domenica 5 giugno 2016

CASAL DI PRINCIPE - UNA LAPIDE CON I NOMI DI 35 VITTIME INNOCENTI DELLA CAMORRA

Una lapide con i nomi di 35 vittime innocenti di camorra nella piazza principale di Casal di Principe.  “Un monito contro la dittatura militare della camorra degli ultimi trent’anni”. Ha detto il sindaco della città, Renato Natale che ha scoperto la lapide insieme al procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti, al Prefetto di Caserta, Arturo De Felice e a Salvatore Di Bona, rappresentante dei familiari delle vittime.  Centinaia di persone hanno assistito alla cerimonia in Piazza Mercato, a pochi passi dal Comune, dove hanno partecipato numerosi bambini delle scuole materne ed elementari di Casale per celebrare il 70 anniversario della nascita della Repubblica e la conclusione  del progetto ‘La Costituzione Non solo carta’, promosso dall’assessore alla Cultura Marisa Diana, dall'Arma dei Carabinieri della città, e dall'associazione "Diamo voce all'Arte", presieduta da Alfonso Letizia. Tra gli artisti che hanno collaborato alla riuscita della manifestazione, Maria Vittoria Nuccio e Davide Maisto. All'iniziativa hanno collaborato anche tutte le scuole di ogni ordine e grado di Casal di Principe.

“L’ultimo nome  in fondo all’elenco è quello del poliziotto Roberto Mancini, morto di tumore, riconosciuto vittima dell’inquinamento – ha precisato il sindaco Natale –anche lui è vittima della camorra, come centinaia di altri nostri concittadini morti di tumore. Sulla lapide ci sono solo i nomi delle vittime riconosciute ufficialmente. Ne mancano ancora molte, li aggiungeremo”.

Il sindaco Renato Natale con il procuratore
Dna Franco Roberti e il prefetto Arturo De Felice
“Questa manifestazione è anche l’occasione per dire che la costituzione non è solo un pezzo di carta – ha detto il Procuratore Antimafia, Franco Roberti -  La costituzione è materia viva, è il fondamento della nostra democrazia. E’ la ragione stessa del nostro voler stare insieme anche contro tutte le difficoltà, tutte le malefatte delle mafie. La democrazia è una conquista che deve essere difesa. Continuiamo a difenderla” Roberti, ha poi parlato delle scarcerazioni di boss che  hanno finito di scontare la pena: “Alla Direzione Nazionale Antimafia  abbiamo un sistema che tiene sotto controllo le scarcerazioni dei mafiosi e le comunica alle procure distrettuali competenti. Ma il pericolo c’è sempre. Molti  criminali, quando escono dal carcere, anche dopo lunghi periodi di detenzione, sono ancora giovani e in grado di riorganizzare le file dei clan. Cercano di rimettersi in gioco nel mondo del crimine. Perciò ci vuole uno sforzo particolare. Non bisogna perderli di vista.

 C’è il rischio  di un ritorno al passato finché non cambiano le condizioni socio economiche di un territorio. A Casal di Principe vedo la voglia di riscatto dei cittadini, molto è cambiato, ma se non si attuano quei progetti per il  rilancio sociale, culturale economico e soprattutto, non si avvia il superamento del degrado urbano, le strutture, gli insediamenti produttivi, cioè’ tutto quello che salva un territorio, è chiaro che prima o  poi si riprodurranno le condizioni che vedranno nuovi soggetti criminali cercare di riannodare le file con  il passato”.


“Questa piazza parla da sola – ha detto il prefetto di Caserta, Arturo De Felice -  Queste iniziative così partecipate servono. L’importante è che non siano solo riconducibili alla piazza, ma al quotidiano, ai luoghi di lavoro, nella scuola, nella famiglia. Sono convinto che Casal di Principe sarò trainante in questa rinascita della provincia di Caserta” 

Ha fatto capolino anche uno striscione di protesta contro la chiusura del posto di polizia di Casal di Principe. Ma è stato lo stesso Questore di Caserta, Francesco Messina,  ad assicurare che “il presidio non solo non chiuderà, ma sarà rinforzato nella presenza di uomini e mezzi”.


“A Casal di Principe vogliamo guardare avanti – ha concluso il sindaco Natale -  Ma lo dobbiamo fare ricordando cosa è stata per questi luoghi la dittatura militare della camorra, perché è sempre pronta a tornare e sempre pronta a portare sangue e lutti in queste terre.  Dobbiamo tenere la guardia alta e continuare a camminare decisi sulla strada intrapresa”.

mercoledì 21 ottobre 2015

RICORDATO A TAURASI CIRIACO DI ROMA, IL POLIZIOTTO UCCISO DAI NAR IL 21 OTTOBRE 1981

Ciriaco di Roma
E' stato ricordato stamattina nella chiesa del Rosario di Taurasi, l'agente di Polizia Ciriaco di Roma, ucciso dai Nar ad Acilia il 21 ottobre del 1981, insieme al capo della Digos di Roma, il capitano Francesco Straullu. Alla cerimonia, promossa dal Comune di Taurasi, hanno partecipato i  familiari dell'agente Di Roma (il padre Vincenzo, la sorella Carmelina e il fratello Antonio), le associazioni dei finanzieri, dei poliziotti e carabinieri

La cerimonia è stata introdotta dal parroco, don Nicolino Di Stasio e dal vice sindaco Gerardo Mario Picariello a cui sono seguiti gli interventi della dirigente scolastica dell'Istituto comprensivo  "Teobaldo Caggiano", Antonella De Donno e del vice questore di Avellino,Vincenzo Massimo Modeo. 


