lunedì 30 aprile 2012

PIO LA TORRE E ROSARIO DI SALVO UCCISI IL 30 APRILE DEL 1982


Fu ucciso il 30 aprile del 1982 insieme al suo autista, Rosario Di salvo.  Pio La Torre, parlamentare e segretario regionale del Partito Comunista Italiano,  fu ammazzato da Cosa Nostra per aver fortemente voluto una legge sulla confisca dei patrimoni ai mafiosi. La mafia intuì che quella legge sarebbe stata devastante per la stessa sopravvivenza di Cosa Nostra. La legge venne approvata in parlamento quattro mesi dopo  il suo assassinio (Rognoni - La Torre). Gli atti del processo che ha portato alla condanna di 9 boss per l'agguato, ma anche quelli di altri delitti di mafia, da quello di Peppino Impastati a quello di Rocco Chinnici, e gli atti della Commissione parlamentare antimafia, sono raccolti in un archivio dedicato alla sua memoria. E alla memoria di Pio La Torre e  Rosaro Di Salvo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha assegnato il 12 aprile scorso una medaglia d’oro al merito civile.

Nel giorno del trentesimo anniversario dell’omicidio, in tanti hanno voluto ricordare La Torre e Di Salvo.

PIERLUIGI BERSANI - «Pio La Torre è una figura storica forse sottovalutata, alla quale invece bisogna ritornare in Sicilia e in Italia per vedere quale rivoluzione c'è stata con la sua azione e il suo sacrificio». Ha detto il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, davanti alla lapide del dirigente del Pci Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo, in via Vincenzo Li Muli a Palermo. «La Torre riuscì a mettere la parola mafia senza se e senza ma nella legislazione italiana - ha aggiunto - l'uomo che vide e per bene il fenomeno mafioso e ha consentito allo Stato di avere risultati anche se la battaglia è ancora aperta. È il segno di una buona politica, salda sua figura nella battaglia alla mafia e per il lavoro, legalità e lavoro».

 VANNINO CHITI  - «Sono trascorsi trent'anni dall'uccisione, insieme al suo autista Rosario Di Salvo, di Pio La Torre, segretario regionale del Pci della Sicilia. Dopo tanto tempo le sue battaglie sono quanto mai attuali: il suo coraggio deve essere d'esempio per tutti noi nel contrasto alla criminalità organizzata e nella difesa della democrazia e della legalità». È quanto afferma il Vice Presidente del Senato, Vannino Chiti. «Grazie all'impegno di Pio La Torre -prosegue Chiti- la lotta alla mafia si avvale di uno strumento che ha dato negli anni importanti risultati: fu lui a ispirare la legge che prevedeva la confisca dei beni ai mafiosi e che venne approvata dopo la sua morte. Promuovere la cultura della giustizia e della solidarietà è un dovere di chi ha responsabilità pubbliche perchè solo perseguendo l'isolamento e la sconfitta delle mafie possiamo onorare la memoria di persone di grande valore come Pio La Torre».

ANTONIO DI PIETRO  - “Il modo migliore per ricordare Pio La Torre e Rosario Di Salvo è impegnarsi ogni giorno per cancellare la mafia dalla vita di questo Paese». Lo scrive su Twitter il presidente dell'IdV, Antonio Di Pietro, celebrando il trentennale della morte di Pio La Torre, ucciso dalla mafia insieme a Rosario Di Salvo il 30 aprile del 1982 a Palermo.

SONIA ALFANO - A 30 anni dall'uccisione di Pio La Torre, la Presidente della Commissione Antimafia Europea, Sonia Alfano, ricorda «l'impegno e il sacrificio del segretario regionale del Partito Comunista e del suo autista, Rosario Di Salvo». «Sono passati tre decenni dalla morte di La Torre, ma il suo ricordo e la sua memoria sono ancora il faro della lotta contro la mafia. - afferma - Che l'attacco ai beni mafiosi fosse la chiave di volta a livello globale, lo aveva capito prima di tutti». «Oggi, in suo onore e in onore di tutte le vittime innocenti della mafia, - prosegue - insieme con la prima Commissione Antimafia Europea che presiedo, mi batterò affinché il suo esempio e le sue regole diventino realtà anche negli altri Paesi membri, dove la lotta alla mafia ha ancora bisogno di un cambio di marcia».

