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L'agguato a Franco Imposimato |
Una data, l’11 ottobre 1983, due omicidi: Ignazio De Florio e Francesco Imposimato. Il
primo, guardia carceraria a Carinola, ucciso poco dopo le 16, appena uscito dal
carcere. Il secondo ucciso a Maddaloni, poco dopo le 17, a circa 50 chilometri
di distanza, appena uscito dalla Face standard, la fabbrica dove lavorava come
impiegato. Due storie che si intrecciano. Per l’omicidio di De Florio si
autoaccusò il collaboratore di giustizia, Antonio Abbate, affiliato al clan Lubrano-Nuvoletta
di Pignataro Maggiore. Disse che era lui l’autista del commando che uccise De Florio.
Ma Abbate venne riconosciuto come uno dei killer sul luogo dell’omicidio di
Imposimato da Maria Luisa Rossi, moglie di Franco Imposimato e ferita in quell’agguato.
I giudici di primo grado al processo Imposimato presero per buona la sua
versione. Abbate non poteva stare materialmente
in due posti diversi distanti 50 chilometri e percorrere quella distanza
in meno di un’ora. In secondo grado, i giudici hanno accolto, invece, la tesi del PM
Federico Cafiero De Raho, condannandolo all’ergastolo per l’omicidio
Imposimato. Non è stato mai processato per l’omicidio di De Florio. E,
pertanto, gli assassini della guardia carceraria sono ancora sconosciuti.
L’omicidio De Florio
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Ignazio De Florio |
Finito il turno di servizio nel carcere di Carinola, Ignazio
De Florio, 24 anni, verso le 16,10 sale sulla sua Peugeot 304 di colore
grigio-azzurro per avviarsi verso casa. Abitava
a qualche chilometro di distanza, dove lo aspettavano sua moglie,
Angelina Cozza, 24 anni e sua figlia Luisa, di appena 16 mesi. Fuori dal
carcere lo aspettava un commando di camorristi. Erano in attesa in una ford
Fiesta pronti ad entrare in azione per uccidere, a caso, il primo agente che usciva dal penitenziario. C’era in atto una campagna di aggressioni nei confronti delle
guardie carcerarie, accusati di maltrattamenti nei confronti dei detenuti. Però c'era anche l’ala
cutoliana della camorra che voleva affermare,
attraverso il terrore, il dominio nelle carceri. Facevano di tutto per far
entrare nei luoghi di detenzione coltelli, pistole, droga, soldi,con la
complicità delle guardie carcerarie. Chi non si piegava, veniva ucciso. Quel
giorno il primo ad uscire dal carcere è Ignazio De Florio. Dopo di lui esce un altro agente, Carlo De Nunzio, a
bordo di una Fiat 128. L'agguato avviene dopo pochi minuti. La Panda affianca l'auto di De Florio. I killer sparano a ripetizione. L’agente De Nunzio assiste terrorizzato alla scena. Sparano
anche contro di lui. Due colpi passano di striscio sul tetto della sua fiat 128.
Si ferma. Ingrana la retromarcia, ma finisce nel fosso a lato della strada. Per
uscire dall’auto e scappare, si infila dal finestrino anteriore. Dopo pochi
minuti riesce ad arrivare al carcere per dare l’allarme. Quando arrivano i carabinieri, Ignazio De Florio mostra ancora segni di
vita. Un ambulanza lo trasporta all’ospedale di Teano, ma muore poco
dopo. Sono le 17 dell’11 ottobre del 1983. A Maddaloni, a cinquanta
chilometri di distanza, un altro commando ammazza Francesco Imposimato, il
fratello del giudice Ferdinando.
