionale della Dc, Ciro Cirillo, avvenuto il 27 aprile del 1981. Trattativa fatta per il tramite della camorra,.Misteri che sono rimasti ancora tali.

Questo racconto che segue è tratto dal mio libro "al di là della notte" edizione Tullio Pironti

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Antonio Ammaturo
Suona il citofono. «Capo, sono io. L’aspetto giù». «Va bene. Scendo in un attimo, aspettami in auto». Pasquale Paola, l’agente di polizia scelto, quel giorno fa lui da autista al capo della squadra mobile, Antonio Ammaturo. Si conoscono da tempo. È uno degli uomini più fidati del vicequestore. La moglie, Ermelinda Lombardi, sta preparando il caffè. Ma il marito preferisce scendere subito, per non far aspettare Pasquale. La macchina, un’Alfetta bianca, una di quelle auto civetta della polizia che si fanno notare in giro, esce dall’edificio dove abita il vicequestore, in piazza Nicola Amore, a Napoli, al centro della città. Sono le sedici e quarantacinque del 15 luglio 1982. L’anno e il mese in cui l’Italia vince i mondiali in Spagna. Tutti gli italiani parlano solo degli azzurri di Bearzot. Anche in piazza Nicola Amore c’è tanta gente per strada e al bar si accendono appassionate discussioni calcistiche.

È un pomeriggio afoso. Pasquale, invece, è intento nel suo lavoro. Ma non s’accorge che ad aspettare Antonio Ammaturo non è il solo. Fuori il palazzo ci sono altre persone. È un commando di brigatisti rossi. Sono in missione di morte. Due armati con pistole e mitragliette. Altri due in auto. Sono in una Fiat 128 verde chiaro, che aspetta con il motore acceso. La vittima designata è proprio Antonio Ammaturo. Pasquale Paola sarà la seconda vittima. Da tempo pedinavano il capo della mobile. In uno dei covi delle BR scoperti un paio di anni prima proprio a Napoli, era stata trovata una scheda sul poliziotto: «Un funzionario con grande esperienza di polizia giudiziaria», era scritto, «il quale, tra l’altro, in una sola notte riuscì ad arrestare sull’Aspromonte sei latitanti». Antonio Ammaturo e l’autista Pasquale Paola hanno solo il tempo di mettersi in macchina, uscire dal palazzo e fare pochi metri. La Fiat 128 gli sbarra la strada. I due brigatisti armati gli si parano davanti. Indossano tute da meccanici. Fanno fuoco a ripetizione. Dieci, venti, trenta colpi. La sparatoria continua. Altri colpi partono dalla mitraglietta e dalla pistola. Per i due poliziotti non c’è niente da fare. La morte è istantanea. Scene di panico. La gente che corre per scappare. Un vigile urbano che è nei paraggi si accorge della sparatoria e reagisce. Spara alcuni colpi di pistola contro l’auto che sgomma a tutta velocità. I brigatisti cercano la fuga risalendo per via Duomo. Poi imboccano via Tribunali. Si infilano nei vicoli di Napoli. Passano per San Gregorio Armeno dove incrociano una pattuglia di “falchi”. Ne nasce un conflitto a fuoco. L’auto è colpita. Forse anche qualche brigatista è stato colpito. Nella sparatoria vengono feriti lievemente anche due passanti. Sono Giuseppina Scarano, di quarant’anni e Luciano Manzo, di diciannove. Nei vicoli è difficile continuare a correre con l’auto. I vicoli di Napoli si stringono.

Le auto non riescono a passare. Troppi ostacoli. Fine della corsa. I terroristi scappano a piedi. C’è sangue nell’auto e per terra. Qualcuno di loro è ferito. Scatta una gigantesca caccia all’uomo, ma senza esito. I brigatisti spariscono. Inghiottiti nei vicoli. Saranno aiutati da alcuni appartenenti alla camorra. In piazza Nicola Amore, intanto, arrivano numerose pattuglie della polizia. Sono tutti sbigottiti e increduli. Ermelinda Lombardi, la moglie di Ammaturo, ha sentito tutto il trambusto e i colpi d’arma da fuoco. Ha come un presentimento. Apre la porta e corre di corsa per le scale. La blocca un inquilino e l’abbraccia. A quel punto capisce che l’obiettivo dell’agguato è il marito. Scoppia a piangere. Vuole scendere per forza. Per vedere per l’ultima volta il suo Antonio.

