Il 30 aprile del 1982 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, viene nominato Prefetto di Palermo. E' la sua terza volta in Sicilia. C'era stato come giovane ufficiale dei Carabinieri nel 1949 a combattere il separatismo di Giuliano di Montelepre e poi nel 1966 con il grado di Colonnello, per combattere Cosa Nostra. Ora ci torna da Prefetto. Lo ammazzeranno la sera del 3 settembre del 1982, esattamente dopo cento giorni di permanenza nel capoluogo siciliano.
Quella sera il nuovo prefetto di Palermo, insieme alla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, trentadue anni, aveva deciso di uscire per andare a cena. Erano pochi i momenti intimi vissuti in quei mesi concitati nella lotta contro la mafia. Era stato fatto tutto così in fretta. Carlo Alberto fu nominato prefetto di Palermo sull’onda emotiva dell’uccisione del segretario regionale del Pci, Pio La Torre. Poi il matrimonio, il 12 luglio dello stesso anno, e dunque il trasferimento a Palermo. E poi l’isolamento in cui si era venuto a trovare il prefetto. Lo aveva denunciato anche attraverso i giornali in una intervista a Giorgio Bocca sulle colonne del quotidiano «la Repubblica». Emmanuela quella sera lo voleva tutto per sé il generale. Tanto che si mise a guidare lei l’auto, come per dire: «Stasera esisto solo io». Era una delle poche volte che poteva godersi il marito.
Normalmente le sue giornate il prefetto le cominciava alle sette del mattino e le finiva dopo la mezzanotte. A fargli da scorta c'era Domenico Russo, “Mimì”, faceva da autista e da scorta al generale. Era l’unico agente di scorta perché all’epoca non esisteva un servizio come quello di adesso. E l’auto non era nemmeno blindata. A scortare il prefetto ci doveva essere uno dei suoi uomini di fiducia, un giovane carabiniere di Marano, Gennaro Nuvoletta. Ma aveva ritardato la il suo arrivo a Palermo perché il 2 luglio dello stesso anno, la camorra aveva ucciso a Marano il fratello, Salvatore Nuvoletta, 20 anni, anche lui carabiniere in servizio a Casal di Principe.
Uscirono da villa Whitaker, dov’è ospitata la prefettura, attorno alle ventuno. Dietro di loro si avviarono anche due auto e una moto. Una Bmw, una Fiat 132 e una moto Suzuki. In quelle macchine c’erano gli uomini che alcuni minuti dopo li massacreranno a colpi di mitra. Alle ventuno e quindici, in via Isidoro Carini, i sicari si materializzano. Affiancano l’A112 con dentro il generale e la moglie Emmanuela Setti Carraro e un’altra auto affianca l’Alfetta guidata da Domenico Russo. I kalashnikov cominciano a crepitare. Emmanuela è colpita. L’auto sbanda. Finisce la corsa vicino ad un marciapiede. Per lei e per il generale non c’è più niente da fare.
Anche per Mimì, sventagliate di kalashnikov. Piovono proiettili. Per lui entra in azione la motocicletta che, secondo i pentiti, era guidata da Pino Greco, detto “Scarpuzzedda”. La sua auto va a sbattere dietro la A112 con dentro i corpi del generale e della moglie. Mimì scende dall’auto per difendere il prefetto e la giovane consorte. Si rende subito conto che il gruppo di fuoco era troppo numeroso e con la sua pistola d’ordinanza avrebbe potuto fare ben poco. Nonostante ciò, non esitò a sparare e a cercare di fermare i killer. Non resistette a lungo. Il volume di fuoco che misero in campo i mafiosi ebbe subito ragione del povero agente scelto. In due minuti il massacro era compiuto.
