«Ancora alcuni minuti
e scendo. Ho gente di Pagani. Preparati perché dopo andiamo a cena fuori».
Erano quasi le otto di sera del 27 marzo 1981, quando l’avvocato Dino Gassani telefona
dal suo studio alla moglie, Isa. Lo studio e l’abitazione erano ubicati nello
stesso palazzo, a Napoli, al Corso Vittorio Emanuele. Al quarto piano
l’abitazione privata e al sesto lo studio. Quella sera lo studio Gassani doveva
chiudere prima. L’avvocato aveva deciso di fare una cenetta insieme alla
famiglia. La moglie, già pronta per uscire, fece passare una ventina di minuti
e poi telefonò al marito. Dall’altro capo del telefono nessuno rispondeva.
«Strano», pensò Isa, «c’è anche Pino nello studio con Dino, qualcuno dovrebbe
rispondere al telefono». Salì Gino, il secondogenito, a controllare se fosse
accaduto qualcosa. Meno di un minuto per fare due rampe di scale. Gino, quindici
anni appena, trovò la porta aperta e il padre riverso sulla scrivania in una
pozza di sangue. Così anche il corpo del suo segretario, Giuseppe Grimaldi.
Sopra la scrivania del padre su un foglio che aveva davanti, c’era scritto:
«Non posso perdere ogni dignità». «Mamma, mamma», urlò il ragazzo scappando per
le scale, «papà, papà…». Urlava e scendeva, ma non riusciva a farsi capire. La
mamma alle urla del ragazzo uscì tutta spaventata. Capì che era successo
qualcosa di grave. Ma non immaginava l’omicidio del marito e del suo
assistente. L’avvocato Gassani era stato colpito a bruciapelo con due colpi di pistola:
uno al cuore ed uno alla tempia.
Pino Grimaldi, il suo
fidato amico e segretario, fu ucciso con un colpo solo alla fronte.
Un’esecuzione. Avevano entrambi cinquantun anni. Pino Grimaldi oltre a essere
il suo segretario era considerato uno di famiglia. Era stato nella Polizia di
Stato, ma dopo questa breve esperienza diventò l’ombra dell’avvocato Gassani.
Diceva spesso: «Io morirò con l’avvocato Gassani». Parole profetiche. Ad ammazzare
Gassani e Grimaldi furono due emissari della camorra legata a Raffaele Cutolo.
L’avvocato Gassani, originario del Salernitano, difendeva Biagio Garzione,
imputato di omicidio volontario insieme a noti esponenti della criminalità vesuviana
(Nco), fra i quali il boia delle carceri, Raffaele Catapano. Garzione diventò
collaboratore di giustizia e accusò anche Catapano. Fu proprio Catapano ad
inviare due emissari nello studio dell’avvocato Gassani per intimargli di
convincere Garzione a ritrattare le accuse nei suoi confronti. Quella sera i killer
di Catapano avevano l’ordine preciso di convincere a collaborare con le buone o
con le cattive l’avvocato Gassani. Si presentarono allo studio come due clienti
che gli volevano affidare un importante incarico legale. L’avvocato, che era
molto noto nell’ambiente perché da anni difendeva tanti camorristi, capì le
loro intenzioni. E mentre questi ancora parlavano e cercavano di convincerlo,
lui scrisse di suo pugno su un foglio di carta: «Non posso perdere ogni dignità».
Sapeva che, se non avesse accettato, per lui non ci sarebbe stato scampo.
Rifiutò di svendere la sua dignità con tutti i rischi che derivavano da quella
scelta coraggiosa. A nulla valsero le pesanti minacce fatte per convincerlo.
L’avvocato Gassani non fece un passo indietro. Lo ammazzarono a sangue freddo.
Il primo colpo fu diretto al cuore. Poi il colpo di grazia alla tempia per
finirlo. Senza alcuna pietà. Il suo collaboratore, impietrito, fu ammazzato con
un colpo solo alla fronte. Opera di gente abituata ad uccidere.
La morte
dell’avvocato Gassani colpì molto la comunità salernitana e l’intero agro nocerino-sarnese.
Dino Gassani era molto noto nell’ambiente penale. Oltre ad essere un affermato professionista,
aveva ricoperto anche la carica di consigliere regionale per ben due legislature.
Al figlio primogenito, Gian Ettore, che all’epoca aveva diciotto anni, dopo la
morte dell’avvocato Marcello Torre, sindaco di Pagani, avvenuta l’11 dicembre
del 1980, aveva confidato: «Capiterà anche a me. È colpa di questo mestiere che
faccio». «Pino Grimaldi ci amava come suoi figli», racconta Gino, il più
piccolo dei figli, «sembrava un secondo padre e la sua morte è, e sarà sempre
un dolore incancellabile per la famiglia Gassani. Lo ricordo con quel sorriso
che ti metteva a tuo agio. Ed era sempre disponibile. Pino Grimaldi è stato un
martire come mio padre. Morì per difendere papà che non si piegò alle minacce
della camorra che lo voleva far desistere dalla difesa di un processo
importante. Oggi Dino Gassani è la nostra stella polare, ma insieme a Pino
Grimaldi».
