In questo blog, che ho chiamato “Dalla parte delle vittime”, racconterò storie e percorsi umani di vittime innocenti della criminalità organizzata e dei loro familiari. Delle iniziative per non dimenticare, del loro coraggio e di come hanno saputo trasformare la loro tragedia in un impegno collettivo per cambiare in meglio la nostra società (raffaele sardo 20.7.2011).
lunedì 28 maggio 2012
STRAGE DI BRESCIA. DOPO 38 ANNI E' ORA DI APRIRE GLI ARCHIVI DI STATO
UNA FARFALLA DI MAGGIO. SIMONETTA LAMBERTI, UCCISA 30 ANNI FA
Esattamente trent'anni fa, la piccola Simonetta Lamberti fu uccisa in un agguato camorristico. L'obiettivo era il padre, il magistrato Alfonso Lamberti. Gli assassini ancora non si conoscono, anche se c'è un collaboratore di giustizia che sta rivelando nuove notizie su questa vicenda. Inutile dire quanto è mancata e quanto manca ai suoi cari la piccola Simonetta. Ma manca anche a tutti coloro che l'hanno conosciuta nel tempo attraverso gli scritti della sorella Serena; della mamma Angela e del padre, Alfonso. Stamani si intitola una strada a Simonetta nel Comune di Marano, con una manifestazione pubblica dove, tra gli altri, interviene anche don Luigi Ciotti, presidente di Libera.
Noi la vogliamo ricordare raccontando la sua storia, tratta dal mio libro: "Al di là della notte" (ed. Tullio Pironti)
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Faceva caldo. Faceva davvero caldo quel 29 maggio del 1982. Il sole cocente annunciava che l’estate era vicina. La natura completava il suo ciclo e portava bellezza e vigore ai fiori della Costiera. Simonetta aveva chiesto tante volte a suo padre di portarla al mare. Ma era sempre indaffarato con il suo lavoro di magistrato. Alfonso Lamberti all’epoca era procuratore capo a Sala Consilina e aveva sempre poco tempo per lei. Quel giorno, invece, tornò prima dal lavoro. E al mare il papà ce la portò per davvero. Simonetta aveva ancora i compiti da fare. Guardò la mamma con uno sguardo interrogativo. Come per dire: «Posso andarci anche senza aver fatto i compiti?».
La mamma, Angela, capì e annuì. «I compiti puoi farli anche al ritorno», le rispose. La bambina lasciò i quaderni ancora aperti sul suo banchetto e indossò il costumino giallo dell’anno precedente, mentre la mamma preparava la borsa per il mare. Poco dopo Simonetta era già nella Bmw col padre, alla volta di Vietri sul mare. Da Cava de’ Tirreni a Vietri sono solo cinque chilometri. Con l’auto al massimo ci si mette quindici minuti. A quell’ora, poi, subito dopo pranzo, non c’era proprio nessuno per strada. Simonetta Lamberti aveva dieci anni. Non sapeva che quel giorno sarebbe stato anche l’ultimo della sua vita. Sulla spiaggia c’era poca gente. L’ideale per divertirsi insieme al suo papà come da tempo non faceva. Giocava a fare i tuffi in acqua e si rincorrevano proprio come due bambini. Poi, distesi sugli asciugamani sotto il sole di fine maggio, come a rinfrancarsi del tempo spensierato passato insieme. E quando il sole cominciò ad allontanarsi, ripartirono verso casa. Sarebbero arrivati davvero in pochi minuti. Simonetta si era stancata. Col braccino fuori dal finestrino, provò a chiudere gli occhi, come per dormire nonostante il tragitto da fare fosse breve.
Arrivarono a Cava che erano circa le sedici e trenta. Fu allora che si materializzò la morte. Qualcuno li stava seguendo. Qualcuno che teneva d’occhio il papà magistrato a Sala Consilina. Qualcuno che probabilmente li aveva spiati anche sulla spiaggia di Vietri. Ma né il papà, né Simonetta si erano accorti di niente. All’incrocio tra via Libertà e via della Repubblica un’Audi affianca la Bmw del magistrato. È un attimo. Dalla macchina sparano otto colpi con una pistola P38. Due arrivano a segno. Colpiscono Alfonso Lamberti alla spalla destra e alla testa. Ma uno dei proiettili rimbalza e colpisce Simonetta proprio alla testa. La bambina è ancora appisolata e non s’accorge di cosa accade in quei momenti attorno alla Bmw. L’Audi sgomma e sparisce a tutta velocità. La Bmw è ferma. Accorre gente. La macchina è piena di sangue. È il sangue di Simonetta e del suo papà. Alfonso urla: «Simonetta, Simonetta, svegliati! Piccina mia... Cosa ti hanno fatto!?». Impreca, chiama tante volte per nome la figlia come per svegliarla. Il dramma si consuma sotto i suoi occhi. È incredulo. Poco dopo vengono soccorsi e portati in ospedale a Cava. I medici si renderanno subito conto che la bambina è grave. È stata colpita al cervello. Viene trasferita al Cardarelli a Napoli. Verrà operata d’urgenza. Un tentativo disperato che faranno i medici per cercare di recuperarla alla vita. Ma risulterà vano. Dopo alcune ore trascorse in sala operatoria, Simonetta muore.
