venerdì 20 luglio 2012

SALVATORE, ROSARIO E ALBERTO. VITE SPEZZATE IL 20 LUGLIO DEL 1998


Alberto Vallefuoco - Rosario Flaminio e Salvatore De Falco
Salvatore De Falco, Rosario Flaminio  e Alberto Vallefuoco, sono felici. Sono tre ragazzi che ce l’hanno fatta. Tra poco saranno assunti nel pastificio Russo di Pomigliano, dove da alcuni giorni lavorano attraverso una “borsa lavoro”. Salvatore ha 21 anni, Rosario e Alberto 24. I tre hanno legato subito. Sono diventati amici. Sono sempre insieme in fabbrica e anche fuori. Hanno gli stessi ideali, gli stessi sogni, la passione per lo sport, per le ragazze. Così quando il 20 luglio del 1998 escono dal pastificio durante la pausa pranzo, vanno insieme in un bar proprio vicino al pastificio Russo. Un caffè, quattro battute con la giovane cassiera e poi il rientro in fabbrica. Ma proprio in quel momento giungono tre persone a bordo di una "Lancia Y" . Hanno in mano pistole e kalashnikov ed il volto coperto da cappucci. Sparano in direzione di Salvatore, Rosario e Alberto. Sono loro l’obiettivo di morte dei killer. Sparano decine di colpi. Li uccidono all'istante. Viene ferita anche la cassiera del bar. Attimi di terrore che creano scompiglio tra gli altri avventori del bar e i pochi passanti. In zona è in atto una guerra tra clan. Precisamente tra il clan “Cirella” e “Veneruso”.  I tre sono stati scambiati per emissari del clan “Veneruso”, alleato dei “Piccolo” di Marcianise venuti per chiedere il pizzo ai titolari del Pastificio Russo. Invece sono solo tre ragazzi che aspettavano di vivere la loro vita.  A rivelare i particolari di questa vicenda nel dicembre 2010, dodici anni dopo, è stato un collaboratore di giustizia. I tre ragazzi furono uccisi per rappresaglia dopo la strage del “giovedì Santo”, avvenuta a Marcianise  nell’aprile del 1998. Quella strage è l’antefatto che porta alla morte di Salvatore, Rosario e Alberto. I particolari di tutta la vicenda sono ricostruiti dall’Agenzia Ansa il 7 dicembre del 2010:



Un falso geometra e un falso ingegnere bussarono alla porta del boss Achille Piccolo, sperando di ingannarlo e di ucciderlo. Lui però aveva intuito il tranello e si fece trovare circondato da uomini armati. Ne scaturì una feroce sparatoria che si concluse con la morte di tre persone dell'uno e dell'altro gruppo: è quella che a Marcianise (Caserta) si ricorda come «la strage del giovedì santo». Dodici anni dopo, grazie ad alcuni collaboratori di giustizia, di quell'episodio si conoscono nel dettaglio dinamica, movente, mandanti ed esecutori. Quattro le ordinanze di custodia cautelare notificate oggi dai carabinieri di Napoli: destinatari sono Salvatore Belforte, Michele Cirella, Roberto Vicale ed Achille Piccolo. Tra i Belforte e i Piccolo, un tempo alleati tra loro sotto l'egida del boss Raffaele Cutolo, era in atto da tempo una faida cruenta. Nel conflitto a fuoco dell'aprile 1998 morirono Elpidio Gravante e Giuseppe De Crescenzo, legati al clan Piccolo; Achille Piccolo, benchè ferito, riuscì a sua volta ad uccidere Aniello Cirella, alleato dei Belforte. Di lì a pochi mesi la strage di Marcianise ebbe un tragico corollario: il padre di Aniello Cirella chiese al boss Salvatore Belforte di vendicare il figlio. Fu organizzata una spedizione punitiva a Pomigliano d'Arco, davanti al pastificio Russo. Qui, secondo le informazioni raccolte, dovevano giungere, per chiedere una tangente ai proprietari dell'azienda, tre taglieggiatori di un gruppo alleato dei Piccolo. Per un tragico errore, invece, gli uomini inviati dal boss Salvatore Belforte (paragonato dal gip al re Erode, che ordinò una strage di bambini per uccidere Gesù ed eliminare un potenziale rivale) scambiarono per taglieggiatori tre operai del pastificio che stavano prendendo un caffè a uno chalet vicino. Così il pentito Giovanni Messina racconta la strage di Marcianise: «Io ed il Cirella ci accordammo che sarebbe sceso prima lui ed entrato nel portone del Piccolo per verificare l'eventuale presenza di persone armate e, in caso di necessità, avrebbe usato una frase convenzionale per consentirmi di intervenire già armato e cominciare a sparare. La frase era: 'ingegnere, potete entrare. Fu così che quando giungemmo nuovamente al portone di ingresso dell'abitazione del Piccolo, io attesi vicino alla macchina, mentre il Cirella citofonò e si fece aprire. Quando venne aperto il portoncino d'ingresso, il Cirella, dopo aver fatto un passo avanti, si girò verso di me e mi invitò ad avvicinarsi con la frase convenzionale. Intuii immediatamente che si trattava di una situazione di pericolo per cui mi avvicinai impugnando la pistola semiautomatica già pronta all'uso. Appena fui alle spalle del Cirella, che era appena entrato nel portoncino, udii alcuni colpi di arma da fuoco e vidi il Cirella cadere davanti a me. Di fronte intravidi una persona con una pistola semiautomatica, contro cui feci immediatamente fuoco, vedendola cadere all'istante. Con la coda dell'occhio mi accorsi che sulla mia sinistra, appoggiato all'interno del portone, vi era una persona armata, contro cui girai l'arma che impugnavo con la destra e feci fuoco a ripetizione, scaricandole addosso tutto il caricatore. Contemporaneamente estrassi dalla cintola il revolver e con la sinistra esplosi altri tre o quattro colpi all'indirizzo della persona che era di fronte a me e che già era a terra. Sono certo di aver ucciso entrambi. Il tutto ebbe luogo in pochissimi secondi».  



