In questo blog, che ho chiamato “Dalla parte delle vittime”, racconterò storie e percorsi umani di vittime innocenti della criminalità organizzata e dei loro familiari. Delle iniziative per non dimenticare, del loro coraggio e di come hanno saputo trasformare la loro tragedia in un impegno collettivo per cambiare in meglio la nostra società (raffaele sardo 20.7.2011).
sabato 29 ottobre 2011
A ROMA SI LAVORA PER CONSULTA FAMILIARI VITTIME TERRORISMO
PIERO GRASSO: DIETRO LE STRAGI DI MAFIA SI INTRAVEDE DELL'ALTRO
STRAGE DI USTICA: LEGALE VITTIME, SI VA VERSO NUOVO PROCESSO
venerdì 28 ottobre 2011
GIOVANNI POMPONIO VICE BRIGADIERE DELLA POLIZIA DI STATO, VIENE UCCISSO DURANTE UNA RAPINA
Doveva andare in pensione il 2 novembre. Mancano solo quattro giorni per quel traguardo raggiunto dopo 37 anni di servizio. Il 28 ottobre del 1975 è di riposo settimanale, ma Giovanni Pomponio, vice Brigadiere della polizia di Stato, in servizio alla Polfer di Napoli, non si fa pregare più di tanto. Il dovere lo chiama. Servono agenti all'ufficio cassa presso la stazione centrale di Napoli. Per i ferrovieri è un giorno di paga. Giovanni obbedisce. In quella cassa ci sono circa 500 milioni di lire. 475 vengono trasferiti in altro ufficio con la scorta di 5 uomini, i rimanenti 25 restano alla cassa con la sorveglianza di Giovanni Pomponio. Giovanni non sa che quella mattina ci sono anche altre persone che vogliono quei soldi: una banda di criminali che tenta di rapinare gli stipendi dei ferrovieri. Giovanni Pomponio reagisce. Gli sparano alle spalle. Lo colpiscono alla nuca ferendolo mortalmente. Morirà due giorni dopo, il 30 ottobre del 1975.
"Fulgido esempio di sacrificio spinto all'estremo". Così è scritto sulla medaglia d'oro al valor civile consegnata ad Antonietta Vigliotti, vedova di Giovanni Pomponio, rimasta sola con i due figli, Giuseppe e Sergio.
giovedì 27 ottobre 2011
A GENNARO DEL PRETE IL PREMIO BORSELLINO 2011 PER "L'IMPEGNO SOCIALE E CIVILE"
A Gennaro del Prete, figlio di Federico, il sindacalista dei commercianti ambulanti ucciso dalla camorra a Casal di Principe, il 18 febbraio del 2002, è stato assegnato il premio nazionale "Paolo Borsellino 2011", per la categoria "Impegno sociale e civile". La premiazione avverrà sabato 29 ottobre a Pineto, alle ore 10, al Teatro Polifunzionale.
Ecco anche l'elenco di tutti i premiati della 16^ edizione:
Per la categoria “Impegno culturale”:
Premiato il gruppo musicale de “I Giganti”.
Per la categoria “Impegno sociale e civile”:
la Cooperativa Sociale “I Colori”, Antonello Persico, Egidia Beretta Arrigoni (madre di Vittorio Arrigoni), Gennaro Del Prete, Rodrigo Jaimes Hidalgo.
In ricordo di Enzo Biagi:
il giornalista Piero Comito.
In ricordo di Giuseppe D’Avanzo:
il giornalista Giuseppe Baldessarro.
In ricordo di Roberto Morrione:
il giornalista Andrea Pamparana.
Per la categoria “Impegno per la legalità”:
saranno premiati la Guardia di Finanza Regione Abruzzo, Giuseppe Narducci del “Progetto Legalità Comune di Napoli”, i magistrati Giuseppe Lombardo, Anna Canepa, Luca Tescaroli.
La manifestazione sarà conclusa dall'ex senatore Lorenzo Diana, Presidente della “Rete per la Legalità”.
venerdì 21 ottobre 2011
ATTILIO ROMANO': PENTITO CONFERMA CHE FU IL CLAN DI LAURO AD UCCIDERLO
Un articolo pubblicato ieri, 20 ottobre, sul Giornale di Napoli, conferma che l'assassinio di Attilio Romanò, avvenuto a Miano il 24 gennaio del 2005, fu eseguito da killer del Clan Di Lauro, in guerra con il gruppo degli scissionisti.
Ecco l'articolo pubblicato sul quotidiano napoletano:
«Ho saputo, quando ero nella villa bunker di Varcaturo che i killer che uccisero Romanò erano di “mezzo all’Arco” e quindi del clan Di Lauro». A parlare è Giovanni Piana, il pentito che sta raccontando i retroscena dell’omicidio di Attilio Romanò, massacrato durante la "guerra" di Scampia, e vittima innocente di una assurda faida. Cosimo Di Lauro, Mario Buono e Marco Di Lauro, latitante, furono rinviati a giudizio in Corte d'Assise, così come aveva chiesto la Dda di Napoli, poco meno di un anno fa. Ieri in aula doveva testimoniare Giuseppe Misso che però non si è presentato, mentre l'altro pentito, Giovanni Piana, in aula ha testimoniato: «Quando ero a Varcaturo, seppi che c’era un villa bunker da dove partirono i killer durante la faida. Lì seppi che erano stati quelli di “mezzo all’Arco”».