«Quel giorno in cui fu ucciso mio padre, me lo ricordo come se fosse ieri», racconta Gilda, la figlia di Antonio Ammaturo. «Ero sul letto quando citofonò Pasquale Paola. Le sue ultime parole che sentii mentre scendeva dalle scale furono: “Ho fatto tardi”, e non prese nemmeno il caffè che mamma aveva preparato. Faceva un gran caldo e benché sapessi che non gli faceva piacere che ci si sedesse sopra il suo letto, io mi distesi lo stesso sopra, vedendo che andava via, ma quella volta non mi disse niente. Papà prese la giacca, salutò la mamma e scese subito. Mia madre mi ha raccontato che prima di attraversare il portone per uscire si voltò, aveva la giacca del vestito sul braccio, e con l’altro la salutò mentre lei dal balcone lo guardava andare via… Fu l’ultima volta che lo vedemmo e ascoltammo i suoi passi per la casa. Le raffiche di mitra le sentii nitide. Poi un silenzio assordante. C’era l’Italia che giocava i mondiali di calcio. Pensai che i tifosi volessero festeggiare. Ma fu un attimo. Il silenzio non corrispondeva alla gioia per l’Italia. Il cuore mi si gelò dentro. Capii che era accaduto qualcosa a mio padre. Non volevo crederci. Poi mia madre di corsa per le scale. E scoppiai a piangere. Fino a poco tempo fa», dice ancora Gilda, oggi funzionaria della Prefettura di Avellino, «non avevo il coraggio di ritornare nella piazza dove fu ucciso papà. La sua morte è una ferita che ancora non si è chiusa. Mio padre era una persona molto riservata e schiva», dice Gilda con la voce rotta dall’emozione, «gran parte della sua giornata la passava per strada. “Ordine pubblico”, davanti ai suoi uomini, nei lunghi cortei tra le assordanti manifestazioni dei “disoccupati organizzati” per i quali aveva sempre una parola di speranza ed un aiuto. Oppure passava le giornate tra le tende dei terremotati a cui la camorra stava togliendo anche il respiro, per il giro degli affari sporchi e degli appalti del post terremoto che solo papà ebbe il coraggio di denunciare, senza paura. Qualche giorno prima dell’agguato mi disse: “State vicino alla mamma. Aiutatela”. Forse aveva presagito qualcosa. Non so spiegarmi quelle sue parole pronunciate con grande riserbo mentre eravamo da soli a casa e non c’era nessuno presente. Il tono con cui le disse manifestava una sua segreta preoccupazione che non voleva fosse percepita da noi familiari. Ci teneva sempre al di fuori dei suoi problemi di lavoro e con noi non ne parlava mai, così come fece cancellare le minacce scritte sul portone di casa già alcuni mesi prima dell’attentato per non metterci in apprensione. Malgrado le difficoltà e la lontananza, visto che ha sempre lavorato in posti molto disagiati, e noi ci siamo ricongiunti solo con il suo trasferimento a Napoli, non ci ha fatto mancare mai la sua affettuosa presenza, con grandi sacrifici, e ci ha regalato un’infanzia dorata e felice».


Pasquale Paola
Ammaturo non si occupava di politica. Si occupava solo di criminalità organizzata. Perciò la sua morte per mano delle Brigate Rosse è strana. Conosceva vita, morte e miracoli dei clan della camorra. Aveva contribuito a sgominare molti clan. Lo temevano, come lo temeva il boss di Ottaviano, Raffaele Cutolo, a cui aveva reso la vita difficile da quel 5 settembre 1981, giorno della sua nomina a capo della squadra mobile di Napoli. Pochi giorni dopo il suo insediamento fece irruzione nel castello di Ottaviano, roccaforte di Raffaele Cutolo, interrompendo un summit di camorra e arrestando tra gli altri il figlio del boss, Roberto. Ammaturo, in un’intervista al quotidiano «Paese Sera», aveva anche detto di Cutolo: «È completamente artefatto. Ogni parola che dice risuona subdola e carica di secondi fini. La sua fortuna è quella di aver trovato terreno fertile con i mali della città». Un affronto che Cutolo non riuscì a mandare giù. Il 27 aprile del 1981 c’era stato il rapimento dell’assessore regionale Dc, Ciro Cirillo. Cutolo aveva fatto da intermediario per farlo rilasciare. Alle BR erano state promesse armi e soldi.



