Sono le 8,30 del 26 giugno 1985. Mario Diana arriva al bar "Oreste", nella piazza di Casapesenna, a bordo della sua “Citroen Bx”. Scende dall’auto dopo averla parcheggiata dall’altro lato della strada. I suoi assassini lo hanno seguito da quando è uscito di casa. Lo stavano aspettando con le armi da fuoco già pronte all’uso. Mario Diana fa pochi passi per salire i quattro gradini che separano la strada dall’ingresso del bar. Con le armi in mano i suoi assassini fanno segno agli altri clienti di entrare. Poi lo chiamano per nome, per essere certi di non commettere errori: “Mario! Mario Diana…”. Mario si gira. Aspettava di sentire altre parole, ma non ha il tempo di rendersi conto di quello che gli sta per accadere. Crepitano solo le armi: due colpi di un fucile semiautomatico calibro 12 squarciano il silenzio e il tepore di quella mattinata. Rimbombano nell’aria spargendo per centinaia di metri il messaggio di morte. Il primo colpo lo raggiunge al torace. Mario cade a terra. Uno solo dei killer scende dall’auto e si avvicina. Gli spara un secondo colpo alla tempia, sfigurandogli la faccia. E’ un ulteriore sfregio alla vittima. La morte arriva veloce e non fa fatica a portarselo via.
La vita di Mario Diana, 49 anni, imprenditore nel settore dei trasporti, finisce quella mattina all’entrata del bar di ”Oreste”, nella piazza di Casapesenna.
Mario Diana era sposato con Antonietta Cirillo, da cui ha avuto quattro figli: Teresa, due gemelli maschi, Antonio e Nicola, e Luisa. Proveniva da una famiglia di agricoltori. Cominciò a fare l’autotrasportatore da giovanissimo, proprio nel settore agricolo. Nel 1962 aveva comprato il suo primo camion. Un po’ con il supporto della sua famiglia, un po’ con l’aiuto della famiglia di sua moglie. Poi l’attività cominciò a crescere ed entrò nel settore del trasporto delle pietre, sabbia e del calcare. Ben presto diversificò l’attività affacciandosi al settore industriale ed iniziò a collaborare con la Montedison nei servizi di trasporto merci nazionale.
“Ricordo tutti i particolari di quella giornata. Ricordo anche bene i giorni precedenti, perché io e mio fratello gemello, Nicola, compimmo diciotto anni quarantotto ore prima che lo ammazzassero - racconta con una vena di tristezza negli occhi il figlio Antonio, oggi 45enne e affermato imprenditore nel settore del recupero e del riciclo della plastica - uscii di casa prima di papà per andare a Cassino con mio zio Armando. Dovevamo comprare dei cassoni grandi. Arrivammo che erano le 9,30 e poco dopo mio zio ricevette una telefonata. Qualcuno lo avvisò di quello che era accaduto a mio padre. A me, però, non disse niente, ma cambiò completamente espressione. Notai soltanto che era molto turbato. “Dobbiamo tornare immediatamente a casa. C’è un problema. C’è un grosso problema”. Solo questo riuscì a dire mio zio con un filo di voce. Durante il tragitto per il ritorno non parlammo e io non gli chiesi niente, ma sentivo che il qualcosa era accaduto alla mia famiglia."
“Mario Diana? L’abbiamo ammazzato io, Dario De Simone e Antonio Iovine” ha confessato Giuseppe Quadrano, al processo di primo grado che si è celebrato dopo vent’anni, presso la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere. Un processo nato dalle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: Giuseppe Quadrano e Dario De Simone. Fu Quadrano, arrestato per l’uccisione di don Giuseppe Diana , a parlare nel 1995 dell’uccisione di Mario Diana. Le sue dichiarazioni furono confermate un anno dopo da Dario De Simone, altro killer del clan de casalesi che a sua volta divenne collaboratore di giustizia.
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