GIUSEPPE LUMIA - «Pio La Torre capì che la prima questione politica per promuovere la crescita e lo sviluppo della Sicilia e del Paese era il contrasto alla mafia, che controllava l'economia e condizionava la politica». Lo dichiara il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione antimafia, che ha partecipato a Palermo alla cerimonia di commemorazione del segretario regionale del Pci Pio La Torre e del suo autista ed amico Rosario Di Salvo, uccisi dalla mafia a Palermo il 30 aprile del 1982. «Il trentesimo anniversario dell'assassinio di Pio La Torre - aggiunge Lumia - sia l'occasione per tutti di riscoprire i valori autentici della politica nell'esempio di un grande uomo, sindacalista e politico che ha speso la sua vita per l'affermazione dei diritti e delle libertà dei cittadini, contro l'oppressione ed il condizionamento mafioso».


WALTER VELTRONI - «L'uccisione trent'anni fa di Pio La Torre per mano di mafia segnò uno dei punti più terribili della nostra storia. Allora però iniziò una reazione forte, capace di mobilitare coscienze e di imporre leggi necessarie a combattere la criminalità organizzata». Lo afferma Walter Veltroni del Pd. «Ricordare Pio -aggiunge- non è solo un dovere civile, ma deve essere anche uno sprone e un monito a fare della lotta alla mafia e in difesa della legalità un dovere condiviso da tutti. Con lui ho avuto un rapporto di ammirazione e di amicizia, ricordo il suo impegno così totale e coinvolgente, la sua trascinante carica umana, le sue battaglie in Sicilia. Per questo, quando l'amministrazione di destra di Comiso decise di togliere il suo nome all'aeroporto della città andai in piazza a parlare a migliaia di cittadini per ricordarlo contro chi voleva cancellare la sua memoria». «Siamo in una fase difficile per il Paese, una fase in cui la politica è chiamata ad essere di esempio ai cittadini: ecco, Pio La Torre questa funzione di esempio l'ha svolta pienamente, anche rischiando, anche alzando la voce», conclude.

lunedì 23 aprile 2012

CHIESTI TRE ERGASTOLI PER L'ASSASSINIO DI ATTILIO ROMANO'

Tre condanne all'ergastolo sono state chieste oggi dal pm Stefania Castaldi per i tre imputati ritenuti responsabili dell'omicidio di Attilio Romanò, vittima innocente della faida di Scampia ucciso nella zona di Capodimonte il 24 gennaio 2005. Il processo è in corso davanti alla III corte d'assise, presidente Carlo Spagna, a latere Salvatore Dovere. Autore materiale dell'omicidio è considerato Mario Buono, mandanti i fratelli Cosimo e Marco Di Lauro. Vittima predestinata dell'agguato era Salvatore Luise, nipote del boss degli scissionisti Rosario Pariante. Il killer però non lo conosceva e sparò a Romanò, l'unica persona presente in quel momento nel negozio di telefonia gestito da Luise. Alla richiesta si sono associati gli avvocati di parte civile, tra cui figurano la regione Campania e il Comune di Napoli. Il 30 aprile discuteranno gli avvocati della difesa, per il 2 maggio è attesa la sentenza. (Fonte ANSA).