Ecco l'articolo pubblicato sul quotidiano napoletano:
«Ho saputo, quando ero nella villa bunker di Varcaturo che i killer che uccisero Romanò erano di “mezzo all’Arco” e quindi del clan Di Lauro». A parlare è Giovanni Piana, il pentito che sta raccontando i retroscena dell’omicidio di Attilio Romanò, massacrato durante la "guerra" di Scampia, e vittima innocente di una assurda faida. Cosimo Di Lauro, Mario Buono e Marco Di Lauro, latitante, furono rinviati a giudizio in Corte d'Assise, così come aveva chiesto la Dda di Napoli, poco meno di un anno fa. Ieri in aula doveva testimoniare Giuseppe Misso che però non si è presentato, mentre l'altro pentito, Giovanni Piana, in aula ha testimoniato: «Quando ero a Varcaturo, seppi che c’era un villa bunker da dove partirono i killer durante la faida. Lì seppi che erano stati quelli di “mezzo all’Arco”».
Sull'omicidio Romanò, a metà novembre, saranno ascoltati Biagio Esposito e Carmine Cerrato. Attilio Romanò, lo ricordiamo, fu vittima innocente delle sanguinosa faida di camorra tra i Di Lauro e gli scissionisti. Il delitto avvenne il 24 gennaio 2005. Nel corso del lavoro investigativo, coordinato dalla Procura Distrettuale Antimafia partenopea, i militari hanno potuto chiarire che l'omicidio avvenne nell'ambito delle vendette trasversali messe in atto durante lo scontro tra il clan camorristico dei Di Lauro e gli scissionisti, capeggiati dai boss Amato- Pagano. Infatti, la vittima designata avrebbe dovuto essere l'altro titolare del negozio di telefonia, Salvatore Luise, nipote del boss Salvatore Pariante, per anni fedelissimo e personaggio di spicco della cosca di "Ciruzzo 'o milionario", nei cui confronti era stata sentenziata una condanna a morte, colpevole di essere passato con gli "scissionisti". L'uomo si era appena allontanato dal negozio. Il killer, identificato nel ventenne, all'epoca, Mario Buono, che entrò in azione intorno alle 13, sparò contro la prima persona che si era trovato di fronte nell'esercizio commerciale di via Napoli a Capodimonte: appunto Attilio Romanò
mercoledì 19 ottobre 2011
ASS. VITTIME VIA GEORGOFILI: "VOGLIAMO VERITA' SU TRATTATIVA MAFIA E STATO"
martedì 18 ottobre 2011
IL 7 NOVEMBRE LA REQUISITORIA DEL PROCESSO PER L'OMICIDIO DEL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO
lunedì 17 ottobre 2011
GENNARO DE ANGELIS, UCCISO PERCHE' NON SI PIEGO' ALLA CAMORRA DI CUTOLO
Gennaro De Angelis - Agente di custodia |
Vogliamo ricordare Gennaro De Angelis, l'agente di custodia ucciso a Cesa (Caserta) il 15 di ottobre del 1982. Gennaro è uno di quelli che non si piegò alle minacce della camorra che comandava nelle carceri, quella legata al boss Raffaele Cutolo. Per questo venne ucciso in un circolo di Cesa da alcuni camorristi che entrarono simulando una rapina. Gennaro era il papà di Vincenzo, attuale sindaco del Comune di Cesa. Un ragazzo per bene dagli occhi tristi. Un primo cittadino che è stato a sua volta minacciato di morte alcuni mesi fa, quando una mano vigliacca ha scritto sulla tomba del proprio genitore “Farai la stessa fine”. Vincenzo non ha mollato e tiene alto il nome del suo papà che per anni è stato dimenticato. A lui, e a tutte le persone per bene, va il nostro sostegno incondizionato.
La storia è tratta dal mio libro “Al di là della notte” ed. Tullio pironti
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«Fermi tutti altrimenti vi ammazziamo». Il tono è deciso, la voce è ferma, il volto è coperto. Nel circolo della Madonna dell’Arco di Cesa cala un gelido silenzio. Sono entrati due ragazzi e hanno le pistole in pugno. Sono scesi da un’auto proprio davanti al circolo che si trova in via Roma, al centro del paese, nei pressi del Municipio. Una trentina di persone, come ogni sera, sta giocando a carte ai vari tavolini nelle tre stanze a pian terreno. «Eccoli, è la solita rapina», dice sottovoce uno dei presenti. Ma i due, dopo uno sguardo d’intesa, vanno decisi verso un tavolo. Cercano una persona in particolare. «Eccolo, è lui», dice uno dei due. Gli si avvicinano. Attimi di tensione. Gli sparano alla testa a bruciapelo. Il corpo si abbassa riverso sul tavolino. A cadere sotto i colpi di pistola è Gennaro De Angelis, trentasette anni, agente di custodia nel carcere di Poggioreale, dove era addetto alla spesa dei detenuti. Alcuni colpi feriscono un’altra persona che era vicino alla vittima. Si tratta di Pasquale Marino, sessanta anni, pensionato. Tutta la sparatoria dura meno di un paio di minuti. Fuori c’è l’auto ancora in moto guidata da un altro complice. I due escono in fretta dal circolo e salgono sulla vettura che li stava aspettando. Fuggono in direzione di Aversa. Sono le venti e quindici del 15 ottobre 1982.