Un momento della cerimonia
Gli alunni dell'Istituto Comprensivo "Teobaldo Caggiano", hanno letto  testi e recitato poesie in ricordo di Ciriaco di Roma. 

Al termine della cerimonia in chiesa, la famiglia Di Roma, ha consegnato un piccolo dono in danaro ad ogni classe dell'istituto comprensivo, come avviene da più di trent'anni.  Un corteo si è poi diretto al monumento che ricorda Ciriaco di Roma, per deporre  una corona di alloro.

Qui di seguito, alcuni stralci della storia di Ciriaco di Roma tratta dal mio libro "Come nuvole nere" edito da Melampo

Ponte Ladrone è uno dei viadotti più antichi di Roma. Si trova a nord di Acilia, sulla via Ostiense. A metà strada fra Roma e il Lido di Ostia, a poco più di quindici chilometri dalla capitale. Lo chiamano “Ponte Ladrone” perché qui i delinquenti dell’antichità aspettavano i viandanti per derubarli dei loro averi. Chissà quanta gente è rimasta uccisa nel corso dei secoli, colta di sorpresa, mentre passava da queste parti. È un posto strategico per tendere imboscate proprio per la sua conformazione. In quel tratto la strada si restringe e consente alle auto di transitare una alla volta ad andatura poco sostenuta. Per arrivarci da Acilia, si passa attraverso un breve tunnel. Superato il quale, si entra in aperta campagna dove all’improvviso si aprono davanti al viaggiatore distese di campi coltivati, prati e pascoli sui quali le greggi sembrano disegnare paesaggi che trasmettono sensazioni di tranquillità o che evocano scenari pittoreschi da oltre 2000 anni. Di fronte c’è uno spiazzo per sostare, attendere e anche confondersi, per chi vuole.

La mattina del 21 ottobre 1981, Ciriaco Di Roma, un agente di Ps in servizio alla Digos di Roma, quella strada la percorre due volte. Dalla caserma del Prenestino fino alla borgata di Casal Bernocchi e poi al ritorno, verso Roma. Si reca a casa del capitano Francesco Straullu, il nuovo capo della Digos della capitale. Straullu, un nuorese di 27 anni, è sposato da poco con una ragazza isolana, che ha la sua stessa età. Non hanno ancora bambini. Abitano a Casal Bernocchi, un quartiere di 60mila abitanti alla periferia di Roma, che è anche roccaforte di attivissimi gruppi neofascisti. Gli stessi che la Digos mette sotto i riflettori per cercare di bloccare sul nascere cellule militari che ammazzano ignari cittadini o esponenti delle forze dell’ordine. Il giovane capitano è diventato capo della Digos, suo malgrado, dopo che Alfredo Lazzarini, il suo superiore, è stato destituito dal Viminale per aver detto che nelle inchieste sul terrorismo nero c’era invischiato anche un tenente dei carabinieri.

 Ciriaco, che gli amici chiamano Ciro, ha 30 anni. Tre in più del suo capitano. Hanno sempre lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. Si fidano ciecamente l’uno dell’altro. Ciriaco è originario di Taurasi, in provincia di Avellino e non è sposato. Da un po’ di tempo convive con una ragazza siciliana, Carmelina Biondi, trent’anni come lui. La sera, quando è di servizio, però, dorme in caserma, al commissariato del Prenestino. Esattamente come ha fatto la sera precedente di quel 21 ottobre (...)


(...) Ciriaco è il primo dei tre figli. È del il 20 agosto del 1951, si interessava di tutto in casa. Antonio tre anni in meno, è dell’aprile 1958, voleva fare il farmacista, ma poi si è arruolato in Finanza. Carmelina, che ha studiato al liceo classico, ha dieci anni in meno di Ciriaco, è nata a dicembre del 1960. Ha un marito e un figlio. È già sposata, nonostante abbia solo vent’anni. Ha fatto la classica fujtina. Ora con il figlio e il marito dorme sotto la baracca. Nei due giorni trascorsi a Taurasi, Ciriaco ha si è anche confidato con la sorella, che era preoccupatissima del clima di violenza che si respira nella capitale a causa della presenza dei gruppi di neofascisti. A casa nessuno sa del lavoro delicato che svolge Ciriaco a Roma. Solo Carmelina ne avverte la pericolosità. La contestazione studentesca è arrivata anche da queste parti. Conosce bene il significato della parola terrorismo. “Stai attento Ciriaco. Quelli non scherzano”, gli dice. Il fratello poliziotto cerca di non farla preoccupare. La coccola, la consola. Si rivolge a lei chiamandola “sosò”, un vezzeggiativo di “sorellina”. Per lui è sempre la piccolina della famiglia. La guarda negli occhi e con una carezza fraterna le fa capire che è consapevole del pericolo.

Ciriaco riparte per Roma il pomeriggio di martedì 20 ottobre, ma con il cuore gonfio di preoccupazioni per la sua famiglia che non sta vivendo un bel momento. Avrebbe bisogno di lui a Taurasi. Ma anche a Roma c’è altrettanto bisogno del poliziotto tenace che sa essere.

Il viaggio in auto col capitano prosegue tranquillo. Straullu lo tranquillizza: “Vedrai che un po’ alla volta le cose andranno tutte al loro posto e anche la tua famiglia uscirà dalla precarietà”. Ciriaco ammira molto il capitano, questo sardo tutto d’un pezzo che sa farsi rispettare nonostante la sua giovane età.