lunedì 16 aprile 2012

STRAGE PIAZZA DELLA LOGGIA, IL GOVERNO PAGHERA' LE SPESE DEL PROCESSO

Il governo ha messo fine alla beffa per i familiari delle vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia.   Le spese del processo saranno a carico dello Stato. E' stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano a spingere sul governo. Non ha voluto che si ripetesse la beffa del processo di Piazza Fontana nel 2004 quando i familiari delle vittime furono condannati al pagamento delle spese processuali dopo l'assoluzione del gruppo ordinovista veneto. Questa volta lo stesso gruppo è stato assolto per la strage di Piazza Della Loggia, del maggio 1974, ma Mario Monti, d'intesa con il capo dello Stato Giorgio Napolitano,interviene e dispone che le spese processuali siano a carico del governo. Una decisione-simbolo, visto che la cifra non sarà ingente, ma che invia un preciso messaggio: chi cerca verità non può pagare per questa sua richiesta, sempre valida anche a 38 anni dallo scoppio che seminò morte a Brescia. «Il Consiglio dei ministri, su proposta del presidente Monti, ha preso la decisione di assumere a carico del governo le spese processuali derivanti dalla conclusione del procedimento per la strage di Piazza della Loggia», annuncia un comunicato in serata. Il presidente Monti «aveva concordato la decisione con il Presidente della Repubblica». «Considerando che la presidenza del Consiglio si era costituita parte civile, deve ritenersi che la condanna in solido delle parti civili al pagamento delle spese sia sostenuta legittimamente dal solo Stato, anche in virtù della vigente legislazione sulla tutela delle vittime del terrorismo». «Infatti, in base alla legge 3 agosto 2004, n. 206, e alla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 luglio 2007, le vittime e i familiari di eventi stragisti beneficiano dell'assistenza processuale pubblica in ogni procedimento giurisdizionale».

Già sabato, dopo la nuova assoluzione per gli imputati, erano state molte le richieste di intervento: si era chiesto anche un decreto legge da parte dell'ex sindaco della città, Paolo Corsini. Walter Veltroni aveva proposto che i partiti pagassero unitariamente le spese. Oggi il comune di Bologna aveva offerto un contributo in un coro di interventi e proposte. Poi la decisione presa dal Consiglio dei Ministri. Anche una risposta diretta alle amare parole di Manlio Milani, che Presiede l'associazione dei familiari delle vittime: «Una beffa, è ridicolo, permettetemi di dirlo, che in questi processi che sono contro anche due uomini che rappresentavano lo Stato, si debbano anche pagare le spese processuali». Il riferimento è al generale dei carabinieri, Francesco Delfino e all'ex parlamentare missino Pino Rauti. Delfino, allora capitano a Brescia si occupò dell'inchiesta «e - ha detto Milani dopo la sentenza - l'esito di queste ore è anche il risultato di come sono state condotte le prime indagini. Queste persone non si sono mai fatte vedere in un'aula in in tre anni di processo. Dovevano avere il rispetto per il ruolo istituzionale che hanno ricoperto e per le vittime di questa strage».

sabato 14 aprile 2012

GIUSEPPE SALVIA, VICEDIRETTORE DEL CARCERE DI POGGIOREALE, UCCISO 31 ANNI FA PERCHE’ EBBE IL CORAGGIO DI DIRE NO A CUTOLO


Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, è tra i pochi ad aver affrontato faccia a faccia il boss Raffaele Cutolo. Lo ha fatto da servitore dello Stato e per questo ha dato la vita.

La storia che segue è pubblicata nel mio libro: "Al di là della notte". Ed. Tullio Pironti

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«Dottò, Cutolo non si vuole far perquisire. Cosa dobbiamo fare? Sa, noi abbiamo famiglia…». Giuseppe Salvia, che del carcere di Poggioreale era il vicedirettore, non ci pensò due volte. Uscì dal suo ufficio e fece ciò che prevedeva il regolamento: la perquisizione dei detenuti che rientravano in carcere dopo aver partecipato ad un’udienza processuale. Tra le facce incredule degli agenti di polizia del carcere, cominciò lui stesso la perquisizione del boss Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. Era il 7 novembre del 1980. Quel giorno Cutolo rientrava da una delle udienze sul processo alla Nuova Camorra Organizzata. Non si aspettava il gesto di Giuseppe Salvia.


