Questo racconto che segue è tratto dal mio libro "al di là della notte" edizione Tullio Pironti
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Antonio Ammaturo |
Suona
il citofono. «Capo, sono io. L’aspetto giù». «Va bene. Scendo in un attimo,
aspettami in auto». Pasquale Paola, l’agente di polizia scelto, quel giorno fa
lui da autista al capo della squadra mobile, Antonio Ammaturo. Si conoscono da
tempo. È uno degli uomini più fidati del vicequestore. La moglie, Ermelinda Lombardi,
sta preparando il caffè. Ma il marito preferisce scendere subito, per non far aspettare
Pasquale. La macchina, un’Alfetta bianca, una di quelle auto civetta della
polizia che si fanno notare in giro, esce dall’edificio dove abita il
vicequestore, in piazza Nicola Amore, a Napoli, al centro della città. Sono le
sedici e quarantacinque del 15 luglio 1982. L’anno e il mese in cui l’Italia
vince i mondiali in Spagna. Tutti gli italiani parlano solo degli azzurri di
Bearzot. Anche in piazza Nicola Amore c’è tanta gente per strada e al bar si
accendono appassionate discussioni calcistiche.
È un pomeriggio afoso. Pasquale,
invece, è intento nel suo lavoro. Ma non s’accorge che ad aspettare Antonio
Ammaturo non è il solo. Fuori il palazzo ci sono altre persone. È un commando
di brigatisti rossi. Sono in missione di morte. Due armati con pistole e
mitragliette. Altri due in auto. Sono in una Fiat 128 verde chiaro, che aspetta
con il motore acceso. La vittima designata è proprio Antonio Ammaturo. Pasquale
Paola sarà la seconda vittima. Da tempo pedinavano il capo della mobile. In uno
dei covi delle BR scoperti un paio di anni prima proprio a Napoli, era stata
trovata una scheda sul poliziotto: «Un funzionario con grande esperienza di
polizia giudiziaria», era scritto, «il quale, tra l’altro, in una sola notte
riuscì ad arrestare sull’Aspromonte sei latitanti». Antonio Ammaturo e l’autista
Pasquale Paola hanno solo il tempo di mettersi in macchina, uscire dal palazzo
e fare pochi metri. La Fiat 128 gli sbarra la strada. I due brigatisti armati
gli si parano davanti. Indossano tute da meccanici. Fanno fuoco a ripetizione.
Dieci, venti, trenta colpi. La sparatoria continua. Altri colpi partono dalla
mitraglietta e dalla pistola. Per i due poliziotti non c’è niente da fare. La
morte è istantanea. Scene di panico. La gente che corre per scappare. Un vigile
urbano che è nei paraggi si accorge della sparatoria e reagisce. Spara alcuni colpi
di pistola contro l’auto che sgomma a tutta velocità. I brigatisti cercano la
fuga risalendo per via Duomo. Poi imboccano via Tribunali. Si infilano nei
vicoli di Napoli. Passano per San Gregorio Armeno dove incrociano una pattuglia
di “falchi”. Ne nasce un conflitto a fuoco. L’auto è colpita. Forse anche
qualche brigatista è stato colpito. Nella sparatoria vengono feriti lievemente anche
due passanti. Sono Giuseppina Scarano, di quarant’anni e Luciano Manzo, di diciannove.
Nei vicoli è difficile continuare a correre con l’auto. I vicoli di Napoli si
stringono.
Le
auto non riescono a passare. Troppi ostacoli. Fine della corsa. I terroristi
scappano a piedi. C’è sangue nell’auto e per terra. Qualcuno di loro è ferito.
Scatta una gigantesca caccia all’uomo, ma senza esito. I brigatisti spariscono.
Inghiottiti nei vicoli. Saranno aiutati da alcuni appartenenti alla camorra. In
piazza Nicola Amore, intanto, arrivano numerose pattuglie della polizia. Sono
tutti sbigottiti e increduli. Ermelinda Lombardi, la moglie di Ammaturo, ha
sentito tutto il trambusto e i colpi d’arma da fuoco. Ha come un presentimento.
Apre la porta e corre di corsa per le scale. La blocca un inquilino e
l’abbraccia. A quel punto capisce che l’obiettivo dell’agguato è il marito. Scoppia
a piangere. Vuole scendere per forza. Per vedere per l’ultima volta il suo
Antonio.