L’omicidio di Franco Imposimato
“Quel giorno – dice Giuseppe
Imposimato, il primogenito di Francesco – in macchina con i miei genitori c’era
anche Puffi, un barboncino che regalarono qualche anno prima a mia mamma. Non voleva
stare a casa e così lo portavano in fabbrica con loro. Era sdraiato sui sedili
posteriori. Quando i killer spararono, lui uscì dalla
macchina e corse sotto la portineria della Face Standard,
che distava trecentocinquanta metri dal luogo dell’agguato. La
gente capì che era successo qualcosa. Accorsero molti colleghi
di lavoro di papà e mamma. Ma sul posto, prima di ogni altro,
giunsero dei militari che stavano passando proprio in quel momento
da quelle parti e che sentirono i colpi. Videro mia mamma
uscire dall’auto, nonostante fosse gravemente ferita. La osservarono
fare solo pochi passi e poi cadere a terra svenuta. I killer
scapparono a tutta velocità. I militari, invece, si avvicinarono a
mia mamma, la presero e la portarono all’ospedale sul loro
mezzo. Se non fosse stato così rapido il soccorso, mamma sarebbe
morta dissanguata. Il capo di quei militari era un suo compaesano,
Pasquale Brignola. Fu lui che riuscì a individuare la
targa dell’auto: una Fiat Ritmo bianca che fu trovata nelle campagne
di Briano, nei dintorni di San Leucio, la città della seta.
Mamma lo rivide solo al processo e lo volle ringraziare».
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Maria Luisa Rossi |
«… era un giorno
lavorativo - racconta Maria Luisa Rossi,
la moglie di Franco - e con mio marito stavamo uscendo dalla fabbrica. Potevano
essere le 17,20. Salimmo nella nostra Ford Escort di colore
verde per andare a prendere i bambini a scuola. A
pochi metri dall’uscita della fabbrica trovammo una macchina parcheggiata
in curva che ci impediva quasi di girare. Mio marito nel
fare la manovra di sorpasso rallentò. La macchina, una Fiat
Ritmo, era ferma. Chiunque fosse passato di lì, doveva per forza
rallentare. A quel punto intravidi delle persone. Si avvicinavano a
piedi, di corsa. Di uno ho visto solo le gambe, perché stava
davanti alla macchina. Un altro si è messo dalla parte di mio
marito. È stata questione di attimi. Non ci eravamo resi conto
di quello che stava succedendo. In auto con noi avevamo il
nostro barboncino, Puffi che abbaiava come un ossesso. Forse aveva
percepito il pericolo. All’improvviso questi due tizi cominciarono
a sparare. Si sentivano solo colpi di pistola, e tanto fumo
che non riuscivamo più a respirare. Nell’attimo stesso che mi
girai per guardare il cane, mio marito mi chiese: “Ma che sta succedendo?”.
Ci incrociammo con gli sguardi. E fu anche l’ultima volta
che ci guardammo negli occhi. Franco venne colpito da
undici colpi di pistola. Morì quasi subito. Nell’autopsia è scritto
che morì per shock emorragico e traumatico. Il killer che era
davanti non l’ho visto bene in faccia. Ma l’altro sì. Era un uomo
non molto alto, giovane, grassottello, piuttosto scuro di pelle,
con due rughe che solcavano le guance, con i capelli di colore
nero tirati all’indietro. Venni colpita al petto. Un colpo mi perforò
tutti e due i polmoni. Riuscii appena ad aprire lo sportello, perché
in macchina non respiravo. Ricordo solo che il fumo aveva
invaso la Ford Escort. Non riuscivo a vedere più niente. Aprii
lo sportello e caddi a terra svenuta… non ricordo altro».
La testimonianza del
Procuratore Cafiero De Raho
Antonio Abbate non venne ritenuto credibile.. “C’erano molte
incongruenze nelle cose dette da Antonio Abbate – ricorda Federico Cafiero De Raho, PM al processo
per l’uccisione di Franco Imposimato - evidentemente
aveva raccolto quelle informazioni tramite qualcuno che aveva veramente
partecipato all’omicidio. E non poteva essere vero che risultava come uno del
commando, perché la moglie di Francesco Imposimato lo aveva riconosciuto come
uno dei killer. E così nel processo di Appello feci presente quello che secondo
me non poteva essere vero e la Corte ha accolto la mia tesi, condannando Abbate
all’ergastolo per l’omicidio Imposimato, confermato dalla Cassazione.
Ovviamente se il pentito era stato dichiarato non credibile, anche le cose
dette sul delitto di Ignazio De Florio non sono vere. Così il processo non si è
mai fatto, perché gli autori del delitto sono rimasti ignoti.”