A Cutolo condizioni di vita migliori nelle carceri e il trasferimento di numerosi camorristi. Antonio Ammaturo, che era un vero e proprio segugio e aveva le sue fonti confidenziali sparse per l’intera città, seppe che dietro la liberazione di Ciro Cirillo c’era stata una trattativa tra lo Stato e le BR che aveva avuto come intermediario Raffaele Cutolo. Al fratello Grazio, parlò di un dossier che aveva compilato e che gli aveva spedito. Un altro lo spedì al Ministero dell’Interno. «Sono cose grosse. Napoli tremerà», gli aveva confidato il giorno prima della sua morte.



Quei dossier non si sono mai trovati. E, forse, dietro la sua uccisione c’è anche questa sua attività di ricostruzione della “trattativa”. All’epoca si parlò molto di un «favore fatto» a Cutolo da parte delle BR. Ma questo non è stato mai dimostrato. L’uccisione di Antonio Ammaturo e Pasquale Paola verrà rivendicata dalle BR, partito della guerriglia. Antonio Ammaturo aveva cinquantasette anni quando fu ucciso. Era sposato con Ermelinda Lombardi, da cui aveva avuto tre figlie: Gilda, Maria Cristina e Grazia. Era nato a Contrada, in provincia di Avellino, l’11 gennaio 1925. Laureato in giurisprudenza, divenne funzionario di polizia nel 1955. Prestò servizio presso la Questura di Avellino. Gli anni che lo formano e gli faranno acquisire tanta esperienza sul campo saranno quelli alla guida del Commissariato di Giugliano. Otto anni in una terra dove il clan di Alfredo Maisto la faceva da padrone. Ammaturo raccontò che, poco dopo il suo arrivo a Giugliano, incontrò il boss in un motel. Alfredo Maisto si considerava un perseguitato della polizia e diceva di essere una brava persona. «Su di me ci sono solo tante dicerie». Maisto gli mostrò delle foto che lo ritraevano con dei politici ad un congresso della Democrazia cristiana. Quelle foto le esibì quasi come un salvacondotto. Ma Ammaturo non si lasciò impressionare. Qualche tempo dopo, arrestò il boss. Tornò a Napoli il primo dicembre 1976. Gli venne affidata prima la direzione del commissariato Mercato e poi di quello di Montecalvario. Il 5 settembre 1981 fu scelto come dirigente della squadra mobile di Napoli. Era «un uomo duro dal cuore d’oro». E questo lo riconoscevano anche molti di quelli che lui aveva arrestato. Difatti in tanti erano presenti ai suoi funerali.



Due mesi prima della sua morte, ad un giornalista che gli chiedeva perché non avesse la scorta, aveva risposto: «Auto blindata? Certo, è più sicura. Ma quando “quelli” hanno deciso di farti fuori, non c’è auto blindata che tenga. Lo sa lei dove abito io? Vivo con la mia famiglia a meno di duecento metri in linea d’aria dal cuore di Forcella. In un posto così l’auto blindata è inutile». Proprio la mattina del 15 luglio ’82 la polizia aveva arrestato Luigi Giuliano, il re di Forcella. Pasquale Paola, l’agente scelto, di anni ne aveva trentadue. La giovane moglie, Raffaella Bonito, solo ventiquattro. Era originario di Vico Equense. Dal 1977 faceva l’autista di scorta. Era uno che ci sapeva fare. E la sua grande corporatura rassicurava tutti quelli che lo avevano vicino. Il suo era un lavoro che non si notava, ma di grande apporto. Proveniva dalla scuola di Polizia di Nettuno. Poi era passato alla sezione investigativa con compiti di scorta. Due anni prima era stato promosso guardia scelta. La giovane moglie era preoccupata di questo suo nuovo incarico, ma lui che aveva sempre la battuta pronta per sdrammatizzare anche le situazioni più difficili, l’aveva rassicurata. Ma contro le armi delle BR non era bastata né la sua stazza fisica, né la sua professionalità.