«Quel giorno in cui fu ucciso mio padre, me lo ricordo come se fosse ieri»,
racconta Gilda, la figlia di Antonio Ammaturo. «Ero sul letto quando citofonò
Pasquale Paola. Le sue ultime parole che sentii mentre scendeva dalle scale
furono: “Ho fatto tardi”, e non prese nemmeno il caffè che mamma aveva
preparato. Faceva un gran caldo e benché sapessi che non gli faceva piacere che
ci si sedesse sopra il suo letto, io mi distesi lo stesso sopra,
vedendo che andava via, ma quella volta non mi disse niente. Papà prese la
giacca, salutò la mamma e scese subito. Mia madre mi ha raccontato che prima di
attraversare il portone per uscire si voltò, aveva la giacca del vestito sul
braccio, e con l’altro la salutò mentre lei dal balcone lo guardava andare via…
Fu l’ultima volta che lo vedemmo e ascoltammo i suoi passi per la casa. Le raffiche
di mitra le sentii nitide. Poi un silenzio assordante. C’era l’Italia che
giocava i mondiali di calcio. Pensai che i tifosi volessero festeggiare. Ma fu
un attimo. Il silenzio non corrispondeva alla gioia per l’Italia. Il cuore mi
si gelò dentro. Capii che era accaduto qualcosa a mio padre. Non volevo
crederci. Poi mia madre di corsa per le scale. E scoppiai a piangere. Fino a
poco tempo fa», dice ancora Gilda, oggi funzionaria della Prefettura di
Avellino, «non avevo il coraggio di ritornare nella piazza dove fu ucciso papà.
La sua morte è una ferita che ancora non si è chiusa. Mio padre era una persona
molto riservata e schiva», dice Gilda con la voce rotta dall’emozione, «gran
parte della sua giornata la passava per strada. “Ordine pubblico”, davanti ai
suoi uomini, nei lunghi cortei tra le assordanti manifestazioni dei
“disoccupati organizzati” per i quali aveva sempre una parola di speranza ed un
aiuto. Oppure passava le giornate tra le tende dei terremotati a cui la camorra
stava togliendo anche il respiro, per il giro degli affari sporchi e degli
appalti del post terremoto che solo papà ebbe il coraggio di denunciare, senza paura.
Qualche giorno prima dell’agguato mi disse: “State vicino alla mamma.
Aiutatela”. Forse aveva presagito qualcosa. Non so spiegarmi quelle sue parole
pronunciate con grande riserbo mentre eravamo da soli a casa e non c’era
nessuno presente. Il tono con cui le disse manifestava una sua segreta
preoccupazione che non voleva fosse percepita da noi familiari. Ci teneva
sempre al di fuori dei suoi problemi di lavoro e con noi non ne parlava mai, così
come fece cancellare le minacce scritte sul portone di casa già alcuni mesi
prima dell’attentato per non metterci in apprensione. Malgrado le difficoltà e
la lontananza, visto che ha sempre lavorato in posti molto disagiati, e noi ci
siamo ricongiunti solo con il suo trasferimento a Napoli, non ci ha fatto
mancare mai la sua affettuosa presenza, con grandi sacrifici, e ci ha regalato un’infanzia
dorata e felice».
Pasquale Paola |
Ammaturo
non si occupava di politica. Si occupava solo di criminalità organizzata.
Perciò la sua morte per mano delle Brigate Rosse è strana. Conosceva vita,
morte e miracoli dei clan della camorra. Aveva contribuito a sgominare molti
clan. Lo temevano, come lo temeva il boss di Ottaviano, Raffaele Cutolo, a cui
aveva reso la vita difficile da quel 5 settembre 1981, giorno della sua nomina
a capo della squadra mobile di Napoli. Pochi giorni dopo il suo insediamento
fece irruzione nel castello di Ottaviano, roccaforte di Raffaele Cutolo,
interrompendo un summit di camorra e arrestando tra gli altri il figlio del boss,
Roberto. Ammaturo, in un’intervista al quotidiano «Paese Sera», aveva anche
detto di Cutolo: «È completamente artefatto. Ogni parola che dice risuona
subdola e carica di secondi fini. La sua fortuna è quella di aver trovato
terreno fertile con i mali della città». Un affronto che Cutolo non riuscì a
mandare giù. Il 27 aprile del 1981 c’era stato il rapimento dell’assessore regionale
Dc, Ciro Cirillo. Cutolo aveva fatto da intermediario per farlo rilasciare.
Alle BR erano state promesse armi e soldi.
A
Cutolo condizioni di vita migliori nelle carceri e il trasferimento di numerosi
camorristi. Antonio Ammaturo, che era un vero e proprio segugio e aveva le sue
fonti confidenziali sparse per l’intera città, seppe che dietro la liberazione
di Ciro Cirillo c’era stata una trattativa tra lo Stato e le BR che aveva avuto
come intermediario Raffaele Cutolo. Al fratello Grazio, parlò di un dossier che
aveva compilato e che gli aveva spedito. Un altro lo spedì al Ministero
dell’Interno. «Sono cose grosse. Napoli tremerà», gli aveva confidato il giorno
prima della sua morte.
