martedì 24 gennaio 2012

ATTILIO ROMANO', AMMAZZATO PERCHE' SCAMBIATO PER UN'ALTRA PERSONA

Attilio Romanò non c’è più dal 24 gennaio 2005. Fu ammazzato senza pietà perché scambiato un’altra persona. Oggi pomeriggio alle 18,30, gli amici di Attilio e i familiari lo ricordano con una messa  nella parrocchia SS. Maria dell’Arco a Miano (NA).

Il testo che segue è tratto dal mio libro “La Bestia”, ed. Melampo

(...) Quel lunedì 24 gennaio 2005, i sogni di una giovane moglie morirono dietro un bancone di un negozio di telefonia, poco lontano dal quartiere di Scampìa, dove la vita negli ultimi anni vale quanto  poche dosi di cocaina. Erano quasi le 13,00 quando un killer del “clan Di Lauro” entrò nel negozio, che Attilio aveva voluto aprire con un suo amico, in via Napoli Capodimonte, a Secondigliano. Zona calda in quel periodo per una guerra di camorra in atto tra le bande dei “Di Lauro” e gli avversari, i cosiddetti “Scissionisti”, ex appartenenti al clan Di Lauro, che avevano abbandonato l’organizzazione camorristica, dando vita ad un altro clan. Alcuni di essi dopo la “scissione” si erano rifugiati in Spagna per evitare le ritorsioni minacciate dai figli dei Di Lauro, che li avevano accusati di essersi impossessati di somme di danaro dell’organizzazione. Perciò venivano chiamati anche “gli Spagnoli”. I due gruppi si contendevano il controllo delle piazze di spaccio della droga, all’interno del medesimo territorio, tra Secondigliano e Scampìa. Le roccaforti degli scissionisti erano concentrate alla "Vele" e presso lo "Chalet Baku" di Scampia. Mentre i Di Lauro controllavano il cosiddetto "Rione Terzo Mondo", sempre a Scampìa. L’ordine che i Di Lauro avevano dato ai loro sicari era quello di sparare a vista. Ammazzare senza pietà. Gli scissionisti si  nascondevano e colpivano alla prima occasione, con la stessa determinazione e ferocia.

 Quando entrò il killer, Attilio era al computer dietro la scrivania. Si alzò per chiedere al cliente cosa volesse. La risposta furono quattro colpi sparati a bruciapelo con una pistola, da una distanza di non più di mezzo metro. Tre colpi mirati al capo. Il quarto, mentre cadeva, entrò nella spalla destra. Attilio sgranò gli occhi. Non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa gli stesse accadendo. Si piegò prima su se stesso e poi stramazzò al suolo. Un rivolo di sangue cominciò a scorrere per terra. La morte fu immediata.

 Era stato scambiato per il suo socio che aveva una lontana parentela, ma nessun legame affaristico, con  Rosario Pariante,  esponente del clan degli "scissionisti" di Scampìa. Attilio, che era anche “team leader” della Wind, era rimasto vittima di un’assurda vendetta trasversale. Senza una ragione, senza uno scopo, senza un motivo plausibile. Il killer sparì immediatamente, così com’era arrivato. Forse aveva un complice che lo aspettava in auto. Forse era arrivato con una motocicletta di grossa cilindrata. Nessun testimone. Nessuno vede niente. Nessuno ode niente. Il killer è inghiottito dal traffico caotico che in via Napoli Capodimonte scorre sempre intenso, come l’acqua di un fiume in piena.