Le spoglie di Pasquale Paola si trovano nel cimitero di Vico Equense. Lì c’è una targa con questa scritta: «Qui riposano le spoglie mortali dell’agente scelto della Polizia di Stato Paola Pasquale. Per il giusto merito, riconoscimento e prestigio della polizia distintesi con la sua vita. Severo servitore dello Stato, insignito di medaglia d’oro al valore civile. Caduto nell’adempimento al dovere il 15.07.1982 in un agguato terroristico a Napoli. A ricordo dei posteri questi grandi eroi non dovranno mai essere dimenticati per il nostro caro congiunto sicuro che può essere di sollievo alla sua anima immortale e di ammonimento alle nostre coscienze». «Ancora oggi la morte di mio padre resta senza un perché», dice con disappunto Gilda. «Troppe cose non chiare. Troppi misteri. Il fatto che riesca a parlarne, però, mi aiuta a elaborare il lutto. Ci riesco da tre anni grazie a Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti. Mi ha aiutato molto. Grazie a loro ho incontrato tanti bambini e ragazzi nelle scuole della provincia di Avellino. A loro ho parlato di mio padre e del suo lavoro come funzionario dello Stato. Ho parlato dei suoi valori. Un esempio di vita per i giovani di oggi. “Un poliziotto duro dal cuore d’oro” che è stato sempre fiero di servire lo Stato».



Ad Antonio Ammaturo e Pasquale Paola è stata assegnata la medaglia d’oro al valor civile.

lunedì 2 luglio 2012

SALVATORE NUVOLETTA, 20 ANNI, AMMAZZATO PER ORDINE DEI CASALESI IL 2 LUGLIO 1982

QUESTI QUI SOTTO PUBBLICATI,  SONO ALCUNI BRANI DELLA STORIA DI SALVATORE NUVOLETTA, TRATTI DAL MIO LIBRO "LA BESTIA". ED. MELAMPO

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«Pronto? Casa Nuvoletta? Sono il colonnello Placido Russo. Devo darvi una bella notizia. Siamo venuti a capo della morte di vostro figlio. Un collaboratore di giustizia ha parlato e ha detto perché è stato ucciso». A Ferdinando Nuvoletta, il papà di Salvatore, che era dall’altro lato della cornetta, non pareva vera quella telefonata. Lui che si era battuto in ogni sede, che aveva scritto lettere a ministri, parlamentari e finanche al Presidente della Repubblica per avere giustizia per il suo giovane Salvatore, si emozionò a sentire quelle parole. Aveva atteso quel momento per quattordici lunghi anni, senza avere mai alcuna risposta. Dovette sedersi per non cedere all’emozione. Ringraziò il colonnello Russo e subito dopo chiamò la moglie: «Giuseppina, Giuseppina, erano i carabinieri. Hanno saputo chi e perché ha ucciso il nostro Salvatore». Si abbracciarono e scoppiarono in un pianto liberatorio.

Era il 1996, poco prima del blitz “Spartacus 2”, quello che portò in carcere decine di affiliati al clan dei casalesi e molti amministratori pubblici. Per quattordici anni l’omicidio del giovane carabiniere era rimasto un mistero. Nemmeno chi lo aveva ucciso voleva farne sapere i motivi veri. Troppe implicazioni, troppe complicità – forse anche interne all’Arma – imponevano un silenzio di tomba. La mafia siciliana, su richiesta del clan Nuvoletta, si era incaricata della responsabilità di eseguire l’omicidio per conto del clan dei casalesi, e aveva imposto a tutti l’omertà assoluta. Sapeva bene, Cosa Nostra, che le reazioni avrebbero potuto essere dure, con complicazioni gravi per i gruppi criminali che avevano colpito l’Arma. Aveva, perciò, aveva lasciato cadere su quella morte un sospetto velenoso dovuto al peso del cognome (…).

Ma per quattordici anni il padre Ferdinando, la madre Giuseppina Gargiulo e gli altri sei fratelli non si sono dati pace. Hanno bussato a molte porte. Si sono sentiti spesso umiliati, frustrati, perché nessuno voleva ascoltarli. Il dolore non lo si può raccontare, lo si sente. Né si cancella, si attenua. L’obiettivo di mamma Giuseppina fino al giorno della sua morte, giunta il 27 marzo del 2006, era stato schiaffarlo in faccia a tutti, il proprio dolore. Perciò gli abiti neri non se li era mai tolti. Come a voler ricordare che aspettava ancora giustizia. Un monito per chi negli anni non era stato in grado di spiegare quel delitto e di trovare un colpevole. Poi, negli ultimi cinque anni di vita, aveva preso la decisione di non partecipare più a nessuna cerimonia commemorativa. Non voleva regalare più nulla a uno Stato irriconoscente, diceva, verso i suoi figli migliori. Perché quel figlio morto era la sua disperazione mai finita. E al dolore si aggiungeva un senso di colpa e di angoscia per non essere riuscita a salvare il figlio. Salvatore con lei aveva parlato pochi giorni prima di morire. E le parole che aveva ascoltato le rimbombavano nelle orecchie continuamente, ossessivamente: «Mamma – le aveva confidato – so che dovrò morire. Me lo hanno detto, ma non ho paura. Io sono un carabiniere».