 
Per lui era una sorta di sfida. Quel gesto metteva in discussione la sua autorità di boss davanti a tutti. Cutolo ebbe anche un moto di stizza e cercò di dargli uno schiaffo. Giuseppe Salvia, che era vicedirettore del carcere di Poggioreale dal 1973, conosceva i codici non scritti della malavita. Lui che il carcere aveva tentato di renderlo anche più umano, sapeva bene che quella perquisizione poteva costargli cara. Era conscio dello spessore criminale di quel detenuto, ma sentiva forte il dovere di riaffermare il potere dello Stato. E, infatti, fu la condanna a morte. Nei dodici mesi precedenti nelle carceri italiane c’erano stati ben dodici omicidi. La sera del 23 novembre 1980, quando arrivò una forte scossa di terremoto che sconvolse i comuni dell’Irpinia e della Basilicata, a Poggioreale avvenne una carneficina. Giuseppe Salvia quella sera del terremoto si recò al carcere a piedi, dopo aver messo al sicuro la sua famiglia. Tornò a casa dopo due giorni, perché volle prima assicurare una condizione di migliore vivibilità per i detenuti.


 
«Mio padre sapeva bene a cosa andava incontro», dice Claudio Salvia, il secondo figlio di Giuseppe, «ci furono anche svariati tentativi di corruzione, soldi fatti trovare in ufficio e telefonate minatorie, ma lui, imperterrito, ha scelto la legalità e la fedeltà per lo Stato. Lo stesso Stato che lo ha lasciato solo. Papà chiese anche al Ministero di essere trasferito perché ormai aveva capito bene che era diventato un personaggio scomodo. Il trasferimento arrivò qualche giorno dopo l’uccisione. Papà era anche sul “libro nero” delle Brigate Rosse. Questo libro venne rinvenuto in un blitz dei carabinieri e vicino al suo nome c’era il modello della sua auto con la targa (era una Fiat 128 di colore blu). Ovviamente l’auto venne fatta sparire e fu sostituita da una Ritmo».


La sua sentenza di morte, però, non tardò ad essere eseguita. Giuseppe Salvia fu ammazzato il 14 aprile del 1981 da un commando di sei uomini legati a Cutolo, sulla tangenziale di Napoli, allo svincolo dell’Arenella, mentre tornava a casa. Quel giorno il vicedirettore esce alle quattordici dal carcere. Un’ora prima del suo consueto fine turno. Sale sulla sua Fiat Ritmo e si avvia verso casa, nel quartiere dell’Arenella, dove lo sta aspettando sua moglie, Giuseppina Troianiello, trentatré anni, che aveva sposato nel luglio del 1975. Dal loro matrimonio erano nati due bambini, Antonino e Claudio, che all’epoca avevano cinque e tre anni. A casa, Giuseppe Salvia non ci arriverà mai. Fuori dal carcere i killer aspettano solo che parta. Lo seguono con due auto. Quella su cui sono i killer che lo uccideranno è una Giulietta. Giuseppe Salvia si accorge di quell’auto che lo segue e sulla tangenziale, vicino al viadotto dell’uscita dell’Arenella, improvvisa una retromarcia cercando di tamponare la Giulietta. Ma la manovra per bloccarli non riesce. Scende dall’auto e tenta di scappare. Sarà inutile. I killer scendono e sparano. Il vicedirettore di Poggioreale muore sul colpo proprio al centro delle tre corsie della tangenziale. L’auto dei killer verrà ritrovata poco dopo in una strada della zona del Vomero.



La moglie, Pina, insegnante di educazione fisica nelle scuole superiori, ai funerali dirà: «Mi hanno tolto tutto. E lo hanno tolto anche ai miei figli». Ai due figli, Pina non dirà subito la verità. Dirà che il padre aveva avuto un incidente. Gli parlerà dell’omicidio solo dopo alcuni anni. Quando saranno più grandicelli e in grado di capire che tipo di persona era il loro papà. «Dovete essere fieri di lui, perché credeva nel suo lavoro ed è morto perché era dalla parte della legalità». Al suo funerale arriveranno sessantotto corone di fiori. Le invieranno i detenuti come segno di ringraziamento nei confronti di una persona che anche in una istituzione così violenta come il carcere non aveva perso la sua umanità. Giuseppe Salvia considerava i detenuti delle persone come tutti gli altri e non carne da macello. Per l’omicidio del vicedirettore del carcere di Poggioreale vengono condannati all’ergastolo Raffaele Cutolo e la sorella Rosetta, insieme con altri due imputati, Carmine Argentato e Mario Iafulli. I giudici, inoltre, condanneranno a ventiquattro anni di reclusione Mario Incarnato, a cui vengono concesse le attenuanti generiche per la collaborazione fornita agli inquirenti, e a quattordici anni Roberto Cutolo, figlio del boss di Ottaviano.