Alla mamma, che nel frattempo era arrivata a Napoli per starle vicino, lo faranno capire a poco a poco che la bambina non ce l’ha fatta. Angela Procaccini è disperata. Piange. Soffoca dentro di sé la sua rabbia. Il dolore non ce la fa ad uscire. Resta dentro, come a divorare tutta la sua anima. Un pezzo di sé è andato via. Rischia di portarsi anche lei dietro. I familiari che sono con Angela in ospedale le si stringono intorno. La mamma non vuole crederci. Non può crederci che la sua Simonetta non tornerà più a casa. Che non vedrà più il mare. Che quello è stato il suo ultimo giorno di vita. Aveva tanto tempo davanti a sé per spiccare il volo. Aveva ancora tanti giorni per andare al mare col papà e giocare a fare i tuffi. Ma come una farfalla nel mese di maggio, il destino ha voluto che vivesse solo un giorno di gioia e spensieratezza in quell’estate che si annunciava col sole cocente. Ora non si divertirà più. Non correrà più. Non danzerà più, non riderà più, non ci sarà più. Simonetta sarà solo un ricordo che vivrà attraverso le cose che ha posseduto.
La notizia dell’agguato al giudice Alfonso Lamberti e della morte della sua bambina si diffonde in un baleno. Si parla di un attentato della camorra per uccidere il magistrato. Quella è la pista che seguono gli inquirenti anche se sanno che il giudice era già finito nel mirino delle Brigate Rosse. C’è un testimone che si fa avanti. Era sul luogo dell’attentato e collaborerà con gli inquirenti. Dice di aver riconosciuto l’autista del commando. Ma le indagini non sono semplici. Saranno tre gli indagati rinviati a giudizio. Il quotidiano «la Repubblica» del 17 gennaio 1986 scrive: «Tre presunti camorristi – Francesco Apicella, di 30 anni, di Tramonti (Salerno), Carmine Di Girolamo, di 32, di Aversa (Caserta) e Salvatore Di Maio, di 28, di Nocera Inferiore (Salerno) – sono stati rinviati a giudizio dall’ufficio istruzione del tribunale di Salerno, con l’accusa di essere i responsabili dell’agguato al sostituto procuratore della Repubblica di Sala Consilina, Alfonso Lamberti, nel quale fu uccisa la figlioletta del magistrato, Simonetta, di 10 anni. [...]. Dall’udienza di rinvio a giudizio è emerso che subito dopo il delitto, mentre gli assassini fuggivano, l’Audi a bordo della quale viaggiavano fu “incrociata” da una automobile sulla quale si trovavano tre persone, una delle quali riconobbe Apicella. La responsabilità dei tre sarebbe provata anche dalle dichiarazioni di alcuni camorristi».
Sul quotidiano «la Repubblica» del 4 febbraio ’87 c’è anche la cronaca del processo: «Il pubblico ministero, Leonida Martusciello, aveva chiesto la condanna all’ergastolo di De Maio, indicandolo quale mandante dell’assassinio, di Apicella e di Di Girolamo, ritenuti gli esecutori materiali. Il pm aveva indicato il movente nella vendetta da parte di Raffaele Catapano nei confronti del dottor Lamberti, che nel corso delle indagini sul sequestro del banchiere Mario Amabile, avvenuto a Vietri sul Mare il 2 novembre del 1977, indusse uno dei sequestratori, Biagio Garzione, alla confessione». Ma la sentenza sarà di condanna solo per uno di essi. La corte emette il verdetto dopo quasi dieci ore di camera di consiglio. Condannerà all’ergastolo Francesco Apicella, riconosciuto da un testimone alla guida dell’auto che attentò al magistrato e a sua figlia Simonetta. Mentre sono assolti per insufficienza di prove Salvatore Di Maio e Carmine Di Girolamo, ritenuti due esponenti della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. In Cassazione non ci sarà più nessun colpevole.