Sono passate le nove da qualche minuto. L’auto, la fiat Ritmo rossa, esce dal tunnel per imboccare via Ponte Ladrone. È il tratto dove le auto rallentano la corsa, proprio sotto il ponte della ferrovia Roma-Ostia. Sullo slargo di fronte, ci sono delle auto ferme e alcune persone. Tra loro una donna. Aspettano proprio i due militari: il capitano Franco Straullu e l’agente Ciriaco di Roma. Una vedetta avvisa il gruppo che l’auto con a bordo gli uomini della Digos è in arrivo. Appena la Fiat Ritmo rossa esce dalla galleria, le persone in attesa si allertano. Spuntano fuori delle armi. Sono armi pesanti, armi da guerra. Riescono a sfondare anche i vetri e la carrozzeria di una vettura blindata. Invece l’auto su cui viaggiano i due poliziotti è una semplice Fiat Ritmo. Pochi istanti dopo, i sette, appostati come i ladroni dell’antichità, lanciano due candelotti fumogeni per impedire la visibilità ai poliziotti e cominciano a sparare. L’auto diventa un bersaglio facile. Gli assalitori usano armi con proiettili dagli effetti devastanti, capaci di far saltare in aria l’intera autovettura. Da pochi metri nessuno può sbagliare il tiro. Una pioggia di colpi mortali si scarica sull’auto con dentro Ciriaco di Roma e il capitano Straullu. Sparano con un fucile automatico leggero, in dotazione alle forze Nato e all’esercito italiano (FAL), capace di lanciare proiettili di 10 centimetri. L’altra arma è una mitraglietta M-12, calibro 9 parabellum, che hanno in dotazione i corpi di polizia e quelli di sicurezza, e una pistola 7,65 e Winchester. Il lunotto anteriore della Fiat Ritmo va in mille pezzi. Ciriaco è colto di sorpresa. L’auto sbanda. La gragnuola di colpi investe in pieno i due agenti. Dal lato sinistro arriva un’altra raffica di colpi. Anche il capitano Straullu non ha il tempo di reagire. I colpi invadono l’abitacolo e squarciano i corpi dei poveri agenti. Si conteranno circa 50 colpi, ma tutti micidiali e pesanti. L’auto si mette di traverso la strada mentre sale sopra il marciapiede, sbatte contro una recinzione di ferro. Si ferma. Si accartoccia. Sembra la scena violenta di un film. Invece è tutto vero. È un’azione militare di guerra, ma di una guerra non dichiarata. Nessun colpo è andato a vuoto. Tutti sparati addossi ai due agenti. Neanche l’auto blindata li avrebbe salvati. È un agguato che non lascia scampo. Dentro l’abitacolo i corpi di Ciriaco di Roma e Franco Straullu sono privi di vita (...).

(...) A sparare ai due agenti della Digos, c’erano: Gilberto Cavallini, Alessandro Alibrandi (figlio del magistrato Antonio Alibrandi, giudice istruttore presso il tribunale di Roma) e Francesca Mambro, l’unica donna ammessa nel gruppo di fuoco che aveva già partecipato a numerosi raid armati contro esponenti delle forze dell’ordine. Sarà lei a dare anche il colpo di grazia al capitano Straullu. Un colpo che renderà irriconoscibile il corpo del giovane capitano sardo. L’obiettivo dei terroristi era quello di sfregiarlo, come segno di disprezzo e per compiere una vendetta senza precedenti. Cavallini aveva portato con se una lancia dei nativi americani, proprio come simbolo della vendetta da mettere in atto. Ma la fucilata sparata a bruciapelo in faccia, gli fa saltare la testa. A quel punto lo sfregio è ben visibile. Tanto che il medico legale nell’autopsia scriverà: “La morte di Straullu è stata causata dallo sfracellamento del capo e del massiccio facciale con spappolamento dell’encefalo”. Il corpo del capitano Straullu non riusciranno nemmeno a ricomporlo. I colleghi d’ufficio per confermare che il corpo fosse suo, lo capiranno solo attraverso il tesserino di riconoscimento. Ciriaco di Roma, invece, viene colpito da sette proiettili. Il corpo è ancora integro. Il medico legale accerterà che la sua morte è avvenuta “per la ferita a carico del capo con frattura del cranio e lesioni al cervello”. La sua salma verrà ricomposta ed esposta nella bara durante i funerali. 

mercoledì 18 febbraio 2015

TREDICI ANNI FA VENIVA UCCISO FEDERICO DEL PRETE. IL FIGLIO GENNARO INSIEME A MASSIMILIANO NOVIELLO FONDA START UP PER RICORDARE IL PADRE

GENNARO DEL PRETE
Tredici anni fa la camorra ammazzava a Casal di Principe il sindacalista degli ambulanti, Federico del Prete. Aveva denunciato il racket delle buste di plastica alla fiera settimanale di Mondragone. E per questo venne ucciso.  Ora il figlio Gennaro, insieme a Massimiliano Noviello, figlio di Domenico, altra vittima innocente della criminalità, ucciso dai killer del gruppo di Giuseppe Setola,  fonda una start-up per la distribuzione di buste biodegradabili e compostabili. Una sorta di legge del contrappasso dove Gennaro e Massimiliano, accomunati da un destino infame, provano a scrivere una pagina nuova della loro vita, dando vita ad una cooperativa sociale che porterà avanti questo progetto.
La startup ha già avuto il riconoscimento dell’ASIPS, l’azienda speciale della Camera di Commercio di Caserta e tra pochi giorni verrà costituita davanti ad un notaio la cooperativa sociale che porterà avanti l’iniziativa.
“Per la nostra iniziativa imprenditoriale – dice Gennaro del Prete - Sono già stati stretti accordi con la Novamont, l’azienda che produce materiali biodegradabili, per il supporto alla distribuzione e con diverse Amministrazioni Comunali  per l'utilizzo dei sacchetti per la raccolta delle frazioni organiche delle raccolte differenziate. Credo che faremo sicuramente bene. Inoltre c'è il supporto delle reti antiracket FAI ed SOS Impresa. E’ una idea innovativa, perché le buste che sono in circolazione per l’80 per cento non sono a norma”.