Tutti quelli che erano nel circolo scappano. Solo due persone si fermano e trasportano in ospedale ad Aversa Pasquale Marino. Anche lui non ce la farà. Morirà quattro giorni dopo al Cardarelli di Napoli. Gennaro De Angelis, invece, rimarrà lì a terra. La notizia dell’omicidio si sparge in un baleno. Arriva la moglie di Gennaro, Adele. La scena è straziante. Adele è incredula. Comincia ad urlare, si mette le mani in faccia. Si tira i capelli. Piange disperata. Non sa darsi una spiegazione di tanta ferocia. Dopo pochi attimi, però, Adele ha come un sussulto. Il pensiero va ai propri figli. Enzo, nove anni, il più grandicello dei tre, non è a casa. Ancora in preda alla disperazione, trova la forza di alzarsi da vicino al corpo senza vita del marito e corre verso la piazza. Va in cerca del primo figlio. Si avvia verso il campetto di calcio poco distante. Enzo, il primogenito, doveva essere sicuramente lì.
Il figlio Vincenzo De Angelis |
«Giocavo a pallone con alcuni amichetti proprio lì vicino», racconta Enzo, oggi sindaco di Cesa. «Sentimmo gli spari, pensavo fossero mortaretti. Poi, invece, quando capimmo che erano colpi di pistola, scappammo tutti verso casa. Abitavo a pochi passi. Ad un certo punto vidi mia mamma correre verso di me con le lacrime agli occhi. Era disperata. Non capivo il perché. Ma non tardai a rendermi conto di quello che era accaduto a mio padre. Dopo qualche giorno capii che quei colpi di pistola avevano ucciso anche una parte di me. Quegli spari non li scorderò mai. Ogni volta che con la mente torno indietro a ricordare quei momenti, provo lo stesso stato d’ansia, la stessa paura, la stessa angoscia di quando avevo nove anni. Nel giorno dei funerali c’erano tante persone. Non capivo niente. Cercavo solo di stare quanto più vicino a mia madre. Sulle scale della chiesa, mentre il feretro di mio padre usciva per dirigersi verso il cimitero, mia mamma mi guardò e disse a voce alta: “Ora sei tu il maschio della casa. Tocca a te prendere le redini della famiglia”. Mi sentii crollare il mondo addosso. In un attimo la mia spensieratezza volò via. In quel momento ero diventato grande pur avendo solo nove anni».
Gennaro De Angelis era sposato con Adele Re, da cui aveva avuto tre bambini: un maschio, Enzo, e due femmine, Marianna e Annamaria. Il 15 ottobre del 1982, il giorno in cui fu ucciso, avevano rispettivamente nove, cinque e tre anni. Gennaro De Angelis era nato a Cesa, in provincia di Caserta, il 26 ottobre 1945. Si arruolò nell’ex Corpo agenti di custodia all’età di ventuno anni e assegnato alla Casa circondariale di Pisa. Restò quattro anni nella città toscana. Fu poi trasferito, su sua richiesta, alla Casa circondariale di Poggioreale a Napoli. Voleva stare più vicino alla famiglia. Qui lo assegnarono alla ricezione pacchi dei detenuti. Fu proprio questo compito a condannarlo a morte. In quegli anni la Nuova Camorra Organizzata, il clan del boss Raffaele Cutolo, ammazzava chiunque si rifiutasse di mettersi al servizio del clan e negasse favori. Gennaro De Angelis si era rifiutato di fare qualche favore ai detenuti di Poggioreale. Questa è l’unica spiegazione di quell’omicidio.
La scritta sulla tomba di Gennaro De Angelis |
Per tanti anni Gennaro De Angelis è stato dimenticato. Tenuto vivo solo nel ricordo dei familiari. «A Cesa sapevano tutti dell’onestà di mio padre», afferma il figlio Enzo, «solo che nessuno mai ha sentito il dovere di rendere omaggio a mio padre come ad altre vittime. Da queste parti è sempre subentrata la paura e un comportamento da cittadino non esemplare».
Dopo tre anni dall’uccisione di Gennaro De Angelis, i carabinieri di Aversa individuarono in quattro appartenenti alla Nco gli autori del delitto. Erano già in carcere per altri motivi. «Mi pare che gli assassini di mio padre siano stati uccisi a loro volta. Non abbiamo seguito da vicino il processo. Ci interessava poco», dice Enzo De Angelis, «ci interessava di più tenere unita la famiglia. I sacrifici che ha fatto mia mamma in questi anni per tirarci su sono stati enormi e dovevamo tutti dare una mano. Lo dovevamo anche a mio padre che non c’era più. E in qualche modo siamo riusciti a risalire la china. Mia madre ha pagato il prezzo più alto. Ha sacrificato tutta la sua esistenza per noi figli. Ora dobbiamo starle noi vicino». Il ministero dell’Interno ha riconosciuto «vittima del dovere» Gennaro De Angelis e successivamente «vittima della criminalità organizzata».