Il papà di Simonetta, Alfonso Lamberti, non sa darsi pace. I sensi di colpa lo assalgono. Si sente responsabile della morte della figlia. Alfonso Lamberti negli anni successivi verrà coinvolto in un blitz anticamorra. Viene arrestato il 18 maggio del 1993, in seguito alle rivelazioni di alcuni pentiti. È accusato di aver favorito i camorristi quando dirigeva la sezione misure di prevenzione della Corte di Appello di Napoli. In carcere tentò anche il suicidio. Voleva portarsi dentro la tomba tutto il suo dolore. Finanche quel senso di colpa per la morte della figlia che non l’ha mai abbandonato. Ora scrive libri su quel tragico evento, come per darsi pace. Forse per elaborare un lutto che non ha mai superato. Nei suoi libri Alfonso Lamberti continua a parlare con Simonetta come se fosse ancora viva. Le racconta di tutto attraverso «prosa e poesia, sogno e memoria», come scrive Gore Vidal nella prefazione del suo ultimo libro. Ma traspare in tutti i suoi scritti il senso di angoscia che si porta dentro e che gli fa chiedere continuamente perdono per quella vita spezzata da altri, e di cui si sente il solo responsabile, fino ad autodefinirsi «il boia» della figlia. Il papà di Simonetta è come se avesse avuto una condanna a vivere senza la sua bambina. Una condanna che probabilmente lo accompagnerà fin dentro la tomba.
E non c’è condanna peggiore di quella di sentirsi responsabile della morte dei propri figli. «[...] raccogli nelle tue mani il mio perdono per essermi comportato da padre negletto!», scrive Alfonso Lamberti nel libro Camorra, mafia, brigate rosse? L’omicidio di Simonetta Lamberti, edizioni Graus. «Dovevo nasconderti agli occhi degli assassini, dovevo sapere che, anche tu, eri vittima predestinata all’olocausto. Non avrei dovuto ignorare che vicino a me, con me, andavi contro la fatalità, nel momento stesso in cui ti avevo invitato a “scendere” al mare, a salire sulla mia auto non blindata, quando ti avevo lasciata sola sul lido deserto della marina, quando… quando… quando…». Il papà le chiede anche di più: «Non cercare di rialzarmi dalla polvere in cui mi prostro, non sollevare la mia pesante croce; ascolta, senza lacrime, le mie urla, si perdono nelle notti angoscianti; raccogli, con un benevolo sorriso, con uno sguardo ammiccante, a piene mani, senza respingerlo, il mio strazio, le mie turbolenze psichiche. Ti chiedo, ancora una volta: “perdono”, perdona un padre sciagurato, perdona il tuo boia; andrò più sereno incontro alla morte, mi farò accompagnare dal prete, mio confessore, il quale ripeterà l’ultimo mio desiderio: “Abbi pietà, Signore, di questo carnefice”».
ASimonetta hanno intitolato lo stadio comunale di Cava de’ Tirreni, un’aula della Pretura, strade, scuole, premi scolastici. La ricordano in tanti quella «farfalla di maggio» che non volerà più.
domenica 27 maggio 2012
STRAGE DI VIA DEI GEORGOFILI - UN CORTEO IN PIENA NOTTE PER RICORDARE LE VITTIME
Ricordata stanotte la strage di via dei georgofili a Firenze. Un corteo silenzioso e gremito ha
attraversato il centro cittadino per convergere in via dei
Georgofili, nello stesso punto in cui esattamente 19 anni fa la mafia piazzò
una bomba che uccise 5 persone e ne ferì altre 48. Alle 1.04 è stata deposta
una corona di alloro sul luogo dell'attentato, sul muro della torre che ospita
la sede dell'Accademia dei Georgofili e che venne sventrata dai 200 chili di
tritolo. Al corteo erano presenti, tra gli altri, il sindaco Matteo Renzi, il
procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, la presidente dell'associazione
tra i famigliari della strage di via dei Georgofili Giovanna Maggiani Chelli,
l'arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, rappresentanti della
Regione Toscana, della Provincia di Firenze, delle istituzioni e
dell'associazionismo. Oggi alle 11 viene celebrata nella chiesa di San Carlo in
via Calzaiuoli una messa di suffragio per le vittime e poi in giornata verranno
deposti i fiori sulle tombe delle persone decedute nell'attentato.
La serata per ricordare la strage era
cominciata ieri sera alle 21 in piazza della Signoria, dove è stato
rappresentato lo spettacolo teatrale «Per non morire di mafia» tratto dal libro
di Pietro Grasso e interpretato da Sebastiano Lo Monaco.
Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha
inviato una lettera al sindaco di Firenze, Matteo Renzi, in occasione del 19
anniversario della strage di via dei Georgofili «Una strage che ferì nel
profondo la sua città - scrive Orlando - e, con essa, l'intero Paese e il suo
patrimonio culturale. Desidero esprimerle la vicinanza e la solidarietà mia
personale, della giunta comunale e di tutta la città di Palermo. L'impegno
importante e prezioso di un pool di magistrati ha permesso di fare luce sugli
esecutori e i mandanti diretti di quella strage che fu parte di un periodo buio
della nostra Repubblica, foriero di lutti e violenze e purtroppo ancora pieno
di tanti misteri«. »Le nostre città - conclude Orlando - sono unite dal dolore
e dall'essere vittime della violenza mafiosa e stragista. Sono ugualmente unite
dalla capacità di rinascere e di ricostruire sulle macerie, di saper essere
comunità che fa fronte alla violenza e alla barbarie con la cultura della
legalità. Sono certo che queste dolorose esperienze hanno rafforzato, anziché
fiaccarle, la voglia di rinascita, la capacità di sognare e costruire un futuro
migliore«.