MASSIMILIANO NOVIELLO
La sera del 18 febbraio 2002, Federico del Prete era nel suo piccolo ufficio, in via Baracca. Una stanza a piano terra e con una porta a vetri. Faceva freddo. Circolava poca gente per le strade.  Ai muri dell’ufficio qualche manifesto del sindacato. Una piccola bacheca per gli appuntamenti. E dietro le sue spalle un crocifisso appeso. Fuori l’ufficio una targa con la scritta Snaa, il sindacato dei commercianti ambulanti, i “mercatari”, come si chiamano tra loro. Mancava qualche minuto alle 19,30.  Federico era al telefono. Una telefonata concitata. Il giorno dopo doveva andare a testimoniare in un processo contro un vigile urbano di Mondragone. Federico aveva denunciato il racket delle buste di plastica. E in quel periodo temeva per la sua vita. La porta dell’ufficio non era chiusa. Mentre continuava a parlare al telefono, una persona entrò di botto. Aveva in mano una pistola calibro 7,65. Federico lo guardò. Restò impietrito. Capì che era un killer della camorra. Da qualche settimana aveva cominciato a temere seriamente per la sua vita. Ebbe appena il tempo di rendersi conto di ciò che stava per accadere. Poi, cinque colpi in rapida successione lo colpirono allo stomaco e al torace, lasciandolo per terra, senza vita. Pochi attimi e il killer girò le spalle. Due passi veloci ed era sulla strada. Scappò insieme ai suoi complici. Così moriva Federico del Prete.
  
FEDERICO DEL PRETE
“L’impresa che è nata è frutto anche delle denunce di mio padre  – dice Gennaro del Prete – è un’idea che ho partorito in una notte insonne. La mattina dopo ne ho parlato con Massimiliano Noviello, che conosco da tempo, e con il quale mi accomuna un tragico destino.  Lui ha detto subito di si. Papà sarebbe orgoglioso di questa iniziativa”. 


Federico del Prete verrà ricordato stasera in due diverse iniziative: alle 17 a Frattamaggiore,  nella sala consiliare del Comune del suo paese di origine, per iniziativa del Comune e a Casal di Principe alle ore 18, dove il Comitato don Diana e Libera porteranno dei fiori in via Baracca, sul luogo  dove fu ucciso.

domenica 25 gennaio 2015

UNA SCUOLA INTITOLATA AD ATTILIO ROMANO' A DIECI ANNI DALLA SUA UCCISIONE

IL 24 GENNAIO 2005 ATTILIO ROMANO' VENIVA UCCISO DALLA CAMORRA NEL SUO NEGOZIO DI TELEFONIA A MIANO. VITTIMA DELLA FAIDA DI SCAMPIA TRA IL CLAN DI LAURO E GLI SCISSIONISTI. FU SCAMBIATO PER UN'ALTRA PERSONA.

IL 24 GENNAIO 2015 L'ISTITUTO IPSIA DI MIANO E' STATO INTITOLATO AD ATTILIO ROMANO' ALLA PRESENZA DI DON LUIGI CIOTTI CHE HA COMMOSSO TUTTI CON LE SUE PAROLE, RIVOLGENDOSI INNANZITUTTO AI NUMEROSI STUDENTI PRESENTI E AI FAMILIARI DI ATTILIO, RITA, MARIA E NATALIA:

"“La prima riforma da fare in Italia è un autoriforma: è la riforma delle nostre coscienze. E’ vero che Attilio non c’è più, ma in realtà per noi è ancora vivo, ed è una meraviglia che una scuola porti il suo nome. Nino Caponnetto diceva: La mafia teme più la scuola che la giustizia. L’istruzione toglie l’erba sotto i piedi alla cultura mafiosa. Oggi il nome di Attilio dà un valore in più, dà una bella pedata a questa scuola perché continui ad allenare alla vita, alla responsabilità. Nella consapevolezza che prima di tutto ci sta la dignità umana, non ci sta la legalità, ma la dignità umana. E noi siamo qui nel nome della dignità umana. E allora dobbiamo sentire vivo Attilio. 


Sentiteli vivi i nostri cari, per costruire attorno a noi la vita, perché la camorra sia sconfitta e vinca davvero la vita. E perché vinca la vita c’è bisogno che ognuno si assuma la propria parte di responsabilità. Posso dire che solo una parte della vita di Attilio è stata interrotta dalla violenza camorrista. Attilio continua a vivere degli altri, così come per gli altri ha vissuto. E quel ritratto che emerge dalle sue poesie, dalle parole di chi gli è stato vicino, testimone di una persona sensibile profonda affamata di vita. Auguro a tutti voi ragazzi di affamarvi di vita”.

martedì 23 dicembre 2014

TRENT'ANNI FA LA STRAGE RAPIDO 904 - RICORDATE A NAPOLI LE 16 VITTIME. DON CIOTTI: "UNA DEMOCRAZIA MALATA"