Giuseppe Salvia era nato a Capri il 23 gennaio 1943, nella casa paterna di Palazzo Canale, secondogenito dopo la sorella Immacolata. A Capri fece le scuole dell’obbligo. Il padre Antonino e la madre Amalia D’Anchise decisero successivamente di avviarlo agli studi classici e così lo indirizzarono dai padri Barnabiti, presso il convitto Bianchi. Poi, la laurea in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli Federico II.


Dice Antonino, oggi funzionario dello stesso Ministero del padre: “Mio padre era una persona che contrastava le ingiustizie. Una persona con la schiena dritta, un vero servitore dello Stato. Credeva nella possibilità di rieducare i detenuti e perciò nel suo lavoro ha sempre fatto prevalere l’aspetto umano nel rapporto con i carcerati. Ho trovato delle cose scritte di suo pugno. Riflessioni sul mondo carcerario. Riflessioni che anche dopo molti anni sono attualissime. Papà pensava che una grande percentuale di detenuti sono solo delle persone sfortunate che da ragazzi non hanno avuto le migliori opportunità per vivere una vita diversa. Quanto mi è mancato? Le occasioni in cui ho avvertito la sua assenza ci sono state, ma non ho mai sentito la mancanza di qualcosa rispetto agli altri né ho cercato altrove un simile punto di riferimento. Ricordo con grande serenità il periodo della scuola elementare, media e superiore. Sono stati anni in cui mia madre non ha risparmiato le forze per far sì che io e mio fratello Claudio svolgessimo un regolare corso di studi e partecipassimo anche agli impegni extra scolastici, come gite, sport, i compleanni con i compagni di scuola. Ogni giorno mi rendo sempre più conto dell’immane sforzo che ha fatto mia madre. Un vero atto d’amore che l’ha portata anche alla scelta di non rifarsi una vita per dedicarsi completamente a noi figli. Mio padre mi è mancato soprattutto nei miei momenti importanti: il giorno della laurea, l’abilitazione all’esame di avvocato, il primo giorno di lavoro nella sua stessa Amministrazione… il matrimonio. Gli studi in giurisprudenza per me hanno avuto un significato speciale. Apprendere i principi giuridici fondamentali del nostro ordinamento, idealmente, mi ha avvicinato molto a mio padre perché durante gli anni universitari ho capito il senso della sua vita, del suo gesto (mi riferisco a quello di impedire favoritismi tra i detenuti ristretti nel carcere da lui diretto) e ciò in cui credeva. Ed ho anche capito perché, poi, non si è voluto tirare indietro rispetto alla scelta fatta (cioè quella di essere un ostacolo al malaffare all’interno delle mura carcerarie) affrontando con coraggio finanche uno come Cutolo. Barattare la propria vita piegandosi alle minacce ricevute significava, comunque, «morire dentro», perdere la dignità di uomo e di rappresentante dello Stato, quale lui si sentiva. Questo diceva a mia madre. Mi è bastato sapere il perché della sua morte per orientare la mia esistenza al senso di giustizia e legalità che, in concreto, non significa solo plasmare il proprio comportamento in conformità con le norme dello Stato ma anche avversare attivamente quelle situazioni illegali e vessatorie che altri tentano di imporci. Ho maturato e convertito il dolore della sua morte in qualcosa di positivo, anche da mettere a disposizione degli altri.


A Giuseppe Salvia è stata conferita dallo Stato la medaglia d’oro al valore civile.

TUTTI ASSOLTI PER LA STRAGE DI BRESCIA. MA, COME SCRIVEVA PASOLINI, "IO SO CHI SONO I MANDANTI E I COLPEVOLI. MA NON HO LE PROVE..."


