venerdì 17 febbraio 2012

FEDERICO DEL PRETE. SINDACALISTA DEGLI AMBULANTI, UCCISO DALLA CAMORRA DIECI ANNI FA A CASAL DI PRINCIPE

Federico del Prete, sindacalista dei commercianti ambulanti, fu ucciso dalla camorra  a Casal di principe il 18 febbraio del 2002. Domani due manifestazioni lo ricorderanno. La prima alle 9,30 a Casal di Principe, al teatro per la legalità e lo sviluppo. E' promossa dal Consorzio "Agrorinasce" in collaborazione con l'Associazione "Mò Basta!". Qui sarà presentato in antepirma il libro  "A Testa Alta! Storia di camorra e di resistenza" di cui è autore da Paolo Miggiano.

Nel pomeriggio la seconda manifestazione a Mondragone promossa dal'associazione Libera. Inizio ore 15.30. presso la chiesa di san Nicola.  Interverrà il presidente di Libera don Luigi Ciotti, con il magistrato  Raffaello Magi,  Tano Grasso, presidente onorario della Federazione che raggruppa le associazioni antiracket e antiusura italiane, Nino Daniele, presidente dell'Osservatorio sulla camorra e sulla legalità, Lorenzo Diana, presidente Rete per la legalità e Michele Capomacchina, commissario straordinario del Comune di Mondragone.

Il brano che segue è tratto dal mio libro "La Bestia. Storie di delitti, vittime e complici" ed. Melampo

" (...) Mancava qualche minuto alle 19,30. Poco prima alcuni commercianti ambulanti avevano lasciato il piccolo ufficio di Federico Del Prete. Una stanza a piano terra e con una porta a vetri. Ai muri dell’ufficio qualche manifesto del sindacato. Una piccola bacheca per gli appuntamenti. E dietro le sue spalle un croficisso appeso. Fuori l’ufficio una targa con la scritta Snaa, il sindacato dei commercianti ambulanti, i “mercatari”, come si chiamano tra loro. Federico l’aveva fondato qualche anno prima, quando aveva conquistato la fiducia di molti dei frequentatori dei mercati, come lui. Aveva denunciato gli abusi ai danni di quelli che frequentavano la fiera settimanale di San Giovanni  a Teduccio.

La telefonata che stava facendo Del Prete non era breve. La voce tesa tradiva la tensione che aveva accumulato nei giorni precedenti. La porta dell’ufficio non era chiusa. Non c’era una serratura di sicurezza, né un filtro per presenze indesiderate. Da questo punto di vista quella stanza era un porto di mare. Chiunque avesse voluto entrarvi, poteva farlo senza problemi. Federico si era slacciato la cravatta. Al telefono si stava accaldando, il nodo gli dava fastidio. Ma non se la toglieva mai, perché nonostante non fosse molto alto, aveva un fisico snello, la cravatta gli stava bene. E mentre continuava a parlare al telefono, una persona entrò di botto dando una spinta violenta alla porta, materializzandosi davanti a lui. Aveva in mano una pistola calibro 7,65. Federico lo guardò. Restò impietrito. Capì che era un killer della camorra. Non se l’aspettava anche se da qualche settimana aveva cominciato a temere seriamente per la sua vita. Ebbe appena il tempo di rendersi conto di ciò che stava per accadere. Forse urlò. Forse dall’altro capo del telefono si sentì quello che stava accadendo. Poi, cinque colpi in rapida successione lo colpirono allo stomaco e al torace, lasciandolo per terra, senza vita. Si consumò tutto in pochi istanti. I colpi risuonarono nella stanza. Pochi attimi e il killer girò le spalle. Due passi veloci ed era sulla strada. Fuori lo aspettava una macchina. C’erano i suoi complici dentro. Tenevano il motore accesso. “Andiamo. E’ fatta”, disse il killer. Una sgommata e via.

Nel giro di qualche minuto l’auto venne inghiottita dai vicoli. Probabilmente fatta sparire da qualche parte, smontata pezzo per pezzo o bruciata nella sterminata campagna che circonda Casal di Principe. L’obiettivo della camorra era raggiunto. Il segnale, per tutti quelli che avevano deciso di seguire Federico, era chiaro: fatevi i fatti vostri. Il giorno dopo sarebbe cominciato il processo contro il vigile urbano di Mondragone, Mattia Sorrentino, arrestato perché accusato di  riscuotere il pizzo nella fiera settimanale per conto del clan La Torre. L’aveva denunciato proprio Federico del Prete. Sorrentino, come ogni anno, a dicembre,  riscuoteva 500mila lire di “pizzo” da tutti gli ambulanti che frequentavano la fiera settimanale. Una “usanza” che i commercianti subivano da tempo, ma non avevano mai pensato di dover denunciare l’estorsione  per paura di ritorsioni.

Il primo ad arrivare sul luogo nella sede del sindacato in via Baracca, dopo il delitto, fu Vincenzo, il figlio primogenito di Federico, nato dal suo secondo matrimonio. Da poco era diventato maggiorenne e aiutava il padre nell’attività sindacale. “Quel 18 febbraio di sei anni fa – racconta con un filo d’emozione Vincenzo mentre si tira su il suo ciuffetto di capelli che gli cala sulla fronte -  me lo ricordo come se fosse ora. Ero nel bar poco distante e, come ogni sera, verso le 19,30 portavo il caffè a mio padre nel suo ufficio. Quella sera aveva voluto essere lasciato solo. Ma io il caffè glielo portai lo stesso. Lo vedevo preoccupato.”

Vincenzo temeva già da qualche tempo che sarebbe potuto accadere qualcosa a suo padre. Lo percepiva, anche se non lo sapeva, perché il padre teneva la famiglia fuori  dalle sue iniziative più pericolose. Ma un figlio riesce a capire quando il padre è ansioso e preoccupato. “Non mi aveva detto niente, ma avevo intuito che qualcosa non andava. Sapevo che mio padre faceva delle cose per aiutare i suoi colleghi e ci voleva coraggio per farle. Lui ne aveva”.

“ I colpi di pistola non li udii. E perciò quando entrai e lo vidi a terra tutto insanguinato, mi si gelò il sangue nelle vene. Cominciai ad urlare a  con tutta la forza che avevo in corpo: “Aiuto, aiuto, chiamate qualcuno, aiutatemi. Hanno sparato a mio padre”. Non capivo più niente. Gli occhi mi si annebbiavano. Non poteva essere vero. Quello li a terra era mio padre, perché me lo avevano ucciso?”

Quelle di Vincenzo erano grida di disperazione. Prendeva a calci la porta, quasi la sfondava, bestemmiava. Per la rabbia diede un pugno nella vetrata, la mandò in frantumi e si fece male ad una mano.  Ma niente, nessuno accorreva in suo aiuto.  “Quello che mi è rimasto impresso di quella sera, è il fatto che io urlavo, ma le mie grida non sortivano nessun effetto. Nessuno arrivava. Era come se io facessi parte di una scena di dolore che andava solo vista e non partecipata. Eppure cominciava a venire gente fuori l’ufficio di mio padre. C’era chi aveva sentito i colpi  di pistola e aveva capito cos’era avvenuto.”

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