A trent'anni dalla strage del Rapido 904, una cerimonia commemorativa, come avviene tutti gli anni,  si è tenuta presso la stazione di Napoli da dove partì quel treno in cui morirono 16 persone.  Una corona di fiori è stata deposta al binario 11 della stazione Garibaldi  da dove a mezzogiorno del 23 dicembre 1984,  il treno  si avviò verso Milano ma senza mai arrivarci. Rosaria Manzo, presidente dell'associazione vittime del Rapido 904, ha ricordato che «ancora oggi attendiamo la verità dalle aule dei tribunali. Tutti noi - ha aggiunto - lottiamo per i nostri diritti, con l'orgoglio di chi chiede rispetto e di chi ha come obiettivo la ricerca della verità». La prossima udienza del processo in corso a Firenze è fissata - come riferito - il 13 gennaio 2015. «Non ci fermeremo - ha proseguito Rosaria - davanti al nome dell'esecutore o del mandante, vogliamo sapere il perché e se c'è stato un groviglio tra politica, mafie, camorra e movimenti eversivi di destra e di sinistra. Vogliamo - ha proseguito - la chiarezza, il Paese tutto ha bisogno di una sentenza definitiva che sancisca la certezza del diritto». La cerimonia è stata preceduta dalla consegna, da parte del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, di medaglie della città ai familiari delle 16 vittime napoletane che persero la vita a bordo del Rapido 904. Alla commemorazione, tra gli altri, hanno partecipato l'assessore regionale Pasquale Sommese, rappresentanti istituzionali dei Comuni di Somma Vesuviana e di Ischia, il questore di Napoli Marino, la Fondazione Polis, il Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità e il presidente di Libero don Luigi Ciotti.

«Serve una grande rivoluzione culturale che costringa lo Stato ad aprire quelle stanze in cui sono nascoste tante verità»,  ha detto il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. Una giornata, quella di oggi, che - ha sottolineato il sindaco - «non è solo di ricordo e di memoria, ma anche momento per chiedere a chi deve di ricercare verità e giustizia perché - ha aggiunto - uno Stato che ha paura della verità non è forte e non è democratico».  in Italia  - Ha ricordato il sindaco di Napoli - sono «troppi i fatti per cui ancora oggi non c'è giustizia e in cui si intrecciano politica, mafie e movimenti eversivi. Napoli - ha concluso de Magistris - ha un grande cuore e vuole lottare per la giustizia, per dare speranza a chi stenta ad avere fiducia nelle istituzioni e per cacciare chi all'interno dello Stato si è macchiato di collusione e di sangue»


«In Italia c'è una democrazia malata e un pò pallida perchè non è possibile che non si conosca la verità su alcuna strage». ha tuonato, il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, dal palco eretto sotto la stazione Garibaldi a Napoli.   In Italia il 75 per cento delle stragi avvenute è ancora senza verità: «La verità - ha proseguito - è la condizione della democrazia anche se nella nostra Costituzione questa parola, verità, manca e allora - ha aggiunto - la scriviamo noi nelle nostre coscienze». Una parola 'verita« che - ha sottolineato il presidente e fondatore di Libera - »è scomoda per gli assassini e per chi in tutti questi anni ha coperto i motivi delle tante stragi impunite e che attendono giustizia«. Ma, da don Ciotti, è venuto anche un invito a tutti "all' impegno a cui la memoria ci sfida perchè non dobbiamo solo commuoverci, ma dobbiamo muoverci tutti di più per cercare la verità che è il miglior modo per rendere vivi i morti". 

mercoledì 17 dicembre 2014

MENA MORLANDO, LA RAGAZZA CHE BALLAVA DI DOMENICA. DA 34 ANNI SENZA GIUSTIZIA

La storia è tratta dal mio libro “Come Nuvole Nere” – Melampo editore


“Mena, scendi tu a portare questi panni in lavanderia? Però, mi raccomando, chiedi se vengono pronti entro un paio di giorni”. Pia è la mamma di Mena Morlando; maestra elementare e madre di quattro figli, ha altro da fare e da pensare a pochi giorni dal Natale. È il 17 dicembre del 1980. Sono appena passate le 18,30 e sta preparando la cena per la famiglia, quando la figlia afferra il sacchetto con i panni e si avvia. La lavanderia è ad appena un centinaio di metri dalla casa dei Morlando, un’abitazione in via Monte Sion, quasi al centro di Giugliano, il più popoloso dei comuni a nord di Napoli. Mena ha 25 anni, ed è l’unica figlia femmina. Come sua madre e sua nonna, d’altronde. Si è diplomata all’istituto Magistrale da qualche anno e sta studiando per partecipare al concorso per l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Vuole diventare insegnante come sua madre e come sua nonna. Per il momento fa un po’ di supplenze nelle scuole private, in attesa di poter lavorare di più. Studia quasi tutti i giorni per superare il concorso e per entrare in ruolo. Va a lezioni private: la mamma l’ha affidata a una sua collega. La ragazza non vuole perdere l’occasione che può dare una svolta alla sua vita. Per il resto, è una donna normalissima, come altre della sua età. Aspetta di trovare un ragazzo che le voglia bene per poi sposarsi. Il corredo già ce l’ha. Pia, la mamma, ha cominciato a prepararglielo sin da quando Mena era piccola. Comprava un po’ alla volta delle lenzuola, biancheria, pentole per la cucina. Nelle famiglie napoletane il corredo è una tradizione che si tramanda da sempre, al pari del casatiello e della pastiera. Quando una ragazza si sposa, non può mancare. E sono soprattutto le mamme a mantenere questa tradizione, quando in casa c’è una figlia femmina. Non è che i figli maschi non contino, ma tra donne si stabilisce un rapporto diverso.