Tutti assolti per la strage di Brescia del 28 maggio 1974. Dopo 38 anni non si conoscono i colpevoli e neppure i mandanti della strage che fece 8 morti e 108 feriti. Un copione oramai  noto perché  comune anche ad altri episodi del genere. Ecco perché in questo paese è ancora difficile una pacificazione tra le parti sociali. Sin quando si farà di tutto per nascondere episodi oscuri che ci sono stati nel nostro paese, coprendo colpevoli e mandanti delle stragi, non sarà mai possibile una pacificazione piena.

E ritornano alla mente le parole di uno scritto di Pier Paolo Pasolini: “Io so”

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Eppure questo era il quarto processo per accertare i fatti di quella tragica mattina di trentotto anni fa quando una bomba, nascosta in un cestino di piazza della Loggia, scoppiò durante una manifestazione sindacale. La Corte d'assise d'appello di Brescia ha assolto Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e il generale dei carabinieri Francesco Delfino nel IV processo per la strage di Piazza della Loggia, avvenuta nel 1974. In primo grado, il 16 novembre 2010, i 4 erano stati assolti con formula dubitativa.

Nei confronti del quinto imputato del processo di primo grado, Pino Rauti, anch'egli assolto, non era stato presentato ricorso da parte della Procura ma solamente da due parti civili. Uno dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile con la conseguente disposizione del pagamento delle spese processuali a carico delle parti civili.


venerdì 13 aprile 2012

CONDANNATI A SOLI VENT'ANNI I KILLER DELLA GUARDIA GIURATA GAETANO MONTANINO


Vergognosa sentenza per i killer di Gaetano Montanino, la guardia giurata di 45 anni che la sera del 4 agosto 2009 fu uccisa in piazza mercato a Napoli. La sentenza di appello ha confermato la condanna a soli vent’anni di carcere per i due killer, Davide Cella e Salvatore Panepinto. Gaetano, dipendente dell’istituto “La vigilante” quella sera di agosto era in auto, in piazza mercato, con il suo collega Fabio De Rosa, di 25 anni. Stavano facendo il giro per il controllo delle attività commerciali. La zona era quasi deserta e tutto sembrava in ordine quando due si avvicinano a bordo di uno scooter, con i volti coperti dai caschi. Intimano alle due guardie giurate di  consegnare le pistole. Altri due complici sono un po’ più lontano. De Rosa viene subito disarmato. Montanino reagisce. Ne nasce un conflitto a fuoco. Gaetano ha la peggio. Viene raggiunto da otto colpi di pistola. Anche il suo collega viene ferito, ma se la caverà dopo il ricovero al Loreto Mare. Nello stesso ospedale si fa ricoverare anche un dei killer, Davide Cella, anch’egli ferito nella sparatoria. Sarà determinante la ricostruzione dei fatti che farà Fabio De Rosa, la guardia ferita, che consentirà agli agenti della Questura di Napoli di far  arrestare Davide Cella in ospedale. Ma saranno determinanti anche le dichiarazioni di Vincenzo De Feo, uno dei partecipanti al raid e subito diventato collaboratore di giustizia. Le sue dichiarazioni consentiranno l’arresto di Salvatore Panepinto.

STRAGE PIAZZA DELLA LOGGIA: SENTENZA D'APPELLO ATTESA PER DOMANI FAMIGLIARI VITTIME CHIEDONO VERITÀ DA 38 ANNI

E' attesa per domani la sentenza per la strage di Piazza della Loggia a Brescia, avvenuta il 28 maggio del 1974, durante una manifestazione sindacale.  Quella che dovrebbe essere pronunciata domani dai giudici della Corte d'assise d'appello è una sentenza che Brescia e l'Italia aspettano da quasi 38 anni. Siamo ormai al quarto processo. Era la mattina del 28 maggio del 1974 quando una bomba esplose nella centralissima piazza bresciana, cuore civico e politico della Leonessa, mentre era in corso una manifestazione sindacale. L'ordigno ferì mortalmente otto persone e lasciò sul selciato oltre cento feriti. Una strage che, ad oggi, è ufficialmente senza autori. Il processo di primo grado in Corte d'assise si era concluso il 16 novembre 2010 con l'assoluzione con formula dubitativa dei cinque imputati. Per quattro di quei cinque la pubblica accusa ha chiesto l'ergastolo. Si tratta di Francesco Delfino, all'epoca comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Brescia; degli appartenenti a Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi; di Maurizio Tramonte, ex informatore dei servizi segreti. Ormai chiara la tesi dell'accusa: la strage di piazza Loggia è stata pianificata e attuata da frange venete dell'estrema destra eversiva insieme ai servizi segreti deviati. La parola, ora, passa alla Corte.