giovedì 24 maggio 2012
CELEBRATI I FUNERALI DI STATO PER PLACIDO RIZZOTTO
Stamani si sono svolti a Palermo i funerali di Stato per Placido Rizzotto, , il sindacalista della Cgil, ucciso dalla mafia 64 anni fa. La cerimonia funebre è avvenuta nella chiesa Matrice San Martino davanti al capo dello Stato, Giorgio Napolitano e a numerose altre personalità. Rima dei funerali il capo dello Stato ha consegnato alla sorella del sindacalista, Giuseppa Rizzotto, la medaglia d'oro al merito civile alla memoria. I resti del sindacalista furono ritrovati a Roccabusambra, foiba trasformata in cimitero dalla mafia, un anno dopo la scomparsa di Rizzotto, dall'allora giovane comandante dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Due mesi fa, grazie alla comparazione del Dna con quello del padre, gli esperti hanno accertato che quei resti sono di Rizzotto. I funerali di Stato sono stati approvati dal Consigli dei Ministri il 16 marzo scorso.
Zio Placido». E’ iniziato così l'intervento di Placido Rizzotto, nipote omonimo del sindacalista ucciso dalla mafia nel '48, nell'affollata chiesa di Corleone (Palermo) «Non ti ho mai conosciuto personalmente - continua - ma solo attraverso le parole appassionate di chi ti ha vissuto accanto: nonna Rosa ad esempio, che ho sempre visto vestita di nero». Poi ricordando i 42 sindacalisti uccisi da Cosa nostra ha ribadito: «Si deve riscrivere la storia di questi uomini, chiediamo giustizia e verità per tutti loro». E ha concluso: «zio Placido riposa in pace, ora tocca a noi vincere».
«C'è sempre bisogno della presenza dello Stato e non abbiamo mai pensato, neanche per un momento, che la mafia fosse finita. Finirà, ma non è ancora finita». Così, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, uscendo dalla Chiesa madre di Corleone (Palermo) ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano se c'è sempre bisogno di più attenzione nella lotta contro criminalità e terrorismo.
Alla fine della cerimonia, il capo dello stato si è recato a Portella della Ginestra per ricordare i lavoratori vittime della strage del 1 maggio 1947.
Durante l’omelia, l'Arcivescovo di Monreale, Monsignor Salvatore Di Cristina, non ha mai pronunciato la parola Mafia. A sottolinearlo è il segretario nazionale del PSI, Riccardo Nencini.
“È stata la mafia ad uccidere Placido Rizzotto. Non dicendolo, lo uccideremo due volte». A dirlo è Riccardo Nencini, segretario nazionale del Psi, presente a Corleone ai funerali di Stato di Placido Rizzotto, commentando le parole dell'Arcivescovo di Monreale, Monsignor Salvatore Di Cristina che ha celebra le esequie del sindacalista socialista di cui sono stati ritrovati i resti. Nencini ha osservato che «Monsignor Di Cristina, durante le esequie, non ha mai citato la parola mafia. Rizzotto morì per la libertà e giustizia, sprezzando un clima mafioso di omertà, per difendere i più deboli. Restituiamogli l'onore e la dignità. Caro monsignore - conclude Nencini - lo ricordi ai suoi figli».
Le dichiarazioni di altre personalità presenti ai funerali:
Don Luigi Ciotti: «Placido Rizzotto ha continuato a parlare in questi anni, lo ha fatto attraverso il piccolo Giuseppe Letizia, unico testimone del delitto, attraverso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, attraverso Pio La Torre». Lo ha detto don Luigi Ciotti, arrivando a Corleone per i funerali di Stato a Placido Rizzotto, sindacalista assassinato dalla mafia nel '48. «Siamo felici di essere qui oggi - aggiunge - Corleone è cambiata, ha reagito alla prepotenza della mafia».
Susanna Camusso (segretario nazionale CGIL): «I funerali di Stato di Placido Rizzotto rappresentano una nuova stagione. Oggi chiederemo che si faccia giustizia, anche se molti protagonisti sono morti vogliamo che si riaprano i processi per i tanti sindacalisti assassinati dalla mafia». Lo dice il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, arrivando a Corleone per i funerali di Stato di Placido Rizzotto, il sindacalista della Cgil ucciso nel '48 e il cui cadavere fu gettato nella fossa comune di Roccabusambra.
Ai funerali erano presenti anche il Ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, L’ex segretario del PD, Walter Veltroni, il nuovo sindaco di Palermo, Leoluca Orlando.