Mena ama la musica, canta spesso le canzoni degli anni Settanta e aspetta con ansia la domenica: con i fratelli ha adibito una casa sfitta di proprietà della famiglia a luogo di ritrovo per gli amici, dove ci si incontra per ballare nei giorni di festa. Cinquanta lire a testa per comprare patatine, aranciate e coca-cola e si balla fino all’ora di cena. Insomma un posto per dare avvio a qualche flirt tra ragazzi. La provincia non offre molto di più. “Mamma allora io vado”. Mena scende le scale e sul portone incrocia il terzo dei suoi fratelli, Francesco. Sta tornando da Napoli, dove ha sostenuto un esame all’università. Ha cinque anni in meno di lei ed è iscritto a Medicina. “Dove stai andando?”, chiede Francesco alla sorella. “Vado in lavanderia”, risponde lei mostrando il sacchetto. Mena si allontana di alcune decine di metri. Percorre il vicoletto che dalla casa dei Morlando porta alla chiesa di Sant’Anna in poco meno di un minuto. Sta pensando al giorno di Natale, forse riuscirà a organizzare una festa con gli altri ragazzi per ballare e stare insieme.

All’improvviso ha un soprassalto: sente sparare, sembrano mortaretti. I ragazzi in questo periodo ne sparano a bizzeffe. Ma lei non si è abituata, le fanno sempre un certo effetto. Stavolta, però, Mena si sbaglia, non sono mortaretti, è proprio una sparatoria. La ragazza non ha il tempo di accorgersi di niente, sente solo urlare da una parte all’altra della strada. Si trova tra due fuochi senza capire il perché. Vorrebbe mettersi in salvo, ma non fa in tempo a scappare: viene colpita da un proiettile calibro 9 dietro il collo, dal basso verso l’alto. Il proiettile esce dalla fronte, il sangue schizza ovunque. Brandelli di carne esplodono tutt’intorno. Mena cade a terra mentre il sangue comincia a sgorgare dalla fronte e dal collo. Muore all’istante portando con sé i suoi sogni. Niente più concorso. Niente più ragazzo. Niente più matrimonio. Niente balli. Niente amici. La vita di Mena Morlando si chiude una settimana prima del Natale del 1980.


Francesco Morlando
“Sono stato l’ultimo a parlare con mia sorella Mena – Francesco Morlando, il fratello, non ha dimenticato nulla di quella sera – e ancora oggi non riesco a capacitarmi di come possa essere accaduto. Era irreale allora e mi sembra tuttora impossibile, la sua morte. Avevo parcheggiato l’auto, il tempo di salire in casa, attraversare la cucina, la sala da pranzo e posare la borsa coi libri sulla mia scrivania e ho sentito un trambusto provenire da fuori, pensavo fossero i soliti botti che anticipano le feste, dato che era quasi Natale. Ma sentivo anche voci concitate. Mi sono affacciato al balcone e a una decina di metri ho visto che alcune persone accompagnavano mio fratello Marco, sostenendolo per le braccia. Ho fatto il percorso a ritroso passando per la cucina. ‘Cosa c’è. Cosa sta accadendo?’, chiedeva mamma. ‘Niente, stai tranquilla. Scendo io un attimo a vedere’. Non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo visto. Sono sceso e sono andato incontro a mio fratello. Ma è stato lui a precedere le mie domande: ‘Mena è morta. L’hanno uccisa’. ‘Ma cosa dici? L’hanno uccisa?’. 

Ricordo che cercavo di raggiungere il posto dov’era il corpo di Mena, correvo verso il cancello della chiesa, venti metri più avanti, ma alcune persone mi impedirono di procedere. Qualcuno aveva già coperto il corpo con un lenzuolo. Non riuscivo a crederci, l’avevo lasciata pochi attimi prima, il tempo di fare cinquanta metri a piedi ed era stata uccisa, un minuto dopo. Sono tornato indietro perché nel frattempo mia mamma era scesa in strada. Sono riuscito a bloccarla per non farla andare sul posto, ma lei aveva capito che era accaduto qualcosa di grave. Non so come ho fatto a trovare la forza di dirle che il corpo di Mena era a terra senza vita. Sembrava tutto così assurdo... Poi ho pensato a papà. Era dal medico e lo studio del medico era cento metri più avanti rispetto al luogo dove avevano ucciso mia sorella: per tornare a casa sarebbe passato da lì. Allora ho pregato un mio amico d’infanzia di andare a prenderlo con una scusa e accompagnarlo a casa facendo un percorso un po’ più lungo, senza passare dal luogo della sparatoria. Nel giro di un quarto d’ora tutta la famiglia era riunita a casa, incredula di quanto accaduto. A volte mi sono chiesto: se l’avessi trattenuta a parlare per qualche altro minuto, forse lei non si sarebbe trovata al centro di una sparatoria tra gruppi camorristici rivali. Tutti dubbi e domande che forse non hanno un senso, ma che da quella sera ho sempre nella mia mente”.


La famiglia Morlando fino a quel momento ha vissuto nella normalità più assoluta, senza grandi problemi, se non quelli quotidiani di tutte le famiglie. La mamma di Mena, Pia Franchini, è originaria di San Leucio, una frazione di Caserta, discende da un ramo della famiglia Landi, proprietaria di un’antica seteria. Insegna a Giugliano, nella scuola elementare che si trova proprio al centro di piazza Gramsci. Gli ultimi dieci anni li ha fatti nella città dove abita. Il papà di Mena, Gennaro, è impiegato alle Poste e lavora nella sede di Giugliano. Mena è la prima figlia, nata nel 1955. Poi, un anno dopo, arriva Marco. Francesco, il terzo fratello, è del 1960 e Angelo, l’ultimo dei figli, nasce esattamente dieci anni dopo Mena, nel 1965. “Ci chiudemmo in casa – ha gli occhi tristi Francesco mentre continua il drammatico racconto – poi dopo un’ora arrivò la Polizia a perquisire l’abitazione, trattandoci quasi come criminali. Perquisirono la stanza dove Mena dormiva, che era la stanza di tutti noi fratelli. C’era l’angolo dove Mena aveva le sue cose: libri, peluche, diari. Non dissero niente, fu una cosa senza alcun garbo. Ci sentivamo violentati, non capivano il nostro dolore. Il giorno dopo i giornali parlarono di delitto passionale. 