MEDAGLIA D’ORO AL MERITO CIVILE ASSEGNATA DA NAPOLITANO A PIO LA TORRE E A ROSARIO DI SALVO


Una medaglia d’oro al merito civile è stata assegnata ieri mattina dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Pio La Torre, il sindacalista e deputato del Pci, e al suo autista, Rosario Di salvo, trucidati dalla mafia il 30 aprile 1982. Il Capo dello Stato, accompagnato dal presidente della Camera Gianfranco Fini, ha sostato di fronte alla targa dedicata a La Torre nell'atrio d'ingresso del Palazzo di Montecitorio. Quindi si è recato nella Sala della Lupa per presenziare ad un convegno sull'eredità di La Torre nella lotta alla mafia. «L'omicidio di Pio La Torre - ricorda il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso, è stato un delitto politico mafioso, con connotazioni terroristiche e intimidatorie, come riconosciuto anche durante il processo. Si è uccisa una persona che ha cercato di incidere senza subire la pressione dei gruppi mafioso: un elemento di innovazione nelle realtà siciliana che rischiava di mettere in pericolo gli interessi mafiosi».

L'attività parlamentare del segretario del PCI siciliano, ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile 1982 assieme al suo collaboratore Rosario Di Salvo, cui di deve la proposta di legge, approvata 4 mesi dopo la sua morte per introdurre il reato di associazione mafiosa e prevedere la confisca dei beni dei mafiosi; gli atti del processo che ha portato alla condanna di 9 boss per l'agguato, ma anche quelli di altri delitti di mafia, da quello di Peppino Impastati a quello di Rocco Chinnici, e gli atti della Commissione parlamentare antimafia, sono raccolti in un archivio dedicato alla sua memoria. L'archivio, promosso dalle presidenze di Camera e Senato, dalla Commissione Antimafia e dalla Fondazione Camera dei deputati, è stato presentato alla Camera. In occasione della cerimonia il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che ha consegnato le medaglie d'oro al merito civile al figlio di La Torre, Franco, e alla vedova di Di Salvo, Rosa Casanova. Alla cerimonia hanno partecipato tre gli altri, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, le ministre del Lavoro, Elsa Fornero, e dell'Interno, Anna Maria Cancellieri. Il presidente della Fondazione Camera, Fausto Bertinotti, e quello della Commissione Antimafia, Beppe Pisanu, il procuratore Grasso, e don Luigi Ciotti, che con Libera ha raccolto l'eredità politica di La Torre. Un comunicato del Quirinale ha reso noto anche le motivazioni alla base della Medaglia d’oro conferita a La torre  e Di Salvo.

Pio La Torre: «Esponente politico fortemente impegnato della lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso, promotore della coraggiosa legge che ha determinato una innovativa strategia di contrasto alla mafia, mentre era a bordo di una vettura guidata da un collaboratore, veniva proditoriamente fatto oggetto di numerosi colpi di arma da fuoco da parte di sicari mafiosi, perdendo tragicamente la vita nel vile agguato. Fulgido esempio di elevatissime virtù civiche e di rigore morale fondato sui più alti valori sociali spinti fino all'estremo sacrificio».

