In una intervista
raccolta dall’agenzia ADNKronos, è la moglie, Pina Misano, a ricordare la sua
uccisione e la scelta di non pagare.
Era solo Libero. Solo nel rifiutare il pizzo, “l’obolo”
mensile, che tutti pagavano in silenzio. Ma, soprattutto, era solo nella sua
ostinata denuncia. Nel volere a tutti i costi parlare di mafia in una città
assopita dopo anni di omertà e connivenza. Cosa nostra non esiste, gli
imprenditori siciliani non pagano il pizzo, dice il presidente di Confindustria
di allora. La sua impresa, la Sigma, era sana, produceva biancheria intima ed
aveva un bilancio in attivo. »La prima volta mi chiesero i soldi per i “poveri
amici carcerati”, i “picciotti chiusi all'Ucciardone” - scrive Grassi in una
lettera pubblicata dal Corriere della Sera -. Quello fu il primissimo contatto.
Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate
minatorie: “Attento al magazzino”, “Guardati tuo figlio”, “Attento a te”«. »Il
mio interlocutore - racconta - si presentava come il geometra Anzalone, voleva
parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di
incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla
mafia, decisi di denunciarli”.
Ma lui, quell'uomo austero, convinto sostenitore
della libertà d'impresa non ci sta. Non si piega, non accetta, non ammicca. E
la sua ribellione la grida. Forte e chiara perché possa varcare i confini di
Palermo e della Sicilia. Prende carta e penna e il 10 gennaio del 1991 scrive
al Giornale di Sicilia. È una lettera indirizzata al suo «Caro estortore».
«Volevo avvertire il nostro ignoto estortore - dice Libero Grassi - di
risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di
micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e
ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica
con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50
milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile,
saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no
al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui».
Poche parole. Troppe per Cosa nostra. Una sfida a
viso aperto da punire. Una pena esemplare, pubblica, plateale. Perché
quell'uomo austero non sia di esempio ad altri, perché la ribellione non
diventi contagiosa. Il 29 agosto del 1991 Salvatore Madonia lo attende sotto
casa, in via Alfieri, e lo uccide sparandogli alle spalle. Per quell'omicidio
molti anni dopo fu condannato all'ergastolo e, come lui, altri boss del calibro
di Totò Riina e Bernardo Provenzano. «Libero è stato ucciso - dice Pina Maisano
- perché pubblicamente ha parlato di mafia, perché era un elemento di disturbo
nel tran tran che si era creato, perché la mafia era un tabù e se di una cosa
non si parla quasi non esiste. Invece, Libero ne parlava, le toglieva
importanza, quasi la declassava». Ad uccidere materialmente Grassi fu la
violenza del piombo mafioso, ma le colpe, le responsabilità di quella tragica
morte vanno ricercate altrove. Nel silenzio, nell'indifferenza di una città
troppo fragile per resistere all'esempio eversivo della dignità e del rispetto
delle regole. Ci sono voluti 13 anni perché Palermo si risvegliasse, perché
nascesse il primo comitato antiracket, AddioPizzo, “i miei nipoti” li chiama Pina,
e a distanza di tre anni “LiberoFuturo”, la prima associazione di imprenditori
e liberi professionisti che hanno detto no al pizzo.
«Magistrati e forze dell'ordine lavorano bene, i
capi di Cosa nostra sono tutti al 41 bis - dice la vedova Grassi -. Cosa nostra
è in difficoltà e la riscossione del pizzo non è più la fonte principale di
sostentamento economico dei boss, che sono tornati a traffici più remunerativi,
come quello della droga. Oggi siamo in una situazione migliore rispetto a 20
anni fa. Abbiamo un presidente della Regione e un sindaco che sono persone
perbene di cui io mi fido». Eppure, assicura, «c'è ancora molto da fare».
Soprattutto sul fronte dell'educazione delle giovani generazioni. Sull'etica
della legalità. «Occorre cominciare dai ragazzi, far capire che comportarsi in
maniera etica produce vantaggi. E poi è necessario stare accanto agli
imprenditori che denunciano, far sentire loro quella solidarietà, che Libero
non avvertì mai. Probabilmente se avesse trovato persone solidali la storia
sarebbe stata un'altra. Le cose sarebbero andate diversamente» conclude amara.
E del pioniere della legalità restano le parole. «È una questione di dignità».