Al termine dei funerali di Rizzotto, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, si è recato a Portella della Ginestra, località di Piana degli Albanesi (Palermo) dove il primo maggio del 1947, la mafia sparò su una manifestazione di contadini, facendo 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. Per rendere omaggio alle vittime della strage, Napolitano ha ricordato come la «violenza stragista ha colpito gli obiettivi più alti. È giusto - ha concluso Napolitano - ritornare a Portella, questo è il punto di partenza, lo è anche la terra di Corleone e di Placido Rizzotto».
sabato 19 maggio 2012
PINO AMATO, ASSESSORE REGIONALE, UCCISO IL 19 MAGGIO DEL 1980
E’ la mattina del 19 maggio del 1980. Pino Amato, assessore regionale al Bilancio e alla programmazione, ha appena finito di fare colazione. Da tre giorni viene a prenderlo con una Fiat 131 blindata di colore grigio metallizzato Ciro Esposito, un autista messogli a disposizione da Vincenzo Scotti, Ministro del Lavoro fino a qualche mese prima, ed esponente di rilevo nazionale della Dc con il quale aveva formato il gruppo "Nuova Napoli", un centro studi per contribuire a rinnovare il partito. A Napoli si avvicina una competizione elettorale che si preannuncia difficile e tutti gli uomini di partito della Democrazia Cristiana sono impegnati al massimo. L’assessore regionale ha ricevuto delle minacce e con la campagna elettorale in atto e il clima difficile che c’è in Campania, come nel resto del paese, un’auto blindata può essere importante. Pino Amato abita con la famiglia in via Chiaia 145, in un palazzo nobiliare.
Poco dopo, l’auto con dentro l’assessore regionale comincia il solito tragitto mattutino per raggiungere il palazzo della Regione, a Santa Lucia. All’altezza di vico Alabardieri, nei pressi del ristorante “Umberto”, una Fiat 500 blu blocca il traffico. Alla guida una donna che cerca di fare manovra per parcheggiare l’auto, ma non vi riesce. Anche la Fiat 131 interrompe la sua marcia verso la Regione. Poi, all’improvviso, la ragazza scende dall’auto e si avvicina a quella dove viaggia Pino Amato. Con lei anche un giovane sui 30 anni che indossa un impermeabile e occhiali scuri. La donna, invece, indossa un giubbotto scuro e porta con sé una enorme borsa. Si avvicina e scruta nella Fiat 131 guardando dritto negli occhi Pino Amato: “E’ lui, è proprio lui”. Dice con decisione. L’uomo con l’impermeabile estrae una grossa pistola con un caricatore bifilare e preme il grilletto. Spara ma non si odono rumori. L’arma, una Beretta da guerra, è stata modificata. Ha un silenziatore ricavato da un gonfiatore di bicicletta imbottito di lana di vetro. Colpisce da vicino l’assessore. Più di dieci colpi. In fronte, in una tempia, nello sterno, nell’emitorace sinistro. Un massacro. Pino Amato muore subito. L’autista è colto di sorpresa, non riesce a credere ai suoi occhi, ma trova la forza di reagire. Ha una pistola con sé, la estrae dalla cintola e spara a sua volta. La donna risponde al fuoco, ma Ciro Esposito evita il colpo. I due killer scappano in direzione di Piazza dei Martiri. Non sono soli.
Con loro si materializzano altri due complici. L’autista continua a sparare e colpisce il killer ad una gamba. Dopo il colpo barcolla, ma riesce a scappare. Viene colpito anche un passante. E’ un ingegnere, Domenico Tucci, di 78 anni, una pallottola lo colpisce alla caviglia. Intanto è scattato l’allarme. Per le strade dove si spara la gente scappa impaurita. Il killer ferito ha difficoltà a correre e perde anche sangue. Con la pistola in pugno si infila in un taxi. L’autista scappa. Cerca di metterlo in moto da solo, ma inutilmente. Poco più in là trova una “Skoda” con le chiavi inserite. Si avvia verso via Filangieri per raggiungere Piazza del Plebiscito. Forse ha un complice che lo attende.
L’allarme è scattato. Decine sono le telefonate al 113. Ormai le forze dell’ordine sanno in che direzione stanno scappando gli autori dell’omicidio. All’altezza del teatro Politeama, il killer in fuga incrocia gli altri tre complici arrivati da via Monte di Dio. Cercano di uscire dal dedalo di viuzze che corre nel cuore della Napoli antica dov’è difficile correre ad alta velocità. In piazza Trieste e Trento incrociano una “Alfetta” della Volante. I militari riconoscono l’auto dei fuggitivi. Avvisano le altre pattuglie via radio e comincia l’inseguimento. La Skoda devia per Santa Lucia, ma oramai la polizia gli sta addosso. Dall’auto dei killer di Pino Amato lanciano una bomba a mano tipo ananas, che cade proprio sul tetto della pantera che li segue. La bomba, per fortuna dei militari, non esplode. I poliziotti dall’auto sparano a loro volta raffiche di mitra nei confronti della Skoda. Feriscono nuovamente l’autista. Stavolta alla schiena e alle braccia. Viene ferito anche un passante, Bruno Vitale, di 36 anni. Dall’auto vengono lanciate altre due bombe a mano che non esplodono. La città oramai è chiusa in una morsa. Scatta il piano di emergenza stabilito dal Questore. I militari riescono a chiudere tutte le possibili vie di fuga.
