La storia è tratta dal mio libro "al di là della notte", Ed. Tullio Pironti
Antonio Cristiano stava smontando dal servizio. Aveva fatto due turni consecutivi, rimanendo ininterrottamente nell’infermeria del carcere di Poggioreale dalle due del pomeriggio del 1° dicembre fino alle otto di mattina del giorno dopo. Aveva ventisette anni e un fisico atletico, tanto da potersi permettere di lavorare con un turno così lungo. Faceva l’agente di custodia da sette anni. Prima di essere trasferito a Poggioreale aveva lavorato nel carcere di San Vittore e poi in quello di Foggia. Era sposato da poco più di un anno. A casa, ad Aversa, l’aspettava sua moglie Filomena D’Alessandro, “Mena”, incinta di otto mesi. Doveva partorire una bella bambina, e con i turni di notte e un po’ di straordinario Antonio pensava di avere meno problemi economici quando la famiglia sarebbe cresciuta. Con lui, quella mattina del 2 dicembre del 1983, smontava dal servizio anche Aniello De Cicco, suo amico, di un anno più grande. Erano stati a Foggia insieme e ora anche nel carcere di Poggioreale. Aniello aveva finito il turno la sera prima, ma aveva dormito nel carcere.
Abitava a Trentola Ducenta. Poco dopo le otto e trenta si erano avviati con la Fiat 126 di Antonio verso casa. Da Poggioreale, salendo per corso Malta e la Doganella, poi Secondigliano, il centro di Melito, passando per le colonne di Giugliano e poi, finalmente a casa. Ma quella mattina il destino di Antonio Cristiano e Aniello De Cicco, era segnato. «Il mio superiore», racconta Aniello De Cicco, rovistando nei ricordi di quella mattina di ventisette anni fa, «mi aveva chiesto di fare un altro turno nel pomeriggio. Così, dopo aver completato il turno della notte, decisi di andare a casa per poi ritornare nel pomeriggio. Incrociai Antonio che, come me, aveva appena smontato. Gli chiesi un passaggio. Eravamo compaesani. Tutti e due originari di Trentola Ducenta. Ci conoscevamo bene. Era il periodo natalizio e il corso di Secondigliano e quello di Melito erano già addobbati a festa. La festa mette di buon umore e noi quella mattina lo eravamo, nonostante la stanchezza per la notte appena trascorsa».
La Fiat 126 guidata da Antonio Cristiano procedeva lenta verso casa. Aveva da poco superato Secondigliano, si era immessa sul corso di Melito e il semaforo rosso, quello quasi fuori le colonne di Giugliano, li obbliga a fermarsi. Erano quasi le nove e venti. Da dietro sopraggiunge una Fiat Panda rossa con due persone a bordo. Affianca la Fiat 126. Improvvisamente la persona vicina al conducente estrae la pistola e comincia a sparare. Sono killer della camorra. Contro i due agenti di custodia furono sparati otto colpi di pistola, calibro 7,65. Due proiettili colpirono Antonio Cristiano, altri due colpirono De Cicco, e quattro non raggiunsero alcun bersaglio. Antonio Cristiano fu colpito al cuore. De Cicco, invece, fu colpito da un proiettile sotto la clavicola sinistra interessando anche la regione mammellare destra. Un altro entrò ed usci dal lato superiore di una gamba. Le sue condizioni apparvero gravissime. L’auto dei sicari fuggì in direzione di Aversa. Le indagini sull’agguato, condotte dal capitano De Santis della Compagnia dei carabinieri di Giugliano, ricostruirono subito l’accaduto, anche grazie alla testimonianza di Aniello De Cicco.