Il primogenito, Gian Ettore, già
affermato penalista e oggi anche matrimonialista, vent’anni dopo troverà la
forza di scrivere una lettera al quotidiano «Il Mattino», per ricordare il suo papà.
“Vent’anni fa per me
si spegneva la luce. Papà veniva ucciso dove sto scrivendo ora. Da allora la
mia vita ha avuto un senso relativo. Si dice che il tempo è galantuomo, che la
vita continua, che tutto passa. Non è vero. Questa sì che è una bugia del tutto
inutile nella quale ogni uomo crede perché non ha altra scelta. Il tempo è
un’illusione, un anestetico, che, però, non guarisce le ferite. Tutt’al più le
accantona, le nasconde. Ma le ferite sono lì, pronte a risanguinare ogni volta
che ci si accorge che il tempo è solo un impostore. Un traditore. Certi dolori
sono infiniti come il vero amore. Ero un ragazzo e papà era il mio mito, come
dovrebbe essere per ogni figlio. Era circondato da un inspiegabile alone di immortalità.
Quando mi dissero che era morto, non ci credevo. Per me non era possibile che
lui non potesse più vedere, parlare, respirare. Che potesse finire. E forse non
ci credo ancora oggi. La morte di papà la leggo negli occhi di mia madre, come
la leggevo negli occhi di mio nonno paterno, fino a quando è sopravvissuto a
questa tragedia insopportabile. Fu mio fratello Gino a trovare, quella sera del
27 marzo 1981, papà e il suo fedele segretario, Pino Grimaldi, morti insieme.
Non ho mai visto mio padre da morto. Non ce l’ho fatta. Non potevo sopportare
di vedere un leone ucciso, inerme, morto in quel modo. Forse sono stato
orgoglioso anche in quel momento, condividendo l’antico orgoglio di mio padre
che non avrebbe mai voluto che lo vedessi così. Lui era stato il mio gigante
buono. Il mio orgoglio supremo per cui nutrivo amore, timore, emulazione.
Quante volte avevo tentato, con tutte le mie forze, di renderlo orgoglioso di me;
dimostrargli che crescevo e che, un domani, sarei stato il suo sostegno; gli
stessi sentimenti che provava mio fratello Gino. Ricordo quand’ero piccolo e la
mia mano che si perdeva nella sua. E quel senso di protezione che solo un padre
può dare. La mia era una famiglia come tante, con le sue tradizioni, i suoi rituali
cristiani. Papà era uno del popolo con la fierezza e la dignità di un re. Oggi
è un mito autentico; tutti lo rimpiangono.
Al funerale di mio padre
e del grande Pino Grimaldi c’era tutta la città. Tutti i giovani delle sue
tante battaglie politiche, che lo salutavano piangendo. Avevano perso un mito di
mille battaglie. Ricordo gli anziani, le donne, la gente comune, i tanti leali avversari
politici, le autorità locali e nazionali, la rabbia e la paura degli avvocati,
i mille telegrammi. C’era il popolo e questa era la cosa più importante.
Ricordo il silenzio, il dolore composto di tutti, soprattutto quello di mia
madre – lei di famiglia ricca – che aveva sposato un giovane anonimo e squattrinato.
Papà le aveva promesso la felicità e una famiglia normale. Tutto questo non è
stato, ma la mamma lo avrebbe sposato altre mille volte, anche sapendo in
partenza a cosa sarebbe andata incontro insieme ai suoi figli. Me lo dice tutti
i giorni. Da vent’anni. Poi il processo di chi ha ucciso mio padre, la loro
condanna definitiva dopo un estenuante dibattimento. Le nobili ed assurde ragioni
della morte di Dino Gassani. E poi la cerimonia del Consiglio dell’Ordine per
intitolare l’aula Consiliare a papà. La luce che si era spenta vent’anni fa si
è riaccesa quando è nato mio figlio Dino. Lui sa solo che il nonno sta in cielo.
Un giorno saprà quali sono le sue radici e la triste ed esaltante storia della
sua famiglia. Voglio che creda in tanti ideali e in Dio. Io sono solo un
tramite tra lui e il nonno. La vita è davanti a sé. Non la sprecherà. Ho
fiducia in lui, come papà l’aveva in me e Gino. Oggi faccio l’avvocato penalista
e mia madre non si dà pace. Non capisce o fa finta di non capire il perché
abbia fatto questa scelta, perché abbia deciso di difendere ed accusare i
camorristi e perché abbia voluto ripercorrere i sentieri di una tragedia in una
terra che, a volte, sembra dimenticata da Dio. Ho fatto solo il mio dovere di
figlio. Senza calcoli e senza pretese. L’ho fatto per Te, papà. Gian Ettore”.
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