La corsa dei quattro fuggitivi finisce a Santa Lucia. Li circondano decine di agenti armati pronti a fare fuoco. Non hanno più scampo gli assassini di Pino Amato. “Siamo militanti delle Brigate Rosse, ci dichiariamo prigionieri politici”. Pronunciano solo queste parole. I quattro si arrendono anche se hanno con loro un arsenale chiuso in un borsone: quattro pistole, un fucile mitragliatore, un mitra, centocinquanta cartucce e un giubbotto antiproiettile. L’uomo ferito è l’unico che dichiara subito le generalità. Si tratta di Bruno Seghetti 30 anni, romano. Gli altri tre si rifiutano di parlare. Il ferito viene trasportato all’ospedale Pellegrini e piantonato. Nello stesso ospedale viene trasportato anche Pino Amato. Ma il suo corpo è già privo di vita. La donna viene identificata dopo qualche ora. E’ Maria Teresa Romeo, di 25 anni da Avellino, moglie di Nicola Valentino, altro militante delle Br già in carcere. Gli altri due sono in possesso di carte d’identità contraffatte e non è facile risalire subito all’identità. Vengono identificati a tarda sera. Si tratta di Salvatore Colonna e Luca Nicolotti, rispettivamente di 22 e 26 anni.
Pino Amato era nato a Torino nel 1930. Si era trasferito a Napoli ancora giovanissimo cominciando la sua carriera politica nella sezione DC di Capodimonte. Cresciuto nell’Azione Cattolica, è stato per alcuni anni Direttore Amministrativo del Formez. Sposato con Mariolina Ciccarelli, dal cui matrimonio sono nati due figli, Arnaldo e Fabrizio. Si affermò come innovatore della politica e non solo a livello locale. Fautore del dialogo con il Partito Comunista, divenne punto di riferimento della corrente Andreottiana in Campania, unitamente all’onorevole Cirino Pomicino. Amico personale del ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, rappresentava un’alternativa ai dorotei napoletani.
La rivendicazione dell’omicidio arriva puntuale poche ore dopo l’agguato con una telefonata all’Agenzia Ansa: “Qui Brigate Rosse. Un nucleo armato dell’organizzazione ha giustiziato l’assessore regionale Dc al Bilancio e alla programmazione, Giuseppe Amato…”.
mercoledì 16 maggio 2012
DOMENICO NOVIELLO, UCCISO IL 16 MAGGIO 2008, PER AVER DENUNCIATO I SUOI ESTORSORI
I killer la mattina del 16 maggio del 2008 lo stavano aspettando nei
pressi della rotonda della piazzetta di Baia Verde, a Castel Volturno, uno dei
quartieri più affollati del litorale domizio. Qualcuno aveva già segnalato che
era uscito di casa a bordo della sua Fiat Panda. Avrebbe preso un caffè al bar
e poi si sarebbe recato, come sempre, nella sua autoscuola al parco Sementini.
Proprio a fianco del commissariato di polizia di Castel Volturno. Non ci arrivò
mai.
“Dovevo essere con lui nella stessa auto - racconta il figlio Massimiliano - andavamo sempre insieme al lavoro. Invece uscii alle 7, mezz’ora prima di mio padre, per andare a fare un po’ di footing in spiaggia. Chissà perché il destino ha voluto così. Se fossi andato con lui, a quest’ora non sarei qui. Mi manca molto, e questo mi fa stare male”.
Domenico Noviello nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte del clan Bidognetti. Con la sua testimonianza contribuì a far condannare il pregiudicato Pasquale Morrone, poi morto per cause naturali, ed i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo. Ora gliela dovevano far pagare. La sua morte avrebbe significato anche una lezione preventiva agli imprenditori che “non si erano messi in regola” con la camorra. E sul litorale domizio, territorio in mano al clan di Francesco Bidognetti, negli ultimi tempi erano diversi gli imprenditori che avevano avuto il coraggio di ribellarsi.