Lo sgarro e la vendetta

Salvatore Nuvoletta doveva pagare uno “sgarro” fatto a uno dei boss emergenti della zona. Si chiamava Francesco Schiavone, sarebbe passato alla storia del crimine come “Sandokan”, e allora era il giovane autista e killer di fiducia di Antonio Bardellino, il capo indiscusso del clan dei casalesi nonché uno dei primi camorristi ad affiliarsi a Cosa Nostra. Schiavone aveva deciso di fare pagare a Salvatore l’uccisione di un camorrista avvenuta il 20 giugno 1982 in un conflitto a fuoco tra malviventi e carabinieri, nei pressi di Casal di Principe. In quell’occasione era rimasto sul terreno Mario Schiavone, conosciuto con il soprannome di “Menelik” e cugino conclamato (anche se nessuna parentela risultò al processo) di Sandokan. Nello stesso conflitto a fuoco era stato ferito un altro boss, Vincenzo De Falco “’o fuggiasco”, il futuro grande traditore, mandante dell’assassinio di don Peppe Diana. I due, con Luigi Venosa detto “’o cucchiero”, stavano tornando da una rapina a Castel Volturno quando si imbatterono in un posto di blocco. «La camorra voleva la vendetta contro i carabinieri – racconta Gennaro, il fratello di Salvatore – “Fuori il nome di chi ha ucciso mio cugino, o salta in aria la caserma con tutte le persone dentro”, mandò a dire Sandokan. E un giorno passò anche alle vie di fatto direttamente con il maresciallo Gerardo Matassino, che allora comandava la stazione dell’Arma di Casal di Principe. Vicino alla caserma, proprio sulla pubblica strada, Sandokan prese a schiaffi il maresciallo chiedendo chi era stato a sparare al cugino. Più in là c’era Salvatore, mio fratello, che tentò di intervenire per arrestarlo. Sandokan stava per reagire, poi disse solo con tono minaccioso: “Fatti i fatti tuoi”. Matassino non fece cenno ad alcuna reazione dopo gli schiaffi, tanto che altri giovani carabinieri che avevano assistito alla scena rimasero sorpresi
del suo comportamento. Ma il perché si venne a sapere solo molti anni più tardi, ad opera di un pentito». Gli schiaffi in pubblico a un maresciallo dei carabinieri erano un modo, anche eclatante, per affermare la supremazia del clan e per lanciare il messaggio che la morte di un camorrista si paga cara. Quello era il periodo in cui Antonio Bardellino era il punto di riferimento nella “Nuova Famiglia”, un cartello di gruppi camorristici (Alfieri, Casalesi, Nuvoletta, Zaza), che aveva deciso di fare la guerra a Raffaele Cutolo, a sua volta a capo della “Nuova Camorra Organizzata”. La guerra era scoppiata per il controllo del traffico del contrabbando di sigarette. E, soprattutto, per il controllo dei fondi per la ricostruzione arrivati in seguito al terremoto del 23 novembre 1980 che aveva sconvolto la Campania e la Basilicata.

Per la morte del camorrista “Menelik” fu dunque indicato come colpevole Salvatore Nuvoletta, il carabiniere che notoriamente cercava di contrastare le scorribande e lo strapotere dei giovani rampolli della camorra; che dava “continuamente fastidio”, fermando i “guaglioni” per strada ogni volta che se ne presentava l’occasione. Il carabiniere che voleva rispettare e che fosse rispettata la sua divisa. E che quindi non riusciva ad accettare che alcuni suoi colleghi dimostrassero una così aperta tolleranza verso gli esponenti dei clan casalesi. E che anche perciò aveva fermato proprio Mario Schiavone, “Menelik”, nelle settimane precedenti il conflitto a fuoco. Secondo i pentiti, a “vendere” il nome di Salvatore Nuvoletta ai clan fu proprio il suo superiore, il maresciallo Gerardo Matassino, colui che più di tutti doveva difenderlo e che invece, così venne raccontato, era sul libro paga dei casalesi. Solo che Salvatore, il giorno del conflitto a fuoco con i camorristi, era di piantone in caserma. Perché dunque giusto lui sia stato offerto come capro espiatorio ai camorristi rimane un mistero. L’unica spiegazione è che qualcuno se ne volesse sbarazzare dall’interno stesso dell’Arma locale; che la sua presenza in caserma rappresentasse un fastidio per chi aveva deciso da tempo di venire a patti con i criminali. A parlare specificamente della vicenda, rimasta oscura per tanti anni, fu il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone.