CONDANNATI A 18 E 21 ANNI I KILLER DI TERESA BUONOCORE
NANDO DALLA CHIESA NOMINATO PRESIDENTE DEL COMITATO ANTIMAFIA AL COMUNE DI MILANO
Nando Dalla Chiesa è stato nominato presidente del comitato antimafia di Milano istituito dal sindaco Giuliano Pisapia. Con Dalla Chiesa, professore universitario, scrittore e presidente onorario di Libera, ci sono anche Luca Beltrami Gadola, architetto ed imprenditore; Maurizio Grigo, magistrato; Umberto Ambrosoli, avvocato e figlio di Giorgio, il liquidatore della Banca Privata Italiana fatto assassinare da Michele Sindona; Giuliano Turone, professore universitario ed ex magistrato dei casi P2 e Banco Ambrosiano; Gherardo Colombo, magistrato in pensione.
Ne dà notizia lo stesso figlio del generale Carlo Alberto, nel suo blog http://www.nandodallachiesa.it/
"Ne sono stato nominato presidente, su proposta del sindaco. Cercherò di onorare la fiducia - scrive Nando Dalla Chiesa - Ci attende molto lavoro. Credo, specie dopo l’esperienza della manifestazione di ieri, che forse non avrei mai potuto essere così utile alla mia città. Certo lo sarò più che da consigliere comunale o assessore. Le fasi della vita si chiudono e si aprono (grande riflessione, non esagerate con i complimenti…). A proposito: chissà perché questo comitato (essendo di esperti esterni) dovrebbe dare fiato all’antipolitica. Misteri di una politica esangue. Buona politica invece in Brianza. Dove sono andato stasera dopo un incontro con i giovani piddini alla periferia sud, su scuola, giovani e immigrazione. A Besana Brianza incontro con Dario Vassallo, fratello di Angelo, il grande sindaco-pescatore di Pollica, ucciso nel settembre di un anno fa. A lui, stasera, hanno dedicato un circolo del partito. Anche in quest’occasione è stato proiettato un bel documentario con interviste su Vassallo e il suo paese. Mi rendo sempre più conto che questo straordinario genere di informazione (metteteci anche il film su Mafia a Milano dell’altra sera) si sta ormai ricavando spazi suoi propri grazie alla povertà estrema dell’informazione televisiva (tranne Minoli e Lucarelli dove trovate questo preziosissimo sapere ?) e all’impazzimento delle logiche di distribuzione cinematografica. Domani (oggi) alle 18 presentazione di “I dieci passi”, libro sulla legalità di Mario Conte, magistrato insigne, e Flavio Tranquillo all’Ostello Bello, via Medici a Milano. Presente Armando Spataro il sommo. Il Gracco vi attende".
domenica 16 ottobre 2011
OMICIDIO FORTUGNO, SEI ANNI DOPO ALLA RICERCA DI NUOVE VERITÀ
venerdì 14 ottobre 2011
LA PROCURA GENERALE DI CALTANISSETTA CHIEDE REVISIONE PROCESSI VIA D'AMELIO
martedì 11 ottobre 2011
CIRO ROSSETTI, OPERAIO DELL'ALFA SUD, UCCISO L'11 OTTOBRE 1980
Ciro Rossetti, operaio dell'Alfa sud, venne ucciso l'11 ottobre 1980, nel corso di una sparatoria tra bande di camorristi. Quel giorno era a casa della mamma, a San Giovanni A Teduccio a guardare una partita della nazionale Italiana insieme alla sua famiglia. La storia qui pubblicata è tratta dal mio libro "Al di là della notte" ed. Tullio Pironti
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È l’11 di ottobre del 1980. Gioca la nazionale italiana di calcio con i dilettanti del Lussemburgo. È l’Italia di Bearzot che si candida a vincere i mondiali in Spagna del 1982. Ci sono molte aspettative. La partita è di quelle da non perdere. È sabato pomeriggio e tutti i tifosi dell’Italia non si lasciano scappare l’occasione. Anche Ciro Rossetti, che fa l’operaio all’Alfasud di Pomigliano d’Arco, non vuole perdere l’avvenimento sportivo. Così va a casa della mamma, Cristina Mansueto, che abita in un basso di due stanze a San Giovanni a Teduccio. «Mamma, oggi vengo a vedere la partita dell’Italia da te insieme ai miei fratelli». Ciro, trentun anni, è padre di due bambini, Gennaro di quattro anni e Cristina di un anno, avuti dal matrimonio con Antonietta Lamberti, casalinga. Parte dopo pranzo da casa sua. Abita a Barra, al Rione Bisignano. La partita di quel pomeriggio è anche l’occasione per stare insieme all’anziana madre. Ciro arrivò un’ora prima. Ci mette poco per percorrere strade che spaccano popolosi quartieri degradati. Le stesse strade che portano anche lungo il «Miglio d’oro», verso Portici, Ercolano, fino a Torre del Greco, piene di splendide ville vesuviane costruite a partire dal Settecento.
