mercoledì 8 agosto 2012

MARCINELLE. 262 MORTI PER UN TOZZO DI PANE. 56 ANNI FA LA TRAGEDIA DOVE MORIRONO 136 ITALIANI


L’esplosione avvenne l’8 agosto 1956 alle 8,10. In quel momento nella miniera di carbone del Bois du Cazier, a 975 metri di profondità, a Marcinelle, in Belgio, c’erano già a la lavoro 274 persone. Ne morirono  262 persone, di cui 136 italiani. Povera gente del sud Italia, partita con la valigia di cartone (chi ce l’aveva) e arrivati in Belgio giusto per un tozzo di pane. Provenivano soprattutto dalla Calabria, dall’Abbruzzo e dal Molise. La “catastrofa”, così come veniva ricordata dagli emigrati in un miscuglio di francese e dialetto, è una delle tragedie più gravi nella storia dell'emigrazione italiana. Gli italiani  erano andati a lavorare, come in molti altri siti della Vallonia, a seguito dell'accordo “uomo-carbone” tra Italia e Belgio del 1946. Come ogni anno, quel disastro - il terzo per numero di morti tra gli emigrati del nostro Paese, dopo quelli Monongah nel 1907 e di Dawson nel 1913, costati la vita rispettivamente a 171 ed a 146 italiani - verrà ricordato con una cerimonia nel sito dell'ex miniera di carbone al Bois du Cazier, nel comune di Charleroi, che il mese scorso, insieme ad altri tre siti minerari della Vallonia, è stato proclamato patrimonio universale dell'Unesco.
A provocare la “catastrofa”, quella mattina  dell'8 agosto del 1956, fu un carrello non perfettamente entrato nella gabbia di risalita tranciò una condotta d'olio, i fili telefonici e due cavi dell'alta tensione, provocando un pauroso incendio. L'allarme venne dato alle 8,25 da Antonio Iannetta, l'addetto alle manovre al livello 975 metri che riuscì a risalire in superficie. Le operazioni di soccorso, iniziate alle 8,58 con l'arrivo della prima squadra di soccorritori, si conclusero il 23 agosto alle 3 del mattino, quando, in italiano, un soccorritore sussurrò: «Tutti cadaveri».

Il 13 agosto vennero sepolte le prime vittime. Il 25, il ministro dell'Economia belga Jean Rey creò una commissione d'inchiesta, alla quale presero parte due ingegneri italiani, Francesco Caltagirone e Mario Gallina del Corpo delle Miniere Italiane. Anche la confederazione dei produttori di carbone avviò la propria inchiesta amministrativa. L'obiettivo era di fare luce su cosa fosse accaduto nel pozzo numero 1 di Marcinelle quel mattino dell'8 agosto del 1956. Nessuna di queste istituzioni, in realtà, mantenne pienamente le sue promesse. Il primo ottobre del 1959 il tribunale di Charleroi emise un verdetto di assoluzione per gli amministratori e i direttori della miniera: «Nessuno è responsabile della tragedia». L'anno seguente, dopo la reazione dell'opinione pubblica e della stampa italiana, nel processo d'appello venne condannato a sei mesi di carcere un ingegnere. Trovato un capro espiatorio, l'intera vicenda viene chiusa. In realtà, l'unico che avrebbe potuto raccontare come andarono esattamente le cose il giorno della tragedia era Iannetta, che nel novembre del 1956, dopo aver cambiato sette volte versione davanti ai magistrati, sparì. Le autorità belghe gli avevano dato il permesso di lasciare il Paese, a processo ancora in corso, e di volare in Canada, a Toronto, dove è morto 87enne, malato di Alzheimer, l'11 febbraio scorso.
Nel suo libro dedicato all'incidente di Marcinelle, «La catastrofa», Paolo Di Stefano scrive che il 25 settembre del 2000, Nino Di Pietrantonio, il figlio di una vittima, «bussa alla porta di una casetta a schiera di Bellwoods Avenue a Toronto. Gli apre Iannetta, che gli rivela varie cose: anzitutto che in quei giorni dell'estate 1956 un ingegnere aveva chiesto al minatore molisano di provocare un piccolo incidente, in modo da convincere l' amministrazione a chiudere quella 'maledettà miniera, poi che era stato un intervento diplomatico a permettergli di fuggire e che ancora percepiva un'entrata mensile extra-pensione senza riuscire a capire il perchè». Il tutto sarebbe stato un compenso all'uomo che si era assunto le responsabilità, non sue, dell'incidente. Incidente che mise tra l'altro in luce le condizioni di lavoro degli italiani, spediti in Belgio a seguito dell'accordo 'uomo-carbonè. In Italia, negli anni del dopoguerra, le risorse di carbone erano sempre più scarse, le potenze vincitrici lo lesinavano agli sconfitti e la produzione era pressochè nulla, ma vi era molta manodopera. In Belgio, invece, la situazione era all'opposto: ricchi di carbone, i belgi non volevano fare il lavoro del minatore, coscienti dei pericoli del lavoro in miniera, tra cui malattie come la silicosi.

Fu così che il premier belga Achile Van Acker, alla fine della guerra, lanciò la «battaglia del carbone», raggiungendo con l'allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi l'accordo firmato il 23 giugno del 1946, che prevedeva l'acquisto di carbone a fronte dell'impegno italiano di mandare 50mila uomini da utilizzare nel lavoro in miniera. Nell'intesa erano previsti, per quelli che vennero poi ribattezzati in maniera sprezzante «musi neri», per via della polvere di carbone che ricopriva il loro volto, un corso di formazione e la garanzia di un alloggio. Alloggi che si rivelarono poi essere delle squallide baracche di lamiera, le stesse usate dai nazisti durante la guerra come campi di concentramento e poi dagli alleati come campi di prigionia. Tra il 1946 e il 1957 arrivarono in Belgio 140mila uomini, 17mila donne e 29mila bambini. Mercoledì, come ogni 8 agosto - nel 2001 proclamata «Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo» - la campana «Maria mater orphanorum» al Bois du Cazier rintoccherà 262 volte, in ricordo dei minatori morti a Marcinelle, e altre 10 volte per i caduti in tutte le miniere del mondo. Infine, suonerà a distesa in omaggio alle vedove e agli orfani e per richiamare a raccolta la gente per ricordare quanto accadde in quel luogo. Alla cerimonia sarà presente il console italiano a Charleroi, Iva Palmieri.

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