Quando venne ucciso il carabiniere Salvatore Nuvoletta aveva 20 anni. Si era arruolato nell’Arma nel novembre del 1979, a soli 17 anni. Sognava una famiglia e una carriera nell’Arma, come gli altri suoi fratelli. Ma i suoi sogni furono spezzati quando tre killer del clan Nuvoletta lo trucidarono proprio sotto la sua abitazione, a Marano. Era il primo pomeriggio del 2 luglio 1982. Di lì a qualche giorno l’Italia intera sarebbe esplosa di gioia per la vittoria ai mondiali di calcio in Spagna.
Alle tre del pomeriggio
Faceva caldo il 2 luglio del 1982. Salvatore Nuvoletta era seduto all’ombra, su una sedia fuori del negozio di frutta e verdura dei genitori, in via Santa Maria a Cubito, 231. Stava giocando con Bruno D’Aria, un ragazzino di 9 anni a cui era molto affezionato. Lo teneva sulle ginocchia. Giocava e rideva, Salvatore, quel pomeriggio. Aveva smesso la divisa e stava in abiti civili. Dei pantaloncini chiari, una camicia celeste e un borsello a tracolla dove teneva tutti i documenti. Il negozio era aperto. C’era dentro il fratello, Antonio, che all’epoca lo gestiva con i genitori. Suo padre Ferdinando e la madre Giuseppina stavano riposando. Fu allora che giunse il messaggio. «Sta fuori il negozio dei suoi genitori, potete partire». Alle tre del pomeriggio e sotto un sole cocente, con le strade semideserte, era l’occasione giusta. Lo spione del clan dei Nuvoletta corse ad avvisare che il commando poteva dar corso all’esecuzione. Tutto era pronto per la vendetta. L’unico problema poteva essere quel bambino che continuava a giocare con Salvatore e che gli ritornava sempre in braccio.

Partirono su una Volkswagen Jetta grigio perla, che era stata rubata qualche settimana prima per l’occasione. Quattro i killer sull’auto. Uno con un revolver Smith & Wesson calibro 44 Magnum. Gli altri tre tutti armati di un revolver 357 Magnum. Quando la Volkswagen arrivò sul corso principale di Marano, a una trentina di metri dall’obiettivo, tre di loro scesero dall’auto e uno rimase alla guida. I killer impugnarono le armi e si avvicinarono a passi veloci verso il carabiniere. Lo chiamarono per nome: «Totore, totore…». Salvatore Nuvoletta sentendosi chiamare, si voltò credendo di incrociare qualche viso amico. Ma quando si accorse che tre uomini armati si avvicinavano a passo veloce verso di lui, capì subito tutto. In quel momento si materializzarono le paure, le ansie degli ultimi mesi. Sentì il sangue salirgli in viso. Non poteva né reagire né scappare. Troppo tardi. I killer erano già a pochi passi. Pensò solo a Bruno, che era ancora seduto sulle sue ginocchia e continuava a giocare. Istintivamente lo lanciò lontano. Bruno rotolò per terra. Appena in tempo per salvarlo, perché pochi attimi dopo Salvatore cadde in una pozza di sangue. Lo tempestarono di proiettili esplosivi. Quelli che lo colpirono gli portarono via lembi interi del corpo, conficcandosi nel muro alle sue spalle e sotto il balcone sopra la sua testa. Non contenti, i killer gli spararono anche il colpo di grazia. Già, il colpo di grazia, che una volta veniva considerato un atto di pietà nei confronti di un ferito sul campo di battaglia, qui invece diventa un gesto di spregio; il segno di una vendetta consumata senza alcuna ombra di pietà. Come firma, rivendicazione del delitto. E come monito esemplare, verso i cittadini ma anche – in questo caso – verso le forze dell’ordine. Un modo per ristabilire sul campo la potenza militare anche nei confronti dello Stato. Pochi attimi dopo i killer, compiuta la missione di morte, sparirono in una traversa laterale.