E Mena diventò ‘la maestrina’. Un appellativo che autorizzava a pensare di tutto su mia sorella. Accennarono anche a un tentativo di suicidio di Mena avvenuto anni prima, ma tutt’altro che vero. Come non erano veri i motivi addotti dai giornali alla base dell’assassinio di mia sorella. Sul quotidiano Il Mattino era scritto che era stato proprio il camorrista Francesco Bidognetti a sparare a mia sorella. Forse era ferito e scappava. Non so se sia vera la notizia che qualcuno si sia fatto scudo con il corpo di Mena, perché la dinamica dei fatti nessuno mai ce l’ha riferita. Forse non la conoscono nemmeno gli inquirenti. O forse è nelle relazioni allegate all’istruttoria del giudice istruttore Felice Di Persia. Ma non è mai trapelata all’esterno. Abbiamo appreso alcune notizie solo a mezzo stampa e osservando il corpo di Mena quando è stata tumulata”. “Ci vuole poco a infangare la memoria e la reputazione di una persona – fa Francesco – basta un giornalista poco affidabile. Il Mattino inviò un corrispondente da Napoli perché quel giorno non c’era quello locale. Noi tentammo di far passare la verità sui giornali facendo scrivere degli articoli di rettifica. Ma il danno era fatto”.

“Poi Mena, non essendo una persona nota, è caduta nel dimenticatoio. Ogni tanto compariva qualche trafiletto, magari dicevano ‘arrestato tizio, implicato nell’omicidio della maestrina di Giugliano’. Ma non abbiamo mai avuto notizie dirette e non credo che ci sia stata la reale volontà di indagare sulla nostra tragedia, sulla sua morte è caduto l’oblio. Quegli articoli ferirono i miei genitori e tutta la nostra famiglia, è come se, dopo morta, Mena l’avessero uccisa un’altra volta. Le hanno tolto anche la dignità. Una violenza inaudita, che abbiamo dovuto sopportare per anni. In realtà – afferma Francesco – la sparatoria era un regolamento di conti tra Francesco Bidognetti, boss emergente della camorra casalese in soggiorno obbligato a Giugliano, e vecchi esponenti della Nuova Camorra Organizzata, come Battista Marano, che era legato al clan Mallardo, affiliati al boss Raffaele Cutolo.

E Mena si era trovata per puro caso in mezzo a una sparatoria tra bande di camorra rivali. Al commissariato lavorava il mio ex suocero e mi diceva sempre: ‘Sicuramente non è un delitto passionale, ma non si sa com’è accaduto’. Solo mesi dopo fummo convocati dal giudice istruttore, Felice Di Persia, che però non ci chiese nulla. A papà disse solo: ‘In un eventuale giudizio voi volete costituirvi parte civile?’. Papà rispose di sì. E questo è l’unico nostro contatto con la giustizia”. “Una cosa che ogni tanto penso che vorrei fare, è quella di scrivere a Francesco Bidognetti, il boss dei casalesi. Non so se devo passare attraverso il ministero della Giustizia, ma lo farò. Se fosse in un carcere qui vicino, sarei anche disposto ad andare a trovarlo per farmi dire la verità su quella sera. Ma senza spirito di odio o di vendetta. Anche se mi dicesse: ‘Guarda, ho sparato io. È stata una sventura, una disgrazia, s’è trovata lì...’. Insomma, vorrei quella verità che non ho mai saputo. Dopo trent’anni l’accetterei con assoluta serenità”.

Dopo i funerali di mia sorella iniziò una vita triste. Tra dicembre e aprile sono dimagrito di trentasei chili, stavo chiuso in una stanza tutto il giorno, non mangiavo e non uscivo. Dal giorno dopo la morte di Mena, sono sempre tornato a casa alle sei di sera. Sapevo che
in casa c’erano due persone la cui vita si era fermata lì. I miei genitori si trascinavano avanti stancamente: aspettavano il giorno per la notte, la sera per la mattina, per loro la vita non aveva più senso. Nel successivo mese di giugno, mia mamma ebbe un ictus, che la costrinse su una sedia a rotelle. Le fu data la pensione anticipata, a soli 55 anni. Ricordo ancora la diagnosi: ‘emorragia extra cerebrale in zona subaracnoidea’. All’inizio era lucida e così tentammo con la fisioterapia di recuperare la sua autonomia. Lei si impegnava, ma quando capì che non sarebbe tornata come prima, si lasciò andare; è rimasta in quelle condizioni per dieci anni. Il sorriso spento sulle labbra”.

“Tre figli maschi e una donna disabile su una sedia a rotelle: una situazione davvero triste e diffi cile. Ci siamo ritrovati io e mio fratello Marco a lavare mia mamma che, come tutte le donne, era gelosa del proprio corpo e della propria intimità, ci teneva alla discrezione, soprattutto nei confronti dei figli. In quelle condizioni si sentiva ulteriormente umiliata perché noi la dovevamo accudire. Si sentiva violata, senza dignità”.

