giovedì 11 ottobre 2012

11 OTTOBRE 1983, UNA DATA DUE OMICIDI: IGNAZIO DE FLORIO E FRANCO IMPOSIMATO

L'agguato a Franco Imposimato

Una data, l’11 ottobre 1983, due omicidi:  Ignazio De Florio e Francesco Imposimato. Il primo, guardia carceraria a Carinola, ucciso poco dopo le 16, appena uscito dal carcere. Il secondo ucciso a Maddaloni, poco dopo le 17, a circa 50 chilometri di distanza, appena uscito dalla Face standard, la fabbrica dove lavorava come impiegato. Due storie che si intrecciano. Per l’omicidio di De Florio si autoaccusò il collaboratore di giustizia, Antonio Abbate, affiliato al clan Lubrano-Nuvoletta di Pignataro Maggiore. Disse che  era lui l’autista del commando che uccise De Florio. Ma Abbate venne riconosciuto come uno dei killer sul luogo dell’omicidio di Imposimato da Maria Luisa Rossi, moglie di Franco Imposimato e ferita in quell’agguato. I giudici di primo grado al processo Imposimato presero per buona la sua versione. Abbate non poteva stare materialmente  in due posti diversi distanti 50 chilometri e percorrere quella distanza in meno di un’ora. In secondo grado, i giudici hanno accolto, invece,  la tesi del PM Federico Cafiero De Raho, condannandolo all’ergastolo per l’omicidio Imposimato. Non è stato mai processato per l’omicidio di De Florio. E, pertanto, gli assassini della guardia carceraria sono ancora sconosciuti.

L’omicidio De Florio

Ignazio De Florio
Finito il turno di servizio nel carcere di Carinola, Ignazio De Florio, 24 anni, verso le 16,10 sale sulla sua Peugeot 304 di colore grigio-azzurro per avviarsi verso casa. Abitava  a qualche chilometro di distanza, dove lo aspettavano sua moglie, Angelina Cozza, 24 anni e sua figlia Luisa, di appena 16 mesi. Fuori dal carcere lo aspettava un commando di camorristi. Erano in attesa in una ford Fiesta pronti ad entrare in azione per uccidere, a caso, il primo agente che usciva dal penitenziario. C’era in atto una campagna di aggressioni nei confronti delle guardie carcerarie, accusati di maltrattamenti nei confronti dei detenuti. Però c'era anche l’ala cutoliana della camorra che voleva  affermare, attraverso il terrore, il dominio nelle carceri. Facevano di tutto per far entrare nei luoghi di detenzione coltelli, pistole, droga, soldi,con la complicità delle guardie carcerarie. Chi non si piegava, veniva ucciso.  Quel giorno il primo ad uscire dal carcere è Ignazio De Florio. Dopo di lui esce un  altro agente, Carlo De Nunzio, a bordo di una Fiat 128. L'agguato avviene dopo pochi minuti. La Panda affianca l'auto di De Florio. I killer sparano a ripetizione.  L’agente De Nunzio assiste terrorizzato alla scena. Sparano anche contro di lui. Due colpi passano di striscio sul tetto della sua fiat 128. Si ferma. Ingrana la retromarcia, ma finisce nel fosso a lato della strada. Per uscire dall’auto e scappare, si infila dal finestrino anteriore. Dopo pochi minuti riesce ad arrivare al carcere per dare l’allarme. Quando arrivano i carabinieri, Ignazio De Florio mostra ancora segni di vita. Un ambulanza lo trasporta all’ospedale di Teano, ma muore poco dopo. Sono le 17 dell’11 ottobre del 1983.  A Maddaloni, a cinquanta chilometri di distanza, un altro commando ammazza Francesco Imposimato, il fratello del giudice Ferdinando.