“Quando mi telefonò mia cognata Maria per avvertirmi di quello che era accaduto – racconta la moglie, Natalia -  io ero al lavoro ad Orta di Atella, dove insegno in una scuola elementare. I bambini erano in mensa perché era orario di pranzo. Pensai  subito ad una rapina. C’erano già stati episodi violenti in quella zona. Erano state uccise diverse persone, ma  non avrei mai potuto pensare ad una cosa del genere, perché Attilio non aveva nulla a che spartire con queste storie di camorra. L’avranno ferito. Fu la cosa più grave che riuscii a immaginare in quel momento. Tornai in classe, chiamai una collega e le dissi che era successo qualcosa a mio marito e dovevo andare via. Telefonai a mio padre che non sapeva niente. “Papà è successo qualcosa ad Attilio”. “Cosa”? “Non lo so. Mi devi accompagnare, perché io non so se ce la faccio a guidare”. “Va bene. Ma stai calma. Stai tranquilla per strada che ci sarò io ad aspettarti  appena arrivi a casa”. Mentre ero per strada, mi telefonarono i miei padrini di nozze. Mi chiesero: “Nata, ma cosa è successo ad Attilio?”. “Non lo so, non lo so. Sto andando là”. Ma ebbi l’impressione che loro sapessero e non me lo volessero dire.” Poi ancora una telefonata. Era un altro amico che cercò di dirmi la verità, ma non ci riuscì. Io gli domandavo: “Ma Attilio dove sta?” E lui farfugliava solo: “Eeeeh..., Nata..., Nata…” Ma sta in ospedale? “No..., No..., non sta in ospedale...”. E allora cominciai a gridare, perché temevo il peggio: “Ma mi volete dire dove sta?” Strillavo forte al telefono. Ma quel mio amico altro non riuscì a dire o, forse, non ebbe il coraggio di comunicarmi quella terribile notizia. Mio padre mi stava aspettando sotto casa, a Lusciano, alla periferia sud di Aversa, in uno dei quartieri residenziali sorti negli ultimi anni. Grandi spazi, ma senz’anima.  Anche se sono costruzioni nuove, danno al paesaggio un senso di desolazione e di tristezza. Da lontano assomigliano a padiglioni di carceri. Abitavamo lì perché avevamo trovato una soluzione sia logistica che economica che faceva al caso nostro. Arrivai presto, perché per strada correvo più che potevo. Posai la mia macchina e salii su quella di mio padre. Eravamo quasi fuori al negozio di mio marito, al termine della superstrada dove si sale anche al Cardarelli, quando mi telefonò nuovamente mia cognata Maria. “Nata, noi siamo arrivati al Cardarelli. Ma qui non c’è.” “E dove sta?” “Sta al negozio”. In quel momento mi si gelò il sangue nelle vene. Capìi che non era stato ferito, ma che poteva essere stato ucciso, perché se fosse stato ferito lo avrebbero portato sicuramente in  ospedale.  Poco dopo arrivammo al negozio e da lontano vidi un sacco di gente. Una folla enorme. Ma nonostante tanta gente, c’era un silenzio impressionante. Tutto il traffico fermo. Le auto non potevano circolare. La gente era in silenzio. Le serrande del negozio erano abbassate. Tutto intorno transennato. C’erano già i carabinieri che avevano bloccato l’accesso. Scesi di corsa dalla macchina e mi precipitai verso il negozio. In quel momento mi sentivo le gambe tremare. Il cuore mi batteva forte. Erano solo pochi metri,  e ci volevano pochi attimi per percorrerli di corsa. Ma mi  balenarono tante di quelle cose nella testa che speravo ancora di vedere quello che oramai era impossibile vedere. Tra me e me dicevo solo: “Non è vero, non può essere vero, magari non è Attilio. Magari avranno capito male tutti quanti”. Fui bloccata dai carabinieri. Mi dimenavo con tutte le mie forze,  come una forsennata, perché volevo entrare. Piangevo, urlavo: “Lasciatemi vedere il mio Attilio, lo voglio abbracciare” Me lo volevo baciare, stringere a me, sporcarmi del suo sangue. Non mi fregava niente. Ma mi impedirono di vederlo. Non vollero farmi entrare. Riuscii a scorgere solo le sue gambe da fuori.”

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