Il sabato, a quell’ora, le piccole attività industriali erano tutte chiuse. Le strade quasi deserte. Sui marciapiedi, improvvisati venditori di bandiere italiane. Ciro voleva fermarsi a comprarne una per i bambini della famiglia. Ne avrebbero avuto piacere. A guardare la partita in Tv c’è anche la sorella Michelina, con il figlio Ciro, di otto anni, e il marito Angelo. E poi un altro fratello di Ciro, Alberto. Ma tirò dritto. Non sarebbe arrivato in tempo per il fischio d’inizio. Pensò che da qualche parte a casa della mamma una bandiera della nazionale ci doveva pur essere. Quand’era più giovane ne aveva sempre una a portata di mano. Magari nessuno l’aveva buttata via. La mamma aveva promesso di preparargli un dolce per quel pomeriggio e non voleva tardare. Arrivò all’ora promessa. Alle quattro in punto cominciano gli inni nazionali. L’Italia gioca con la sua formazione migliore di quel momento. Nando Martellini, il telecronista che accompagna con la sua voce la nazionale, la scandisce, come sempre, in modo da far rabbrividire i tifosi: «Zoff, Gentile, Baresi, Oriali, Collovati, Scirea, Causio, Tardelli, Altobelli, Antognoni, Bettega». Tutti zitti, si comincia.
Si preannuncia una goleada dell’Italia. Ciro, seduto sul divano, mentre la mamma in cucina prepara un buon caffè. L’Italia gioca fuori casa e la giornata è freddissima. La partita non è molto divertente, ma al 32’ Collovati con un colpo di testa porta in vantaggio l’Italia. Ciro e tutta la famiglia esultano, si alzano in piedi, esattamente come le migliaia di italiani sugli spalti dello stadio, giunti in Lussemburgo dalla Francia, dalla Germania e dal Belgio per tifare Italia. Ed è poco dopo il gol degli azzurri che Ciro sente dei botti provenire dall’esterno dell’abitazione. «Staranno già festeggiando? Ma la partita non è finita. Chi sarà mai?», dice Ciro ai fratelli che stanno guardando la partita con lui. Allora, incuriosito, insieme al fratello Alberto esce sull’uscio per vedere cosa sta accadendo fuori. Apre la porta a vetri che guarda direttamente sulla strada. Passa in quel momento un’Alfasud con a bordo almeno tre persone. Una di quelle auto che lui probabilmente ha contribuito a costruire proprio nella sua fabbrica. Uno ha il braccio teso e sporgente fuori dall’auto dal lato anteriore destro e in mano ha una pistola. Da quella pistola partono diversi colpi a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro. Ciro non avrà nemmeno il tempo di accorgersi che quelli che ha sentito non sono botti per festeggiare la nazionale, ma colpi di arma da fuoco. «All’epoca a Napoli era in atto una guerra tra clan camorristici per il controllo del contrabbando di sigarette», racconta Giacomo Lamberti, il cognato di Ciro. «Come poi fu appurato, nel quartiere dove risiedeva la famiglia di mio cognato, era in atto una caccia all’uomo. Un gruppo di malviventi inseguiva un pregiudicato, Ciro Sorrentino, che doveva essere ucciso dai rivali. Durante la gara tra l’Italia e il Lussemburgo si cominciarono a sentire degli spari. Ciro Rossetti ebbe la sventura di affacciarsi sull’uscio di casa e fu colpito da un proiettile all’occhio sinistro. Morì poco dopo».
Le grida di disperazione di tutta la famiglia si odono presto per tutto il quartiere. Il dramma si consuma davanti alla mamma e ai fratelli che assistono increduli a quello che è accaduto al congiunto che poco prima esultava per il gol dell’Italia. È il fratello Alberto ad accompagnarlo all’ospedale. A fatica il corpo di Ciro viene caricato sull’auto che partirà a tutta velocità. Ma la corsa sarà vana. Il proiettile che lo ha colpito all’occhio sinistro è stato mortale. Ciro muore al Loreto Mare. Quel giorno il cognato Giacomo Lamberti riceve una telefonata dalla mamma: «Corri, vai all’ospedale, è successo qualcosa a Ciro, il marito di Antonietta. Abbiamo ricevuto una telefonata, ma non sappiamo bene cosa è successo». Giacomo parte e va. Arriva di corsa in ospedale dove Alberto lo informa dell’accaduto. Ciro, intanto, non ce l’ha fatta. Ormai è morto. Una morte che davvero non ha un senso, non ha una ragione. La vita stroncata di un ragazzo che ha davanti a sé ancora i migliori anni da vivere, diventa una cosa assurda per i familiari che non lo rivedranno mai più. Per i figli che non avranno un padre, per una moglie che non gli potrà più parlare, per una mamma che non avrà più il frutto della sua carne.