Rosario di Salvo: «Collaboratore di un noto esponente politico impegnato nella lotta alla criminalità mafiosa, mentre lo accompagnava alla guida di un'auto, rimaneva vittima di un vile agguato e veniva raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco indirizzatigli da sicari mafiosi perdendo tragicamente la vita nel tentativo di reagire. Nobile esempio di coraggio e di spirito di servizio». Le Medaglie d'Oro - prosegue il comunicato - sono state consegnate dal Capo dello Stato, insieme al Ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri, a Filippo La Torre, figlio del deputato assassinato, e a Rosa Casanova, vedova di Rosario di Salvo, in occasione dell'incontro «Pio La Torre 30 anni dopo» promosso dalla Fondazione della Camera dei deputati a Palazzo Montecitorio.

giovedì 5 aprile 2012

NOVE ANNI FA MORIVA PAOLINO AVELLA


Paolino aveva ancora tutta la vita davanti. Ma è riuscito a viverne solo un piccolo pezzo. Il 5 aprile del 2003, a San Sebastiano al Vesuvio, Paolino Avella, scappa da due rapinatori che vogliono rapinargli il motorino, un piaggio liberty del padre, sul quale viaggiava dopo l’uscita da scuola.   La sua vita è finita contro un palo mentre i due delinquenti lo inseguivano. Dopo sette giorni avrebbe compiuto 18 anni.  Frequentava il  liceo scientifico Salvatore Di Giacomo. Ai suoi funerali parteciparono oltre duemila persone, in maggioranza giovani.  "Che il sacrificio di Paolino non sia stato vano: il bene prevarrà sul male, ma tutti noi dobbiamo ritornare alla preghiera e riprendere i valori della generosità e della famiglia": con queste parole don Silverio Mura, parroco della chiesa della Santissima Annunziata di Pollena Trocchia, ricorderà il ragazzo. In famiglia gli avevano preparato una festa particolare per i suoi 18 anni:  doveva festeggiarli insieme alla nonna che arrivava alle nozze d’oro. Ma per Paolino quella festa non c’è più stata. Nel nome di Paolino è nata “l'Associazione Onlus Paolino Avella” che, sviluppa percorsi di legalità rivolti a giovani studenti. Lo vogliamo ricordare con affetto e con un abbraccio al  papà, Alfredo, e alla mamma Rosaria Perrotta.

martedì 3 aprile 2012

RICORDATE VITTIME STRAGE DI PIZZOLUNGO

«Impegnarci di più, tutti. Questo è il miglior modo di fare memoria». Lo ha detto ieri il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, intervenendo  a Pizzolungo per ricordare le vittime innocenti della strage compiuta 27 anni fa, quando un'autobomba dilaniò Barbara Rizzo Asta, 34 anni, e i due figlioletti gemelli, Giuseppe e Salvatore, di 6 anni. L'attentato era diretto al sostituto procuratore Carlo Palermo, rimasto illeso. «Quì, sulla lapida che ricorda Barbara, Giuseppe e Salvatore - ha aggiunto don Ciotti - c'è scritto che attendono il riscatto dei siciliani. Io dico di tutti gli italiani perchè la mafia è un problema nazionale e non solo della Sicilia». Margherita Asta, figlia e sorella delle vittime, ha ricordato che sul luogo della strage, anni fa, c'era chi voleva realizzare uno stabilimento balneare. Oggi, per fortuna, c'è un parco della memoria«.

DON PUGLISI BEATO PERCHE' MARTIRE DELLA CHIESA

 Per la beatificazione di don Pino Puglisi la causa canonica dovrebbe tenere conto che è morto da «martire» della fede. Lo afferma il cardinale Gianfranco Ravasi a Radio vaticana. Il processo canonico per il sacerdote ucciso 18 anni fa ha concluso la fase diocesana ed è approdato in Vaticano. Il riconoscimento del martirio subito in odio alla fede renderebbe non necessario il riconoscimento di un miracolo attribuito alla intercessione di don Puglisi. Nella intervista alla emittente pontificia, - a conclusione della tappa siciliana del «Cortile dei Gentili», l'iniziativa per il dialogo con i non credenti affidata dal Papa al coordinamento del card. Ravasi - il porporato afferma che «la causa. La mafia non è una cultura alternativa, ma è un'anti-cultura, non è una forma di cristianità un pò particolare - devozionale - ma è un'anti-cristianità ed è per questo motivo che io direi, che una figura come don Pino Puglisi, può rappresentare - quando entrerà nella beatificazione - il martirio per la fede: è stato ucciso da sedicenti cristiani, ma egli è morto per testimoniare una fede che è completamente alternativa rispetto alla mafia».