Un germe pericoloso quello del rifiuto di pagare che Setola e i suoi affiliati volevano stroncare subito. Bisognava dare un esempio e una lezione. Uccidere Noviello era semplicissimo. Non era protetto. Faceva sempre lo stesso percorso e non si aspettava proprio ora una vendetta della camorra dopo tanti anni dalla sua denuncia. L’agguato, insomma, avrebbe presentato pochi rischi. Fino al 2003 Domenico Noviello aveva una vigilanza sotto casa, un sistema di tutela per la sua testimonianza che era venuto meno. Così si era armato. Un regolare porto d’armi. Frequentava il tiro a segno. Si teneva in allenamento andando in palestra. Noviello conosceva il codice non scritto della camorra. Sapeva che prima o poi la vendetta di quelli che aveva denunciato sarebbe arrivata. Non sapeva quando e, in ogni caso, non li temeva. Continuava a fare le cose di sempre prestando solo più attenzione. La sua unica preoccupazione era che i familiari non venissero coinvolti nella ritorsione.
"Da me non avranno mai un soldo perché me li guadagno col sudore della mia fronte", rispondeva a chi gli chiedeva di adeguarsi al comportamento di tutti gli altri imprenditori del territorio. Quella mattina, come sempre, alle 7,30 un caffè con la moglie e via con la sua Fiat Panda verso la Domiziana, in direzione Castel Volturno. Più avanti imboccò il viale che porta a Baia Verde. Alla piazzetta girò per viale Lenin, all'incrocio con via Vasari. Lo stavano aspettando un’auto e una moto di grossa cilindrata. Almeno 6 uomini armati, pronti a farlo fuori. Avevano studiato il percorso che faceva Noviello già da alcune settimane. Sapevano che doveva passare di lì. Le strade a quell’ora erano quasi deserte. I negozi chiusi. Noviello rallenta perché a terra ci sono dei dossi. Due o più sicari lo raggiungono. Lo affiancano e aprono il fuoco con pistole di grosso calibro. Noviello riesce a fermare l'auto, ma i killer gli sono addosso. Tenta di prendere la pistola che porta con sé, ma non vi riesce. Gli arrivano tanti colpi. Cerca di fuggire. Apre la portiera dell’auto, ma fa solo pochi passi. Contro di lui i camorristi infieriscono con ferocia. Gli scaricano addosso almeno una ventina di proiettili. Cade a terra. Il suo corpo è vinto. Ma il rituale di morte impone anche il colpo di grazia. Gli esplodono tre colpi alla nuca. I camorristi scappano. Domenico Noviello, 64 anni, originario di San Cipriano di Aversa, muore in pochi attimi. I killer della camorra hanno compiuto la loro missione consegnando un messaggio forte e chiaro: “Chi si ribella alla camorra muore”. Gli altri imprenditori sono avvisati.
Ai suoi funerali, ci sarà pochissima gente. Pochi amici, pochi colleghi di altre autoscuole, pochi commercianti, poche autorità. “Mio padre non era uno che combatteva contro i mulini a vento. Non era neppure un eroe – si sfoga Massimiliano Noviello - Era un uomo che aveva molta dignità. Si è solo rifiutato di piegarsi alla legge dei violenti. Lo ha fatto per potersi guardare allo specchio e non provare vergogna. Lo ha fatto per non sentirsi umiliato.” Nella famiglia di Mimmo Noviello c’era già stato un precedente. Trent'anni prima il fratello della moglie era stato ammazzato a soli 33 anni, per lo stesso motivo. “Quando sono andati a chiedere il pizzo a mio padre e lui ha detto che non voleva pagare, io sono stato d'accordo – dice Massimiliano - Non ce l’avrebbe fatta a vivere con quell’umiliazione. Pagare per lui avrebbe significato perdere la voglia di vivere. Ora il dolore per la sua morte, quello che ti dilania l'animo, quello che ti accompagnerà e segnerà per sempre tutta la vita, è insopportabile”.
Ora i suoi assassini sono tutti in carcere. A Mimmo Noviello il Comune di Castel Volturno ha intitolato una piazza proprio nel luogo in cui fu ucciso, e il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 19 marzo del 2009 gli ha assegnato la medaglia d’oro al valore civile.
martedì 15 maggio 2012
FAMILIARI VITTIME TERRORISMO PROTESTANO CONTRO TRASMISSIONE DI LUCIA ANNUNZIATA
mercoledì 9 maggio 2012
GIORNO DELLA MEMORIA VITTIME DEL TERRORISMO. UN INTERVENTO DI ANTONIO CELARDO, PRESIDENTE DELL'ASSOCAZIONE TRA I FAMILIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE DEL TRENO RAPIDO 904
Anche quest’anno alle ore 10.30 si terrà al Palazzo del Quirinale la celebrazione della Giornata dedicata alle vittime del terrorismo. L’Associazione tra i famigliari delle vittime della strage sul treno Rapido 904 del 23 dicembre 1984 che ha la propria sede a Napoli alla cerimonia, insieme a cinque studenti (tre napoletani) figli di nostri associati, sorteggiati tra i vincitori delle borse di studio assegnate ai figli delle vittime dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Ministero dell’Istruzione.