«Era il 2 dicembre», riprende a raccontare Aniello De Cicco, «e appena sentii i colpi, pensai fossero mortaretti. Dalle nostri parti nel periodo natalizio è facile imbattersi in ragazzi che sparano tracchi. “Non è ancora presto per cominciare con i botti di Natale?”, dissi rivolto ad Antonio. Ma non finii nemmeno la frase che Antonio si accasciò prima sullo sterzo e poi mi cadde addosso. Vidi il sangue. Capii che ci stavano sparando. Ero armato e istintivamente estrassi la pistola dalla fondina. Stavo per rispondere al fuoco, quando il mio braccio si afflosciò su se stesso. Mi avevano colpito alla spalla ma non sentii nessun dolore particolare. Antonio mi cadde addosso e mi fece abbassare col corpo. Alcuni colpi mi passarono sulla testa. Non so come, ma ebbi la forza di alzarmi, di uscire dall’auto con il sangue che mi scorreva dappertutto. Impugnavo ancora la pistola nonostante non avessi la forza di alzare il braccio e di sparare. Fermai un automobilista alla guida di un Fiorino. Con il suo aiuto tirammo Antonio dalla Fiat 126 e lo caricammo sul suo furgoncino. A tutta velocità ci dirigemmo al pronto soccorso dell’ospedale di Aversa. Antonio era ancora vivo. Respirava, emetteva rantoli. A me zampillava il sangue dalla spalla. Un proiettile mi aveva fatto danni enormi. Per fortuna al pronto soccorso un infermiere mi diede dei punti di sutura. Furono la mia salvezza, perché bloccarono l’emorragia di sangue. Mi trasferirono a Caserta. Ma a Caserta non mi ricoverarono. Mi trasferirono nuovamente. Stavolta al Cardarelli di Napoli. Ci arrivai con l’ambulanza attorno alle quattordici.
L’agguato fu rivendicato nello stesso pomeriggio del 2 dicembre 1983, al centralino del quotidiano «Il Mattino», da una persona che disse di parlare a nome dell’Oca (Organizzazione camorrista armata). «Abbiamo ammazzato una guardia carceraria ad Aversa per gli abusi subiti nei carceri e nei supercarceri specialmente nel braccetto della morte. Seguiranno altri comunicati». Una telefonata ritenuta attendibile dagli investigatori, perché già in passato questa sigla, riconducibile ai gruppi camorristici vicini alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, aveva rivendicato altri omicidi dove era stata utilizzata la stessa tecnica omicida. Nei mesi precedenti erano già stati uccisi diversi agenti di custodia che non si erano piegati alle minacce dei camorristi. Era in atto un’offensiva della criminalità contro gli agenti di custodia che facevano il loro dovere. Il sottosegretario alla giustizia, Antonio Carpino, nel rispondere ad una interrogazione del deputato del Pci Granati Caruso sulla vicenda di Antonio e Aniello, il 10 aprile del 1984, in Commissione Giustizia alla camera dei Deputati, affermò: «Non risulta che il Cristiano e il De Cicco o i loro familiari siano stati in precedenza oggetto di intimidazioni o minacce. Va, tuttavia, rilevato che tutti gli operatori sia civili sia militari della casa circondariale di Poggioreale sono il bersaglio continuo della criminalità organizzata, che si è prefissata l’obiettivo di seminare il terrore tra il personale dell’amministrazione degli istituti di prevenzione e pena, allo scopo di riacquistare, all’interno dell’Istituto, quella supremazia, da tempo perduta, a seguito dell’avvenuto ristabilimento dell’ordine e della disciplina e della sicurezza interni. Il Ministero, per evitare il ripetersi di attentati, ha da tempo impartite precise istruzioni ai propri dipendenti, dotando, altresì, la casa circondariale di Napoli di autovetture e di pulmini blindati. Ha preso, inoltre, contatti con le forze dell’ordine per la protezione personale anche nei comuni di residenza, ove ovviamente non può provvedere direttamente».
«Quella mattina ero preoccupata perché mio marito non tornava ancora dal lavoro. Erano circa le dieci e non avevo sue notizie», racconta la moglie, Filomena, “Mena”, D’Alessandro, «così telefonai al carcere. Ma nessuno mi diceva niente. Il direttore mi disse solo che mio marito aveva avuto un incidente. “Non è nulla di grave. Signora, stia tranquilla”. Ero incinta di mia figlia, all’ottavo mese. Eravamo sposati da due anni. Avevo avuto già due aborti e per questo motivo, per tutto il periodo della gravidanza, stavo a riposo per non rischiare di perdere anche quest’altro bambino. Quando seppi dell’incidente, cominciai a preoccuparmi. Chiamai mia mamma. Fu lei poi a telefonare al carcere. Ma ebbe le stesse notizie. Ritelefonò più tardi e le dissero che Antonio era morto. Si recò in ospedale ad Aversa insieme a mio padre per cercare Antonio. Rintracciarono il suo corpo all’obitorio. Che tragedia», dice Mena scoppiando in lacrime, «il 12 gennaio del 1984 nacque mia figlia. Un parto anticipato e difficile. Il dolore per la morte di mio marito era insopportabile. Tutti mi dicevano di stare tranquilla, di pensare alla bambina che doveva nascere. Ma come potevo farcela? Nella pancia mi sembrava di avere un cavallo. Scalciava che voleva uscire. Il dolore era tanto. A vent’anni si è fragili. Tutta la mia vita era andata in frantumi. I miei sogni svaniti. Non dormivo la notte. Piangevo sempre. Si ruppero le acque anzitempo. Nacque con difficoltà la mia bimba. Stavo rischiando di perderla. Le diedi il nome di mio marito. Si chiama Antonia. Subito dopo il parto caddi in depressione. Il dolore per una morte e la gioia per una vita nuova si mescolavano. Ma il peso di queste due cose mi schiacciava. I miei genitori mi vollero a casa loro. Non potevo farcela da sola con una bambina da crescere e senza più mio marito.