Quei
dossier non si sono mai trovati. E, forse, dietro la sua uccisione c’è anche
questa sua attività di ricostruzione della “trattativa”. All’epoca si parlò
molto di un «favore fatto» a Cutolo da parte delle BR. Ma questo non è stato
mai dimostrato. L’uccisione di Antonio Ammaturo e Pasquale Paola verrà
rivendicata dalle BR, partito della guerriglia. Antonio Ammaturo aveva
cinquantasette anni quando fu ucciso. Era sposato con Ermelinda Lombardi, da
cui aveva avuto tre figlie: Gilda, Maria Cristina e Grazia. Era nato a
Contrada, in provincia di Avellino, l’11 gennaio 1925. Laureato in giurisprudenza,
divenne funzionario di polizia nel 1955. Prestò servizio presso la Questura di
Avellino. Gli anni che lo formano e gli faranno acquisire tanta esperienza sul
campo saranno quelli alla guida del Commissariato di Giugliano. Otto anni in
una terra dove il clan di Alfredo Maisto la faceva da padrone. Ammaturo
raccontò che, poco dopo il suo arrivo a Giugliano, incontrò il boss in un
motel. Alfredo Maisto si considerava un perseguitato della polizia e diceva di
essere una brava persona. «Su di me ci sono solo tante dicerie». Maisto gli
mostrò delle foto che lo ritraevano con dei politici ad un congresso della
Democrazia cristiana. Quelle foto le esibì quasi come un salvacondotto. Ma
Ammaturo non si lasciò impressionare. Qualche tempo dopo, arrestò il boss.
Tornò a Napoli il primo dicembre 1976. Gli venne affidata prima la direzione
del commissariato Mercato e poi di quello di Montecalvario. Il 5 settembre 1981
fu scelto come dirigente della squadra mobile di Napoli. Era «un uomo duro dal
cuore d’oro». E questo lo riconoscevano anche molti di quelli che lui aveva
arrestato. Difatti in tanti erano presenti ai suoi funerali.
Due
mesi prima della sua morte, ad un giornalista che gli chiedeva perché non
avesse la scorta, aveva risposto: «Auto blindata? Certo, è più sicura. Ma quando
“quelli” hanno deciso di farti fuori, non c’è auto blindata che tenga. Lo sa
lei dove abito io? Vivo con la mia famiglia a meno di duecento metri in linea
d’aria dal cuore di Forcella. In un posto così l’auto blindata è inutile».
Proprio la mattina del 15 luglio ’82 la polizia aveva arrestato Luigi Giuliano,
il re di Forcella. Pasquale Paola, l’agente scelto, di anni ne aveva trentadue.
La giovane moglie, Raffaella Bonito, solo ventiquattro. Era originario di Vico
Equense. Dal 1977 faceva l’autista di scorta. Era uno che ci sapeva fare. E la
sua grande corporatura rassicurava tutti quelli che lo avevano vicino. Il suo
era un lavoro che non si notava, ma di grande apporto. Proveniva dalla scuola
di Polizia di Nettuno. Poi era passato alla sezione investigativa con compiti
di scorta. Due anni prima era stato promosso guardia scelta. La giovane moglie
era preoccupata di questo suo nuovo incarico, ma lui che aveva sempre la battuta
pronta per sdrammatizzare anche le situazioni più difficili, l’aveva rassicurata.
Ma contro le armi delle BR non era bastata né la sua stazza fisica, né la sua
professionalità.
Le
spoglie di Pasquale Paola si trovano nel cimitero di Vico Equense. Lì c’è una
targa con questa scritta: «Qui riposano le spoglie mortali dell’agente scelto della
Polizia di Stato Paola Pasquale. Per il giusto merito, riconoscimento e
prestigio della polizia distintesi con la sua vita. Severo servitore dello
Stato, insignito di medaglia d’oro al valore civile. Caduto nell’adempimento al
dovere il 15.07.1982 in un agguato terroristico a Napoli. A ricordo dei posteri
questi grandi eroi non dovranno mai essere dimenticati per il nostro caro
congiunto sicuro che può essere di sollievo alla sua anima immortale e di
ammonimento alle nostre coscienze». «Ancora oggi la morte di mio padre resta
senza un perché», dice con disappunto Gilda. «Troppe cose non chiare. Troppi misteri.
Il fatto che riesca a parlarne, però, mi aiuta a elaborare il lutto. Ci riesco
da tre anni grazie a Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti. Mi ha aiutato
molto. Grazie a loro ho incontrato tanti bambini e ragazzi nelle scuole della
provincia di Avellino. A loro ho parlato di mio padre e del suo lavoro come funzionario
dello Stato. Ho parlato dei suoi valori. Un esempio di vita per i giovani di
oggi. “Un poliziotto duro dal cuore d’oro” che è stato sempre fiero di servire
lo Stato».
Ad
Antonio Ammaturo e Pasquale Paola è stata assegnata la medaglia d’oro al valor
civile.
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