A Giacomo tocca il triste compito di informare la famiglia che Ciro non tornerà più a casa dai suoi figli. Nel frattempo, a casa della mamma di Ciro Rossetti la televisione è ancora accesa. L’Italia continua a giocare. Nella disperazione nessuno più la guarda e nessuno ha avuto la briga di spegnerla. Hanno solo abbassato il volume. È il secondo tempo. Siamo al 32’, stesso minuto del primo tempo. Segna Bettega. Italia 2, Lussemburgo zero. Nessuno se ne accorge. Nessuno esulta. Non c’è più gioia in quella casa. È morto Ciro. Un giovane operaio dell’Alfasud.
Quella sparatoria fu ricostruita nei minimi dettagli dalle forze dell’ordine alcune settimane dopo. Ad affrontarsi erano in sei per regolare un conto in sospeso a colpi di pistola. Tre da una parte (Carmine Orso, Gennaro Limatola e Salvatore Piccolo) e tre dall’altra (Ciro Sorrentino, Luigi D’Alessandro e un altro non ancora identificato all’epoca). Ciro Sorrentino, che doveva essere ucciso, fu ferito gravemente e arrivò al Loreto Mare trasportato da un’ambulanza, un’ora dopo l’arrivo di Ciro Rossetti.
Il colpo mortale che raggiunse Ciro Rossetti sarebbe partito proprio dal gruppo che spalleggiava Ciro Sorrentino. Quest’ultimo fu arrestato in ospedale con l’accusa di omicidio pluriaggravato. «La morte di Ciro è stata un dramma», dice ancora il cognato, Giacomo Lamberti, «sia perché è finita una vita così giovane in maniera ingiusta, dolorosa, straziante, sia perché ha reso vittime della camorra anche quelli che sono rimasti. Casi come questo lasciano completamente sola una famiglia. Ciro era l’unico sostentamento economico per i suoi cari. Lasciare una famiglia con figli piccoli senza i soldi per vivere rende soli, isolati, vittime anche loro». Giacomo cercò in tutti i modi di far assumere Antonietta, la moglie di Ciro, all’Alfasud al posto del marito. All’epoca l’Alfasud aveva circa 16.000 dipendenti. Un tentativo che andò a vuoto per l’insensibilità della dirigenza dell’Azienda. Quello di Ciro Rossetti era il 93° omicidio di camorra del 1980. La notizia della sua morte ebbe solo piccoli spazi nelle cronache dei giornali locali. Antonietta, rimasta sola con i due figli, si ritrovò accanto unicamente la sua famiglia. L’unica a dargli tutto l’aiuto necessario, anche psicologico, per andare avanti e sopportare che il suo Ciro ora lo poteva incontrare solo in una tomba al cimitero.
IGNAZIO DE FLORIO, AGENTE DI CUSTODIA, UCCISO A CARINOLA L'11 OTTOBRE 1983, SENZA UN MOTIVO
Ignazio de Florio, agente di custodia nel carcere di Carinola, è una delle vittime dimenticate. Venne ucciso nello stesso giorno e quasi alla stessa ora in cui fu ammazzato Francesco Imposimato, a circa 50 chilometri di distanza. Ho ricostruito questa vicenda che presenta ancora molti lati oscuri e uscirà tra breve in una mia prossima pubblicazione.
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Sono le 16,00. Il turno è finito. Ne inizia un altro. I corridoi si animano di voci. Il rumore delle chiavi che girano nelle serrature per chiudere e aprire i cancelli dei reparti, rompe il silenzio che accompagna lo scorrere del tempo nel carcere di Carinola. Qui anche il cambio del turno degli agenti di custodia serve a spezzare la monotonia e la durezza dei luoghi. Qualche carcerato si alza dal letto, allunga le mani fuori dalle sbarre. Saluta i nuovi arrivati. Gesti che si ripetono ogni giorno e sempre uguali nella casa di pena. Il penitenziario di Carinola è stato riaperto dopo il terremoto del 23 novembre 1980 per ospitare i detenuti della criminalità organizzata, soprattutto quelli legati al clan di Raffaele Cutolo, la Nuova Camorra Organizzata (Nco). Fuori, nonostante la giornata autunnale, la temperatura è ancora tiepida. Siamo all’inizio di ottobre. E’ anche tempo di vendemmia e l’aria profuma di mosto che fermenta nelle botti nelle case dei contadini attorno al carcere. Dopo alcuni minuti si apre il portone dell’istituto di pena. Escono le auto. Sono quelle degli agenti di custodia che hanno smontato. Scene quotidiane. Si torna a casa. Esce per prima una Peugeot 304 di colore grigio-azzurro. La guida Ignazio De Florio, un giovane agente di 24 anni. Fa in fretta perché lo sta aspettando la giovane moglie, Angelina Cozza. Dopo qualche minuto, a bordo di una Fiat 128, di colore verde, esce anche un altro agente, Carlo De Nunzio. Tutte e due le auto imboccano la strada provinciale Carinola-San Donato. Procedono a circa cento metri di distanza