L’istituzione di una giornata per ricordare le vittime del terrorismo e delle stragi è un fatto estremamente importante, di cui è ampiamente condiviso l'alto valore etico, politico e sociale.
Dobbiamo ricordare che in Italia, dal dopoguerra ad oggi, vi sono state innumerevoli stragi con un numero spaventoso di morti e feriti, ma che in nessuna di esse si è arrivati a colpire mandanti e ispiratori politici.
Furono anche i cittadini semplici, impegnati nella vita quotidiana che vennero colpiti, subendo lo stravolgimento della loro vita, del modo di stare insieme e, nonostante ciò, reagirono, non accettando quella violenza,respinsero il ricatto terroristico e si costituirono in Associazioni(la nostra si costituì a Napoli il 17 marzo 1985) per non far dimenticare il senso di quella violenza, le sue ragioni, le sue sofferenze. Da Piazza Fontana in poi furono i cittadini che reagirono unitariamente, cioè al di là delle sigle o dei gruppi di appartenenza e bloccarono i vari tentativi di stravolgere e condizionare la democrazia italiana a fronte delle ambiguità, delle inefficienze e della connivenza di parte dello Stato. È doveroso ricordare tutto ciò, è doveroso che quell’epoca di sangue venga conosciuta e che le ombre che ancora avvolgono quel periodo vengano diradate.
Non dobbiamo dimenticare le moltitudini di persone che hanno partecipato ai funerali e alle manifestazioni dopo la varie stragi a Milano, Brescia, Bologna ,Napoli e Firenze: alle ambiguità delle autorità fu contrapposta una risposta ferma e decisa dei cittadini che in prima persona hanno impedito che con le stragi si arrivasse a stravolgere l’ordinamento repubblicano.
L’ articolo due della di legge n.56/07 pone l’accento sulla necessità che vi siano cerimonie in tutto il paese e che soprattutto vi sia, nelle scuole, la necessaria informazione/formazione che consenta di sviluppare percorsi formativi di cittadinanza attiva e di democrazia partecipata, coniugando ricordo, conoscienza e formazione.
Abbiamo vissuto un periodo che è bene le giovani generazioni ( anche di Napoli e della Campania) conoscano e possano analizzare.
Riteniamo sia assolutamente necessario che la stagione delle stragi e del terrorismo non venga dimenticata e crediamo inoltre che quel periodo, con tutte le ambiguità istituzionali che hanno di fatto garantito l’impunità degli artefici e soprattutto dei mandanti, sia fatto conoscere alle giovani generazioni.
Perché questo è il punto: la scelta di dedicare una giornata di riflessione sulla nostra storia recente assume grande valore, ma ha un senso se si presenta come volontà istituzionale di capire le ragioni di quel terrorismo,perché ha colpito così, e per così lungo tempo l’Italia, accompagnando al ricordo la volontà esplicita di conoscere le dinamiche, anche quelle rimaste nascoste, e di comprendere perché non sia stato possibile fare sulle stragi completa luce.
Perché questo è il punto: la scelta di dedicare una giornata di riflessione sulla nostra storia recente assume grande valore, ma ha un senso se si presenta come volontà istituzionale di capire le ragioni di quel terrorismo,perché ha colpito così, e per così lungo tempo l’Italia, accompagnando al ricordo la volontà esplicita di conoscere le dinamiche, anche quelle rimaste nascoste, e di comprendere perché non sia stato possibile fare sulle stragi completa luce.
Napoli e la Campania hanno attraversato una lunga stagione di sangue a partire dal 1978 e per tutti gli anni ottanta . Nel 1978 veniva ucciso dalle BR Raffaele Paolella docente universitario medico legale del carcere di Poggioreale, e negli anni seguenti : Nicola Giacumbi Procuratore Capo della Repubblica di Salerno,Pino Amato Assessore regionale ,Luigi Carbone agente di scorta e Mario Cancello autista dell'assessore regionale Ciro Cirillo, Raffaele Delcogliano Assessore regionale e Aldo Iermano suo autista,Antonio Ammaturo capo della Squadra mobile di Napoli e il suo autista Pasquale Paola, gli agenti Mario De Marco e Antonio Bandera e il caporale Antonio Palombo;
Raffaele Iozzino componente della scorta di A. Moro, le 16 vittime della strage sul treno Rapido 904, le cinque vittime della strage di Calata S.Marco del 1988.
Facciamo appello in questa occasione alla coscienza civile della città di Napoli, alle istituzioni locali in primo luogo alla scuola ,agli studiosi dei fenomeni criminali, agli storici,al mondo accademico, alla stampa di impegnarsi di più nel difficile compito di mantenere viva la memoria, perchè anche le nuove generazioni che non hanno vissuto direttamente quelle tragedie, possano conoscere i drammi e le sofferenze provocati dai quei tragici eventi.
ANTONIO CELARDO
Presidente ass. Familiari vittime strage rapido 904
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