(ANSA) - PALERMO, 24 LUG - Quando un mese fa si seppe che la sua firma non era accanto a quelle dei suoi pm nell'atto di chiusura dell'indagine sulla trattativa Stato-mafia, spiegò che la legge non lo obbligava a sottoscrivere il provvedimento conclusivo di un'inchiesta di cui non era titolare. Una argomentazione che aveva il gusto del cavillo giuridico, ma che non risolse il problema. Un problema che torna a porsi oggi che la Procura di Palermo ha chiesto il processo per i 12 indagati: ex ministri, mafiosi, ufficiali dell'Arma e Ciancimino jr. Sull'istanza, infatti, la firma del procuratore Francesco Messineo manca anche oggi. Anche se stavolta c'è il suo visto. «Una presa d'atto che non significa condivisione nè assunzione di responsabilità», commenta in Procura chi, già un mese fa, aveva criticato la presa di distanze di un magistrato ritenuto molto prudente e in attesa della pronuncia del Csm sulla sua nomina a Procuratore Generale di Palermo. La richiesta, comunque, è scesa all'ufficio del gip che ha cinque giorni per decidere la data dell'udienza preliminare, sede in cui gli imputati possono chiedere riti alternativi o sottoporsi alla pronuncia di proscioglimento o rinvio a giudizio. L'atto sarà notificato anche all'Avvocatura dello Stato perchè possa costituirsi in giudizio per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri indicata come parte lesa. «Preferisco farmi giudicare da un giudice terzo. Dimostrerò la mia estraneità ai fatti addebitatimi ritenuti falsa testimonianza, e la mia fedeltà allo Stato», ha commentato Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno coinvolto nell'inchiesta per le dichiarazioni rese durante il processo al generale Mario Mori, altro presunto protagonista della trattativa.
A rischiare il processo, dunque, sono in 12: oltre a Mancino, finito in una rovente polemica per le sue conversazioni, intercettate dalla Dia, con il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio, i vertici del Ros di quegli anni: il generale Mario Mori, l'ex comandante Antonio Subranni e l'ex capitano Giuseppe De Donno che nel '92 avrebbero avviato il dialogo con Cosa nostra tramite Vito Ciancimino. E ancora i capimafia Bernardo Provenzano, Totò Riina, Luca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà e Massimo Ciancimino, figlio di don Vito. Nella lista anche l'ex ministro dc Calogero Mannino e il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri. L'uno, accusato di avere dato input alla trattativa perchè temeva di essere ucciso, l'altro perchè si sarebbe proposto come intermediario con i clan dopo l'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima. Le accuse per quelli che vengono ritenuti i principali protagonisti del patto, che parte delle istituzioni avrebbero stretto con Cosa nostra per fare cessare le stragi, sono diverse: minaccia a corpo politico dello Stato per i boss, i carabinieri, Dell'Utri e Mannino. Concorso in associazione mafiosa e calunnia all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro per Ciancimino jr e falsa testimonianza per Mancino. Le loro posizioni sono state stralciate da quella che in Procura chiamano 'indagine madrè, un altro fascicolo ancora aperto a carico di altri ufficiali dell'Arma ed esponenti dei Servizi Segreti, accusati di avere avuto un ruolo nella trattativa. Lo stesso fascicolo in cui si trovano le intercettazioni delle conversazioni tra Mancino e il capo dello Stato ritenute irrilevanti per l'indagine. I pm avevano intenzione di distruggerle dopo essere comparsi davanti al gip e le parti in un'udienza ad hoc. Ma l'idea dei pm per ora dovrà attendere. Il Capo dello Stato ha incaricato l'Avvocatura dello Stato di promuovere il conflitto di attribuzione tra poteri davanti alla Consulta, bacchettando la Procura per avere intercettato chi, come il presidente della Repubblica, non può essere ascoltato, se non nei casi previsti dalla Costituzione e solo dopo essere stato rimosso dalle Camere; e per non avere ancora distrutto le conversazioni indebitamente intercettate.
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