l’una dall’altra. Lungo il percorso, ad un paio di chilometri dal carcere, c’è una Ford Fiesta di colore blu. Dentro ci sono delle persone, ma non sono loro amici. Sono lì per eseguire una sentenza di morte. Devono ammazzare un agente di custodia del carcere di Carinola. Vogliono seminare il terrore tra chi è preposto a mantenere l’ordine all’interno delle carceri. Gli agenti di custodia sono da alcuni anni nel mirino del terrorismo e della criminalità organizzata perché accusati di maltrattare i detenuti. Ammazzarne uno è come dare un segnale chiaro agli altri: “Stai attento, perché il prossimo puoi essere proprio tu”. La Peugeot di Ignazio De Florio corre veloce verso casa. Dalla Ford Fiesta lo vedono arrivare. “Eccolo. State pronti” dice uno di loro. Nelle settimane precedenti i killer avevano già fatto dei sopralluoghi in zona per controllare gli orari degli agenti. Hanno deciso di colpire nella parte più isolata e dove ci sono vie di fuga più agevoli: Lungo la strada provinciale Carinola-San Donato. I killer hanno calcolato bene il percorso. Sono passati appena una diecina di minuti dalla fine del turno. Nell’auto preparano le pistole. Le impugnano con decisione. L’autista della Ford Fiesta accende il motore. Aspetta che la Peugeot li sorpassi. Pochi attimi e passa Ignazio De Florio e non ci fa nemmeno caso a quell’auto che lo sta aspettando. “Ora!… Vai!…”. Fa il killer seduto a fianco del guidatore.
La strada non è molto larga. La Ford Fiesta raggiunge e affianca la Peugeot guidata da De Florio. Dai finestrini della Ford si sporgono due braccia che impugnano pistole. Mirano all’autista. Vogliono uccidere. Sparano numerosi colpi. Ignazio De Florio viene colpito ripetutamente. L’auto sbanda. Va a fermarsi poco più avanti nella cunetta laterale. I killer scendono dall’auto, vogliono finirlo. Gli sparano il colpo di grazia. Dietro, c’è un’altra auto, quella di Carlo De Nunzio. Il militare vede la scena, ma non fa in tempo ad intervenire. Sparano anche contro di lui. Due colpi passano di striscio sul tetto della sua fiat 128. Si ferma. Ingrana la retromarcia, ma finisce nel fosso a lato della strada. Per uscire dall’auto e scappare, si infila dal finestrino anteriore. Corre nelle campagne per sfuggire all’agguato. Dopo pochi minuti riesce ad arrivare al carcere. E’ lui che dà l’allarme. “Hanno sparato ad un collega. Non so se l’hanno ucciso. Poi hanno sparato anche contro di me, ma sono riuscito a scappare”. Subito dopo Carlo De Nunzio si sente male e viene portato nell’infermeria del carcere. Sul posto accorrono il comandante degli agenti di custodia e il direttore del carcere. Vengono allertati anche i carabinieri. Saranno proprio questi ultimi ad accorgersi che Ignazio De Florio mostra ancora segni di vita. Così con un ambulanza lo fanno trasportare all’ospedale di Teano, ma muore poco dopo. Sono le 17 dell’11 ottobre del 1983. Venti minuti dopo, a Maddaloni, a cinquanta chilometri di distanza, un altro commando ammazza Francesco Imposimato, il fratello del giudice Ferdinando.
L'11 OTTOBRE 1983 LA CAMORRA UCCIDE FRANCESCO IMPOSIMATO E FERISCE LA MOGLIE MARIA LUISA ROSSI
I due figli piccoli, Giuseppe e Filiberto, avevano nove e sette anni e quel giorno, l’11 ottobre del 1983, erano andati regolarmente a scuola. Come sempre il papà, Franco, e la mamma, Maria Luisa Rossi, sarebbero passati a prenderli dopo le diciassette e trenta, appena finito il turno di lavoro alla Face Standard. Una fabbrica manifatturiera sorta alla fine degli anni ’60 ubicata appena fuori città, dove lavoravano più di mille persone. Erano impiegati nell’ufficio acquisti. Quel giorno, però, a prendere i due ragazzi a scuola ci andarono alcuni amici di famiglia. «Papà e mamma non sono potuti venire», si sentirono dire Giuseppe e Filiberto, «hanno avuto improvvisamente da fare». Ma non immaginavano minimamente che poco prima c’era stato un agguato nei confronti dei loro genitori. Da quel giorno la loro vita sarebbe stata segnata per sempre. «Come si fa a scordare quei momenti», racconta con un filo di voce Giuseppe, il primogenito, «io e mio fratello eravamo a scuola al convitto nazionale di Maddaloni. Lì era più comodo per la mia famiglia, perché ci tenevano per tutta la giornata. Ci venne a prendere un loro collega di lavoro e ci portò a casa sua. Ci disse che mamma e papà erano fuori per lavoro. Ricordo che stemmo in ansia per tutto il tempo. Sino ad allora non ci avevano mai lasciati soli».