L’omicidio di Franco Imposimato

“Quel giorno – dice Giuseppe Imposimato, il primogenito di Francesco – in macchina con i miei genitori c’era anche Puffi, un barboncino che regalarono qualche anno prima a mia mamma. Non voleva stare a casa e così lo portavano in fabbrica con loro. Era sdraiato sui sedili posteriori. Quando i killer spararono, lui uscì dalla macchina e corse sotto la portineria della Face Standard, che distava trecentocinquanta metri dal luogo dell’agguato. La gente capì che era successo qualcosa. Accorsero molti colleghi di lavoro di papà e mamma. Ma sul posto, prima di ogni altro, giunsero dei militari che stavano passando proprio in quel momento da quelle parti e che sentirono i colpi. Videro mia mamma uscire dall’auto, nonostante fosse gravemente ferita. La osservarono fare solo pochi passi e poi cadere a terra svenuta. I killer scapparono a tutta velocità. I militari, invece, si avvicinarono a mia mamma, la presero e la portarono all’ospedale sul loro mezzo. Se non fosse stato così rapido il soccorso, mamma sarebbe morta dissanguata. Il capo di quei militari era un suo compaesano, Pasquale Brignola. Fu lui che riuscì a individuare la targa dell’auto: una Fiat Ritmo bianca che fu trovata nelle campagne di Briano, nei dintorni di San Leucio, la città della seta. Mamma lo rivide solo al processo e lo volle ringraziare».

Maria Luisa Rossi
«… era un giorno lavorativo  - racconta Maria Luisa Rossi, la moglie di Franco - e con mio marito stavamo uscendo dalla fabbrica. Potevano essere le 17,20. Salimmo nella nostra Ford Escort di colore verde per andare a prendere i bambini a scuola. A pochi metri dall’uscita della fabbrica trovammo una macchina parcheggiata in curva che ci impediva quasi di girare. Mio marito nel fare la manovra di sorpasso rallentò. La macchina, una Fiat Ritmo, era ferma. Chiunque fosse passato di lì, doveva per forza rallentare. A quel punto intravidi delle persone. Si avvicinavano a piedi, di corsa. Di uno ho visto solo le gambe, perché stava davanti alla macchina. Un altro si è messo dalla parte di mio marito. È stata questione di attimi. Non ci eravamo resi conto di quello che stava succedendo. In auto con noi avevamo il nostro barboncino, Puffi che abbaiava come un ossesso. Forse aveva percepito il pericolo. All’improvviso questi due tizi cominciarono a sparare. Si sentivano solo colpi di pistola, e tanto fumo che non riuscivamo più a respirare. Nell’attimo stesso che mi girai per guardare il cane, mio marito mi chiese: “Ma che sta succedendo?”. Ci incrociammo con gli sguardi. E fu anche l’ultima volta che ci guardammo negli occhi. Franco venne colpito da undici colpi di pistola. Morì quasi subito. Nell’autopsia è scritto che morì per shock emorragico e traumatico. Il killer che era davanti non l’ho visto bene in faccia. Ma l’altro sì. Era un uomo non molto alto, giovane, grassottello, piuttosto scuro di pelle, con due rughe che solcavano le guance, con i capelli di colore nero tirati all’indietro. Venni colpita al petto. Un colpo mi perforò tutti e due i polmoni. Riuscii appena ad aprire lo sportello, perché in macchina non respiravo. Ricordo solo che il fumo aveva invaso la Ford Escort. Non riuscivo a vedere più niente. Aprii lo sportello e caddi a terra svenuta… non ricordo altro».

La testimonianza del Procuratore Cafiero De Raho

Antonio Abbate non venne ritenuto credibile.. “C’erano molte incongruenze nelle cose dette da Antonio Abbate  – ricorda Federico Cafiero De Raho, PM al processo per l’uccisione di Franco Imposimato -  evidentemente aveva raccolto quelle informazioni tramite qualcuno che aveva veramente partecipato all’omicidio. E non poteva essere vero che risultava come uno del commando, perché la moglie di Francesco Imposimato lo aveva riconosciuto come uno dei killer. E così nel processo di Appello feci presente quello che secondo me non poteva essere vero e la Corte ha accolto la mia tesi, condannando Abbate all’ergastolo per l’omicidio Imposimato, confermato dalla Cassazione. Ovviamente se il pentito era stato dichiarato non credibile, anche le cose dette sul delitto di Ignazio De Florio non sono vere. Così il processo non si è mai fatto, perché gli autori del delitto sono rimasti ignoti.”

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