È stata dura, anche se i miei genitori e i miei fratelli non mi hanno fatto mancare niente. Ma mio padre ne ha preso una malattia, come me. Dopo due anni da quella tragedia è morto anche lui. Aveva cinquantacinque anni quando se n’è andato. Non ha retto al dolore perché non riusciva a sopportare la mia sofferenza. Mia madre non si è data per vinta. Mi ha sostenuto, aiutata, nonostante le sue difficoltà. I miei fratelli non hanno fatto mancare il loro affetto a mia figlia. Alla mia bambina, però, ho trasmesso la mia ansia, le mie paure», racconta Mena tra le lacrime che non si fermano, «e la mancanza del padre si è fatta sentire, soprattutto a scuola. Quando tutti i ragazzi scrivevano i pensierini sul papà, mia figlia non sapeva cosa fare. Ci restava male e piangeva. Lei non aveva il papà. Non sapeva che voce avesse. Non conosceva le sue carezze. Non ci aveva mai giocato. L’avevo abituata un po’ alla volta all’assenza del padre. Veniva sempre con me al cimitero a portare i fiori sulla tomba di Antonio. E poi mi vedeva sempre vestita di nero. Portavo il lutto “stretto”, come si faceva qualche anno fa dalle nostre parti. E con il mio volto sempre bianco, sembravo un cadavere. Le persone a me vicine mi dicevano che dovevo vivere, dovevo pensare a me. Ma non mi interessava di farlo. C’è voluto un coraggio sia a mettere che a togliere quei vestiti neri. La mia vita non aveva più un senso».
Mena si ferma. Piange. Non riesce a proseguire. Riprende fiato. «È stata dura anche dal punto di vista economico. Nelle difficoltà sono diventata una donna forte. Solo tre anni fa mia figlia ha potuto beneficiare delle provvidenze che la legge riconosce alle vittime del dovere. Ora lavora nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si è sposata un anno e mezzo fa. Il giorno del matrimonio l’ha accompagnata all’altare il fratello di Antonio. È stato un giorno di gioia e di dolore. Ogni familiare che la vedeva vestita da sposa, nel darle gli auguri non poteva fare a meno di pensare al papà che non c’era più. Sembrava al tempo stesso un matrimonio e un funerale, perché dopo gli auguri tutti scoppiavano a piangere pensando ad Antonio. C’eravamo conosciuti al mare», ricorda ancora singhiozzando Mena, «avevo quindici anni. Ci siamo fidanzati di lì a poco. Lui era già un agente di custodia. Stava a San Vittore. Poi è stato trasferito a Foggia e poi a Napoli. Quattro anni insieme e poi il matrimonio. Ora spero che mia figlia, che ha sposato un bravo ragazzo, si costruisca una vita più serena e che arrivi ad avere un bambino. Per me, ormai, è andata così. Ho bruciato tutte le mie tappe. Me ne sono fatta una ragione. E mi dico: “Il Signore ha voluto così. Questa doveva essere la pagina del destino assegnatomi”. Nel frattempo sono diventata molto più frequentatrice della chiesa. Ma dico sempre al Signore di rendermi giustizia e gli chiedo solo che le persone che hanno ucciso mio marito non devono trovare mai pace. Solo questo».
Antonio Cristiano era nato il 3 febbraio del 1956. È stato riconosciuto «vittima del dovere» ai sensi della Legge 466/1980 dal ministero dell’Interno. All’ingresso del corridoio dell’istituto penitenziario di Napoli Poggioreale è presente una targa in memoria dei caduti del Corpo con il nome dell’agente Antonio Cristiano.
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