La storia che segue, è tratta dal mio libro "Al di là della notte", ed. Tullio Pironti
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Quando suona il citofono sobbalzano dal letto sia Antonio che Maria Rosaria. È da poco passata l’una di notte. «Chi sarà mai a quest’ora?», chiede la moglie. Antonio Salzano, invece, che è un maresciallo dei carabinieri, non si meraviglia che qualcuno a quell’ora possa bussare alla sua porta. Era già capitato. Antonio si avvia in pigiama verso il citofono. «Chi è?», chiede. Dall’altro capo del citofono risponde una persona che probabilmente il maresciallo conosce. Così apre la serratura del cancello automatico di una anonima palazzina del Parco Azzurro, in via Lauzieres, n. 20, a San Giorgio a Cremano. Poi apre anche il portoncino per far entrare la persona che ha citofonato. La moglie, ancora nel letto, sente la porta aprirsi e, subito dopo, cinque colpi di pistola. Tutti in rapida successione. Sono colpi di una 38 special. Il maresciallo dei carabinieri Antonio Salzano viene colpito allo stomaco, al petto, al collo. Quando è già a terra, l’ultimo colpo è alla tempia. Lo finiscono senza pietà. L’assassino esce di corsa e si infila in una macchina dove lo stanno aspettando dei complici. Una sgommata di ruote e via di corsa. Per le strade strette di San Giorgio a Cremano. Muore così a quarantatré anni, nella notte del 23 febbraio 1982, il maresciallo dei carabinieri Antonio Salzano, originario di Afragola.
«Antonio, Antonio, cos’è successo? Antonio…». La moglie del maresciallo, Maria Rosaria Langella, quarant’anni, si alza dal letto e comincia a gridare terrorizzata dagli spari. Pensa già al peggio. Arriva vicino alla porta e trova il marito a terra col viso e il petto insanguinato. Maria Rosaria urla, chiede aiuto. Corrono i due figlioletti che stanno dormendo nella loro stanzetta. Hanno sentito il rumore, gli spari, il trambusto e le grida della mamma. Bruno e Cristiano, undici e sei anni, arrivano in pigiama a piedi nudi vicino all’ingresso, visibilmente spaventati. Vedono la mamma che piange e urla vicino al corpo del padre insanguinato. Gli occhi stralunati. Tutti e due impauriti. Vedono il sangue sul volto del papà. Restano muti a osservare il corpo senza vita del padre. Maria Rosaria si accorge della presenza dei figli. «Tornate a letto. Tornate a letto. A papà ci penso io. Adesso lo porto in ospedale». Poi chiama un suo amico avvocato, arriva qualche conoscente. Cercano di soccorrere il maresciallo. Ma Antonio Salzano è già privo di vita. Arrivano i carabinieri del 113. Chiamano il giudice di turno. Arrivano anche i superiori del maresciallo scuri in volto e preoccupati per l’escalation di violenza che sta colpendo la Campania e Napoli in particolare dove dall’inizio del 1982 sono già cinquantanove i morti ammazzati. Più di uno al giorno. A riavvolgere il nastro del film della giornata, ci sono quattro morti da registrare. Due a Ottaviano (Antonio Visone e Ciro Menzione), il maresciallo Salzano a San Giorgio a Cremano e un detenuto, Antonio Giaccio, detto «Scialò», ammazzato nelle camere di sicurezza del palazzo di Giustizia di Napoli. Ad ucciderlo con una rivoltella è stato un altro detenuto, Michele Montagna, che ha ferito anche uno dei capi camorra più noti, Gennaro Licciardi, detto «’a scigna». Vendetta di bande rivali. Da alcuni anni si fronteggiano il cartello camorristico della «Nuova Famiglia» (Bardellino, Alfieri, Nuvoletta, Zaza, Giuliano e altri), e la «Nuova Camorra Organizzata » di Raffaele Cutolo. Scenario di questo scontro l’intero territorio campano. In palio c’è il controllo del mercato delle sigarette di contrabbando, ma anche la torta appetitosa degli appalti del dopo terremoto e il controllo del mercato della droga.
Qualcuno cerca di mettere l’uccisione del maresciallo Salzano proprio in relazione con quanto è successo poche ore prima nelle camere di sicurezza a Napoli. Alle 2,30 di notte giunge una telefonata anonima al quotidiano «Il Mattino»: «…il maresciallo Salzano, che ha fornito le armi ai detenuti». Si sentono nitide solo queste parole nella telefonata. Niente di più. Si cerca di buttare fango sul carabiniere che era addetto al «Nucleo traduzioni e scorta detenuti», facendo balenare l’ipotesi che le armi con le quali era stato ucciso Antonio Giaccio e ferito Gennaro Licciardi, in qualche modo sarebbero state fatte passare dal maresciallo Salzano. Giaccio e Licciardi erano appartenenti alla «Nuova Famiglia». Michele Montagna un cutoliano. In realtà nella camera di sicurezza furono trovati anche quattro coltelli che servirono a ferire Licciardi gravemente e, presumibilmente, furono anche altri a partecipare alla spedizione punitiva nei confronti di Licciardi e Giaccio. Quel giorno Michele Montagna arrivò vestito con vari strati di indumenti. Molto probabilmente aveva nascosto le armi addosso.
Un articolo pubblicato dal quotidiano «l’Unità» il 24 febbraio 1982 descrive il “mercato” delle armi a Poggioreale e di come era facile farle passare: «…una pistola costa due milioni. Un coltello a serramanico dalle cento alle duecentomila lire. I soldi per comprare le armi entrano insieme alla biancheria pulita, ai pacchi viveri che i parenti dei circa 1.500 detenuti portano durante le ore di visita. [...] Anche i processi diventano occasione per far correre di mano in mano coltelli e “altro”. A quelli più importanti, oltre ai parenti, sono presenti anche i “cumparielli” che si avvicinano a baciare i boss attraverso le gabbie. È in questi momenti che spesso passano i soldi. Controlli? È difficile. La legge, dentro Poggioreale, la fanno loro, i detenuti più potenti. Le guardie giurate spesso hanno paura. Tre loro colleghi in poco più di un anno sono già morti». Michele Montagna affermò di avere ucciso e ferito da solo Giaccio e Licciardi. E sotto il verbale sottoscritto davanti agli inquirenti, scrisse: «Montagna Michele, inviato da Dio per uccidere satana».
Il ministro di Grazia e Giustizia Clelio Darida, nel rispondere ad una interrogazione parlamentare di Falco Accame, l’11 ottobre del 1982, escluse che il maresciallo Salzano fosse coinvolto nel passaggio delle armi a Poggioreale per permettere la vendetta dei cutoliani.
Intanto la vita di Rosaria e dei suoi due figli, Bruno e Cristiano, è andata avanti senza il marito e senza il padre. Col dolore sopportato nel silenzio del tempo che scorre inesorabile. Solo un gesto non si è mai affievolito: quello di portare un fiore ogni giorno sulla sua tomba.
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