I killer si fermano. Volevano essere certi che il prefetto rompiscatole, la moglie e il carabiniere di scorta fossero morti. Nel giro di pochi minuti è tutto finito. Le auto dei killer partono a tutta velocità. Le troveranno poco dopo incendiate e quasi irriconoscibili. Domenico Russo, però, non è morto, è ferito gravemente. Trasportato in ospedale, i medici lo dichiareranno clinicamente morto. Morirà dopo tredici giorni di agonia.
«Cosa mi sento di poter dire
a distanza di 30 anni? Che quello di mio padre fu un delitto chiaramente, spudoratamente,
politico». Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso sotto
i colpi di kalashnikov da un commando mafioso il 3 settembre del 1992, in via
Carini a Palermo, non usa mezzi termini. La sua analisi è lucida. Un atto
d'accusa fermo contro una politica che cerca altrove le «ragioni evidenti» di
una condanna a morte. Ma la verità sta lì. In quei cento giorni trascorsi a
Palermo. Nell'isolamento e nella delegittimazione del generale che aveva
colpito a morte il terrorismo. «Vidi mio padre - racconta all'Adnkronos Nando
Dalla Chiesa - telefonare e cercare risposte che non arrivarono mai. Vidi pezzi
dello Stato non farsi trovare pronti. All'epoca della lotta al terrorismo aveva
dimostrato la sua autorevolezza, la capacità di farsi sentire, ma in Sicilia
c'era attorno a lui un senso di vuoto. Mio padre non sentiva la presenza dello
Stato dietro di sè». Di più. C'era nei suoi confronti una «resistenza sorda da
parte di un potere che si sentiva minacciato, perchè sapeva di avere a che fare
con un uomo caparbio, autorevole, dalle grandi doti investigative».
Un'ostilità, che si tramutò in tentativo di delegittimazione e in progressivo
isolamento. «Quello che stava accadendo era palese - dice ancora Nando Dalla
Chiesa -. Una parte della politica viveva mio padre come un corpo estraneo. Ma
mai potevo pensare, e di questo me ne faccio una colpa, che potessero
ucciderlo. Sarebbe stato, mi dicevo, un omicidio plateale con la firma. Ho
capito con gli anni che un assassinio può essere firmato, ma la gente può anche
rifiutarsi di leggere quella firma e cercare altrove le ragioni. Così avvenne
per mio padre».
Carlo Alberto Dalla Chiesa
lo aveva capito. A sue spese purtroppo. Il 10 agosto in un'intervista a Giorgio
Bocca, l'ultima, disse: «Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si
uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo
pericoloso, ma si può uccidere perchè è isolato». Lui era partito per Palermo
il giorno stesso (30 aprile 1982) in cui la mafia aveva ucciso Pio La Torre,
segretario siciliano del Pci. Era arrivato con procedura d'urgenza perchè lo
Stato aveva scelto lui per combattere la battaglia contro Cosa nostra. Non era
la sua prima volta in Sicilia. Il generale c'era già stato nel 1949 da giovane
ufficiale con l'incarico di comandante del gruppo squadriglie delle Forze
Repressione banditismo di Corleone (Palermo). Agli ordini del generale Ugo
Luca, fu impegnato nella durissima guerra contro il bandito Giuliano di
Montelepre e in dieci mesi di lotta al banditismo riuscì a scompaginare e
debellare numerosi gruppi criminali. Un impegno importante che gli valse una
Medaglia d'argento al valor militare. A Corleone ereditò tra l'altro, 64
indagini su omicidi ad opera di ignoti, fra cui quello di Placido Rizzotto,
segretario della Camera del Lavoro, scomparso il 10 marzo del 1948. Dalla
Chiesa giunse ad indagare e incriminare, per primo, l'allora boss emergente
Luciano Liggio.