Il padre Ferdinando, svegliato dal trambusto, si affacciò dal balcone della sua abitazione pensando che quei colpi fossero mortaretti sparati da qualche ragazzino. Uscì urlando: «La volete smettere di disturbare le persone che riposano a quest’ora?». Ma quando si affacciò e vide che sotto c’era una folla di persone inorridite, si rese conto che doveva essere accaduto qualcosa di grave. Mai però avrebbe pensato che a terra ci fosse proprio il corpo di suo figlio Salvatore. Sono rimasti lì per tanto tempo quei segni di morte. Conficcati nel muro e nel marciapiede.

Se son vivo lo devo a Salvatore

«Ora faccio il pizzaiolo in Germania, ma a Salvatore non me lo sono dimenticato. Lui mi ha salvato la vita quel giorno». C’era anche Bruno, il bambino rimasto vivo solo per la prontezza di riflessi di Salvatore, a ricordare l’ amico carabiniere alla cerimonia del 2 luglio 2007. Venuto apposta dalla Germania. Ora ha 34 anni. Gennaro Nuvoletta lo aveva perso di vista. Di lui a Marano si erano smarrite le tracce, come se si fosse voluto tagliare tutti i ponti alle spalle. Il rapporto con la famiglia, dopo la morte della mamma, non era stato proprio idilliaco. Bruno non vedeva Gennaro Nuvoletta da più di vent’anni. Ma prima di emigrare, quando lo incrociava, non faceva altro che ricordarglielo: «Gennaro, se sono vivo, lo devo a tuo fratello Salvatore». Perciò Gennaro era andato alla sua ricerca con l’applicazione investigativa del carabiniere di razza. Era troppo importante la sua presenza quel giorno. Era teso ed emozionato, Bruno D’Aria, alla commemorazione che l’associazione Libera aveva organizzato nella caserma dei carabinieri di Casal di Principe. La stessa in cui Salvatore Nuvoletta aveva prestato coraggiosamente servizio e che ancora non gli è stata intitolata, nonostante una richiesta avanzata anni or sono; solo una lapide nel corridoio vicino all’ingresso principale ne ricorda il sacrificio.

Nessuno nell’occasione sapeva chi fosse quel giovanotto sulla trentina visibilmente a disagio in quell’ambiente e che non si staccava un attimo da Gennaro Nuvoletta. Ci pensò Valerio Taglione a presentarlo alle autorità. Bruno si trovò quasi addosso il ruolo della star. Sorrideva, salutava, ma non riusciva a dire una parola. Era imbarazzato, emozionato, e allo stesso tempo contento di essere a Casal di Principe per ricordare il suo amico più grande. Ancora oggi ha un ricordo nitido di quegli ultimi, terribili attimi. Anche se è passato più di un quarto di secolo. «Siamo andati via da Marano con i miei genitori e sono andato ad abitare a San Rocco di Marano, oggi via Paolo Borsellino. Non ho mai parlato con nessuno perché ho avuto sempre paura, sempre. E quando ho sentito che Gennaro Nuvoletta mi cercava, ho avuto ancora più paura. Ho pensato: che cosa sarà mai successo che ora, dopo tanti anni, vengono a cercarmi? Poi Gennaro mi ha telefonato e mi ha tranquillizzato dicendomi: “Bruno, non è niente. Abbiamo organizzato una cerimonia per ricordare mio fratello e vogliamo che ci sia anche tu perché sei l’unica persona amica che l’ha visto negli attimi prima della morte”.

I primi tempi andavo al cimitero senza farmi vedere da nessuno. Prima di me arrivava il papà di Salvatore, Ferdinando. Anche se avevo l’impressione che lui fosse sempre lì. Lo vedevo una volta a pulire la tomba, una volta a mettere i fiori, una volta a sistemare la lampada vicino alla foto. Io mi nascondevo per non farmi vedere da lui. Non so perché, ma non volevo farmi vedere da nessuno. Ero rimasto traumatizzato. Lì vicino c’è una chiesa. Mi fermavo spesso sui gradini e aspettavo. Non so che cosa, ma aspettavo. Quando arrivava il prete mi diceva: “Bruno, mi raccomando…guarda che lì c’è suo padre. Appena ti vede si mette a piangere. Non ci andare”. E io non ci andavo nel cimitero.