«Sembra che l'inferno si sia trasferito sulla terra, con il Maligno che spinge gli uomini a compiere azioni terrificanti»: così una delle più alte cariche ecclesiastiche della provincia di Caserta cominciò l'omelia tenuta in occasione della celebrazione eucaristica della Pasqua del 1998, avvenuta tre giorni dopo la strage di Marcianise. La citazione è agli atti dell'inchiesta che ha portato questa mattina alla notifica di quattro ordinanze di custodia cautelare. Anche in altre occasioni i Belforte avevano scelto giorni festivi per commettere omicidi: oltre al Natale del 1997, in cui vennero assassinati due uomini vicini ai Piccolo, era accaduto per esempio l'11 novembre del 1986, quando, nella stessa abitazione teatro del massacro del giovedì santo, c'era stata un'altra feroce sparatoria in cui era caduto, tra gli altri, il boss Antimo Piccolo, padre di Achille, arrestato questa mattina; quell'episodio è tuttora ricordato in zona come «la strage di San Martino».



«Il boss Salvatore Belforte, destinatario di una ordinanza di custodia per un triplice omicidio avvenuto 12 anni fa, è paragonato dal gip al re Erode: «Una vicenda - scrive il giudice riferendosi alla strage del giovedì santo - animata da autentica sete di sterminio, riassumibile nelle rivelate intenzioni di Salvatore Belforte, moderno Erode, il quale vagheggia l'annientamento fisico di tutti i discendenti maschi del gruppo rivale, a prescindere dalla loro età. Eliminato in un'azione analoga, oltre dieci anni prima, il capoclan Antimo, tutti i Piccolo, anche i giovanissimi, devono ora morire, affinché di loro non resti neppure il ricordo e la genia si estingua definitivamente, soffocata nel sangue». Il gip si riferisce alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. Spiegando le perplessità nell'attuare il piano per colpire i Piccolo (i killer dovevano spacciarsi per geometri e ingegneri di un cantiere che volevano concordare il pagamento di una tangente) il pentito Giovanni Messina, che partecipò alla strage e uccise sia Elpidio Gravante sia Giuseppe de Crescenzo, racconta infatti: «Gli raccontammo (a Belforte, ndr) anche di quei passaggi di quelle persone sui ciclomotori ed in particolare di quel ragazzino biondo, che mi aveva colpito in maniera particolare. Il Belforte mi disse che quello era il fratello minore di Piccolo Achille, e mi aggiunse di ucciderlo qualora se ne fosse ripresentata l'occasione. Ricordo ancora che mi disse che era sua intenzione estirpare alla radice tutta la famiglia Piccolo, a prescindere dall'età dei suoi componenti». Belforte, è scritto ancora nell'ordinanza, «si vanterà coi suoi accoliti di aver rovinato anche la Pasqua ai Piccolo, dopo avergli rovinato il Natale (nelle precedenti festività natalizie lo scontro aveva lasciato sul terreno due cadaveri, inducendo le autorità a disporre un inutile coprifuoco».



Bruno Vallefuoco, il papà di Alberto, in un’intervista a Road TV: “Alberto era un ragazzo come tanti. Aveva 24 anni  e i suoi  sogni erano quelli dei ragazzi della sua età. Aveva già dovuto misurarsi con la realtà, quindi i suoi sogni erano qualcosa di più concreto. Sognava un lavoro. Perché dalle nostre parti anche il lavoro è un sogno. Sognava di farsi una famiglia. Ed è stato ucciso  mentre cercava di concretizzare qualche suo sogno. E’ stato ucciso insieme a due suoi coetanei, Rosario e Salvatore, mentre frequentava una borsa lavoro. Erano già sicuri che alla scadenza sarebbero stati assunti da questa azienda di Pomigliano. Loro non sapevano, però che questa  azienda pagava il pizzo al clan Cirella ex clan Egizio e che  nel luglio del 1998 un altro clan stava cercando di farsi spazio sul territorio. I titolari del pastificio anziché comportarsi come esemplari cittadini e denunciare tutto alla polizia, preferirono stare zitti, contribuendo ad alimentare voci diffamanti sui tre ragazzi.  Il 20 luglio del 1998, questi tre ragazzi vengono trucidati perché qualcuno è stato troppo vigliacco per rivolgersi alla polizia. E sono stati ancora trucidati nel corso delle indagini. I titolari del pastificio Russo non hanno fatto niente per aiutare le forze dell’ordine nelle indagini e nemmeno quando i giornali prezzolati dalla camorra hanno continuato a massacrare Salvatore, Rosario e Alberto. Quando hanno tentato di far credere a tutti che in fondo se la sono meritata. Non hanno mosso un dito quando sui giornali si scriveva che i tre sono stati puniti perché: “Hanno violentato una ragazza; Hanno spacciato droga per clan rivali, o uno di loro era l’amante della moglie di uno che stava in galera”. Il pastificio sapendo quello che veramente era successo ha lasciato fare. Ha continuato a negare e a non dire la verità. Vigliacchi”.



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