“Ogni Natale la nostra tragedia si rinnovava. Già dal 15 dicembre in poi, a casa nostra c’era un clima pesante. Natale è il momento in cui le famiglie si riuniscono, stanno insieme, ma quel posto vuoto a tavola, il posto di Mena, non potevi nasconderlo. Da allora il Natale non l’ho più avvertito come una festa. Mia mamma è deceduta nel 1990, a 65 anni. A papà dopo un anno dalla morte di Mena fu diagnosticata una cirrosi epatica; era anche diabetico, ogni due-tre mesi c’era bisogno di trasfusioni di sangue, e all’epoca non era facile trovarne. Così sono diventato donatore. Papà aveva 56 anni, un anno in più di mia madre. Erano entrambi ancora giovani, si potevano godere un altro pezzo della loro vita. Invece non è andata così”. “Andavo al cimitero tutti i fi ne settimana, lì abbiamo una cappella di famiglia. Per me era una gioia andarci, non una sofferenza. Andavo sereno, da solo. Mi chiudevo dentro e parlavo ad alta voce. Ancora adesso lo faccio, è come andare a trovare qualcuno in ospedale che però sta bene e non sta morendo. Io parlo normalmente con mia sorella”.

“La cosa che mi ha ferito di più in questi anni, non è stata tanto non conoscere la verità dei fatti, quanto quegli articoli di giornale che parlavano di delitto passionale: la dignità tolta a mia sorella è la cosa che non ho mai accettato. E soprattutto mi ha dato fastidio il fatto che sia stata dimenticata da tutti. Io ho odiato questo paese, sono scomparso da Giugliano per vent’anni. Ho sempre detto ai miei fi gli: ‘Andate via da qui perché questa è una terra maledetta’. C’è stata omertà da parte di persone che hanno assistito all’omicidio di mia sorella e non hanno voluto mai parlare. Capisco la paura, ma qualcuno poteva inviare anche una lettera anonima, invece niente. Passavo da Giugliano solo per andare al cimitero la domenica. 

Poi sono tornato, e nel 2003 ho aperto lo studio nella casa dove avevo abitato con i miei genitori. Ho impiegato trent’anni per cercare di dare dignità a questa ragazza che troppe persone ricordavano ancora come la ragazza uccisa per motivi passionali. Ho cominciato a pormi questo problema tra il 1997 e il 1998, e dicevo tra me: ‘Come è possibile che mia sorella non debba avere la sua dignità?’. Nonostante il dolore, qualcosa mi spingeva a percorrere questa strada. Le persone intorno mi dicevano: ‘Ma chi te lo fa fare. Vai solo ad aprire una ferita’. Ma io sentivo dentro di me che bisognava aprire un varco nella memoria, per ricordare Mena Morlando. Ho fatto questa battaglia in silenzio, da solo, ed è stata dura, perché Mena non è stata una vittima eccellente, la sua morte non ha colpito l’opinione pubblica”.

giovedì 9 ottobre 2014

IL LIBRO DEL VESCOVO NOGARO: "DON PEPPINO DIANA IL MARTIRE DI QUESTA TERRA"

“Don Peppino Diana è il martire di questa terra”. Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, scandisce bene le parole dal pulpito della chiesa del Buon Pastore, in piazza Pitesti, in un incontro promosso dal parroco don Antonello Giannotti, per presentare l’ultimo libro del vescovo: “Peppino Diana, il martire di Terra di Lavoro” (edizioni il pozzo di Giacobbe). Ad ascoltarlo quasi un migliaio di persone, venute apposta per lui, per sentire le parole del vescovo degli immigrati, di colui che  si è sempre opposto a tutte le guerre italiane mascherate da missioni di pace. Ma sono venuti, soprattutto, per sentire  le parole del vescovo che ha difeso don Peppino Diana anche nei momenti difficili, quando titoli di giornali tentavano di infangare la memoria di don Diana, ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994. Nogaro è restio a parlare, come sempre. Si alzano tutti in piedi per acclamarlo. Lui, come un bambino emozionato, stenta a trovare le parole: “Vorrei far arrivare a papa Francesco queste parole.  Con il martirio di don Peppino, il Sud non è come prima.   A vent’anni dalla morte don Diana è sempre più amato dal popolo. La sua morte dà un nome di gloria a tutti gli umiliati della storia, a tutti coloro che hanno “fame e sete di giustizia” e vengono perseguitati”.


A parlare del libro anche Adele Vairo, dirigente del Liceo Manzoni di Caserta; Pietro Rocco, direttore della pastorale diocesana e la cugina di don Diana, Marisa, attuale vice sindaco a Casal di Principe, nella giunta guidata da Renato Natale. “Ringrazio a nome della famiglia monsignor Nogaro, che è stato l’unico a difendere don Diana, mentre tutta la chiesa arretrava”. Ha detto Marisa Diana. E’ stato poi  il professor Sergio Tanzarella, che ha curato la prefazione del libro,  a rivelare che nel 1991 quando fu pubblicato il documento “Per amore del mio popolo”, firmato oltre che da don Diana, dagli altri parroci della Foranìa “I preti furono ripetutamente “invitati” a ritirare la firma da quel documento. Ma voi pensate che siano stati i camorristi a fare quell’invito? No furono i colletti bianchi di Casal di Principe, San Cipriano, Casapesenna. Architetti, ingegneri, commercialisti, avvocati che ritenevano fosse una vergogna un documento del genere, perché a quei tempi si continuava a dire che la camorra non esisteva”.

“Don Diana è il padre e il martire  di Terra di Lavoro e nessuno potrà mettere a tacere la sua testimonianza. Don Diana è il “crocifisso” che fa risorgere le nostre terre”. Ha chiosato infine Nogaro che si batte da tempo perché la chiesa riconosca don Peppino anche ufficialmente come un martire e dunque per beatificarlo. Ma ci tiene a precisare: “Per me, e per chi l’ha conosciuto, don Diana è già Beato”.