Poi il papà di Salvatore al ritorno mi incontrava perché io restavo a lungo sulle scale della chiesa ad aspettare e a guardare da lontano. Mi veniva vicino, mi accarezzava e ogni volta mi diceva la stessa cosa: “Bruno, hai visto che mi hanno fatto? Mi hanno ucciso mio figlio. Me l’hanno portato fino via. Lui non ha fatto niente e me l’hanno ammazzato. Così piccolo, così giovane, me l’hanno ammazzato”. Ricordo che piangeva sempre. Sono indimenticabili i suoi occhi pieni di lacrime. Era da un po’ di tempo che stavo sempre insieme a Salvatore. Mi voleva bene. Si era affezionato a me perché ero un bambino vispo, sveglio. Addirittura era andato dai miei genitori a dirgli che voleva adottarmi. Loro gli dissero che potevo stare con lui tutto il tempo che voleva, ma che la sera dovevo tornare a casa.

Mia mamma mi reclamava. Ma avevano piacere che io passassi con lui le mie giornate, altrimenti le avrei trascorse per strada. E per strada si possono fare brutti incontri, prendere vie pericolose. Ero abituato a stare dalla mattina alla sera in giro e chiedevo soldi alle persone. Salvatore mi diceva: “Bruno, a me queste cose non piacciono. Non le devi fare. I soldi te li dò io”. Quando poi stavamo assieme mi comprava di tutto: giocattoli, magliette, pantaloncini. Quel giorno mi era venuto a prendere a casa, perché mia madre lo aveva mandato a chiamare per farmi sgridare. Ne avevo fatto un’altra delle mie. “Questo ti sta a sentire più a te che a me – lo esortò mamma – diglielo anche tu che deve calmarsi, che alcune cose non si devono fare”. “Se fai il bravo – mi disse Salvatore prendendomi per mano – oggi ti porto a comprare la bicicletta”. Era una bmx grigia, me la portò a vedere. E come si fa a dimenticare certe cose... Dopo siamo andati fuori dal negozio dei suoi genitori e, come sempre, mi ero seduto sulle sue gambe. Stavamo giocando. Ma io non facevo altro che pensare alla bicicletta e gli chiedevo: “Quando me la compri?”.

Poco dopo da sinistra arrivò una macchina che io ricordo di un colore marrone. Lui parlava con me e aveva le spalle al muro. Mi ricordo di due, tre persone che sono arrivate vicino e lo hanno chiamato ripetutamente per nome: “Totore, Totore, Totore…”. Salvatore si girò e guardò nella direzione da dove veniva la voce. Quando vide le armi puntate su di lui, non pensò a nient’altro: mi lanciò sulla sua sinistra, per terra, perché aveva capito subito che cosa sarebbe successo. Io scappai sotto un fabbricato in costruzione. Sentii i colpi sparati a ripetizione. Chiusi gli occhi e misi le mani sulle orecchie per non sentire più. Furono momenti terribili. Ebbi paura che mi stessero uccidendo. Quando finirono di sparare andai vicino a Salvatore che era steso per terra e capii che era morto. Cominciai a piangere. Mi buttai sul suo corpo e lo abbracciai. Arrivarono i carabinieri, l’ambulanza, un casino. Ma io non lo lasciai. Qualcuno tentò di staccarmi da lui, come il macellaio che aveva il negozio lì a fianco. Ma non ci riuscì. Rimasi così fino a quando non arrivò mia mamma: “Bruno lascialo – mi disse – dai, lascialo. Vieni che ti porto a casa”. Così andai in braccio a lei ancora singhiozzando e continuavo a chiederle: “Perché lo hanno ucciso, perché lo hanno ucciso?”. Oggi ho ricordi confusi dei giorni che seguirono. Ricordo solo che per un certo periodo i carabinieri giravano attorno alla mia casa, non so se per proteggere mio padre o me che avevo visto gli assassini. Ma io in faccia non li avevo visti. Per tantissimo tempo la notte avevo gli incubi, perché avevo il terrore che venissero a uccidere anche me. L’ho temuto per tantissimi anni.

Perciò mi nascondevo e non volevo farmi vedere da nessuno quando andavo sulla sua tomba a portargli un fiore. Poi mia mamma morì e io a casa non mi trovai più bene. Mio padre non mi trattava come un figlio. Così un giorno mi sono deciso e sono scappato di casa. Ma Salvatore me lo sono portato nel cuore. Ancora oggi mentre faccio le pizze nel ristorante italiano in cui lavoro, ogni tanto mi capita di pensare a lui, a lui che mi prometteva quella bicicletta».