Dal 1966 al 1973 tornò
nell'Isola con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di
Palermo. Furono gli anni dello scontro interno tra le famiglie mafiose per la
conquista del potere e dei morti eccellenti. Dalla Chiesa si trovò ad indagare
sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, sulla morte del procuratore
Pietro Scaglione. Il risultato di queste indagini fu il dossier dei 114, nel
quale si fecero per la prima volta i nomi di Gerlando Alberti e Tommaso
Buscetta come elementi centrali di molti fatti di sangue, oltre che quelli di
Luciano Liggio e Michele Greco. Scattarono così decine di arresti di boss. Nel
1982 il Consiglio dei ministri lo nominò prefetto di Palermo. È lui l'uomo
chiave in grado di vincere la sfida contro Cosa nostra che aveva ripreso ad
insanguinare le strade di Palermo. L'allora ministro Virginio Rognoni lo
convinse: per combattere la sua battaglia contro i boss avrebbe avuto poteri
speciali. Ma le promesse rimasero tali. «Mi mandano in una realtà come Palermo
con gli stessi poteri del prefetto di Forlì» disse amareggiato. La lotta a Cosa
nostra doveva essere fatta strada per strada, lo Stato doveva far sentire la
sua presenza, servivano uomini e mezzi. Eppure nonostante la carenza di risorse
il generale dei cento giorni elaborò una sorta di mappa dei boss della nuova
mafia: è il rapporto dei 162. Poi iniziò una lunga serie di arresti, di
indagini, anche in collaborazione con la Guardia di Finanza, per appurare
eventuali collusioni tra politica e Cosa nostra. È la sua condanna a morte.
«Qui è morta la speranza dei palermitani onesti» recitava una scritta comparsa
il giorno seguente vicino al luogo dell'eccidio. «Da allora di strada se ne è
fatta tanta - dice Nando Dalla Chiesa- Molti hanno contribuito a farla dalla
società civile alle associazioni, dall'Università a Confindustria. Oggi non è
più un tabù parlare di mafia. Eppure questi stessi passi avanti non si vedono
nel mondo politico. Per una parte della politica - denuncia - la mafia non è un
problema, ma al contrario una risorsa. C'è una contrattazione continua, come in
un grande mercato in cui scambiano voti e favori. Credo - dice amaramente - che
se i politici avessero nel contrasto a Cosa nostra la stessa spinta che hanno
nel mantenimento delle proprie posizioni di privilegio, nell'interesse per la
legge elettorale, oggi avremmo completamente debellato la mafia. Purtroppo non
è così e Cosa nostra non viene vista come un problema di sopravvivenza».
Nell'ambito delle celebrazioni per ricordarlo in occasione del trentennale
della sua uccisione a Corleone (Palermo) è stata scoperta una targa. Alla
cerimonia, organizzata dal Comando Legione Carabinieri Sicilia e dalla
Prefettura di Palermo, hanno partecipato le massime autorità civili e militari.
Dino
Russo, il figlio di Domenico, l’agente di scorta di Dalla Chiesa: «A
Palermo erano certi che sarebbe successo, tutti si aspettavano quello che poi è
accaduto. Si può dire che in qualche modo il destino di Dalla Chiesa era
segnato. La mafia, che lo ha ucciso insieme a mio padre, c'è ancora oggi anche
se ha abbandonato la tattica stragista. La verità è che c'è ancora tanto da
fare prima di poter dire di avere vinto la battaglia contro cosa nostra». Dino
Russo, figlio di Domenico, capo scorta di Carlo Alberto Dalla Chiesa,
ripercorre con l'Adnkronos gli attimi seguiti alla strage di via Carini, che
vide il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela
Setti Carraro e l'agente Domenico Russo morire sotto i colpi dei killer
mafiosi. «All'epoca ero un bambino, lo venni a sapere dal telegiornale. Dalla
Chiesa era un grande uomo, che ha sconfitto le Brigate Rosse, una persona di
cuore. Era deciso a contrastare la mafia, di certo -rileva- lui e mio padre si
sarebbero opposti a qualsiasi eventuale ipotesi di trattative con la mafia da
parte delle istituzioni».
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