L’11 ottobre del 1983, la camorra legata alla mafia siciliana, il clan Nuvoletta-Lubrano per intenderci, uccideva Francesco Imposimato e feriva gravemente sua moglie, Maria Luisa Rossi. Fu una vendetta trasversale contro il giudice Ferdinando Imposimato, fratello di Franco, che indagava, a Roma, nei confronti della banda della Magliana e della mafia siciliana. Il magistrato era troppo protetto per ammazzarlo. Così scelsero un parente. Una vittima ignara ed indifesa. Franco Imposimato e la moglie, Maria Luisa, erano impiegati di una fabbrica di Maddaloni, la Face Standard. L’agguato avvenne appena finito il turno di lavoro.
Franco Imposimato con i figli Giuseppe e Filiberto |
Qui di seguito il racconto dell’agguato tratto dal mio libro “Al di là della notte” – Ed. Tullio Pironti
“…L’agguato avvenne di martedì, un giorno lavorativo come tanti altri. Franco e Maria Luisa stavano uscendo dalla fabbrica. Il tempo di timbrare il cartellino e di arrivare all’auto, una Ford Escort verde, e poi si sarebbero diretti verso la scuola dei propri figli. Erano oramai le diciassette e trenta e i bambini stavano già aspettando. Dopo aver percorso pochi metri dall’uscita, arrivarono in via Campolongo, all’incrocio tra via Sauda e via Montevergine. C’era un’auto ferma quasi nella curva. Franco, nel fare la manovra di sorpasso, rallentò. La macchina, una Fiat Ritmo, non aveva alcuna intenzione di muoversi da lì. Fu a quel punto che si materializzarono due uomini. Arrivarono quasi di corsa. Uno si avvicinò a Franco, dal lato del guidatore e l’altro a fianco della moglie. Impugnavano una 357 Magnum e una 38 Special. I due coniugi non ebbero il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo. Forse solo Puffi, il barboncino che era in auto con loro e che portavano ogni giorno al lavoro per non lasciarlo solo a casa, ebbe la percezione del pericolo. Puffi cominciò ad abbaiare sempre più forte. «Che hai, Puffi?», chiese Franco. Maria Luisa, invece, si girò per accarezzarlo e farlo calmare.
Fu in quell’attimo che i due sicari della camorra cominciarono a sparare. Gli sguardi di Franco e Maria Luisa si incrociarono. Fu anche l’ultima volta. Non ebbero il tempo di dirsi niente. Franco Imposimato venne colpito da undici colpi di pistola. Morì quasi subito «per shock emorragico e traumatico», fu accertato. Maria Luisa, invece, fu colpita al petto. Il killer le sparò due colpi diretti al torace. Uno le bucò tutti e due i polmoni. Fuoriuscì dalla schiena fratturandole una costola e sfiorandole il cuore di qualche centimetro. L’altro, invece, rimase conficcato nel braccio sinistro. Nonostante il dolore forte, la moglie di Franco riuscì ad aprire lo sportello. Fece qualche passo, ma cadde a terra svenuta. Si salvò dopo essere stata ricoverata in ospedale per più di un mese in gravi condizioni. Tra i primi a chiedere aiuto ci fu anche Puffi, il barboncino. Scese dalla macchina senza un graffio e ritornò di corsa in fabbrica. Si fece capire. Portò sul luogo dell’agguato i primi soccorritori.
Maria Luisa Rossi |
«Mia madre riconobbe in Antonio Abbate uno dei killer che le sparò», riprende a raccontare Giuseppe. «Stava sul lato destro della macchina. Lo descrisse come “un uomo non molto alto, giovane, grassottello, piuttosto scuro di pelle, con due rughe che solcavano le guance, con i capelli di colore nero tirati all’indietro”. Dell’altro, invece, riuscì a vedere solo le gambe. Niente di più». Il primo a parlare dell’assassinio di Franco Imposimato fu il pentito del clan dei Casalesi Carmine Schiavone. Confermò che i due killer di cui aveva parlato Maria Luisa Rossi erano Raffaele Ligato e Antonio Abbate, appartenenti al clan Lubrano-Nuvoletta di Pignataro Maggiore. Un clan affiliato a Cosa nostra siciliana e fedele alleato dei Corleonesi di Totò Riina.
«Sono stato sempre curioso di sapere che faccia avessero gli assassini di mio padre», dice Giuseppe con una vena di rabbia, «li ho sempre immaginati come mostri. Perché solo dei mostri potevano avere il coraggio di uccidere una persona dolce come il mio papà. E quando li ho incontrati, durante il processo, non sono riuscito a provare sentimenti negativi. Sono rimasto indifferente. È stato Vincenzo Lubrano ad avvicinarmi e a ripetere insistentemente: “Mi dovete credere, mi dovete credere, io non c’entro niente”. In lui vedevo solo un uomo anziano. E pur sapendo che era uno dei mandanti dell’omicidio di mio padre, non riuscivo a provare odio nei suoi confronti. Poi ho incontrato anche Raffaele Ligato, uno di quelli che aveva sparato ai miei genitori. E anche lui mi era indifferente». Per Filiberto, invece, è stato diverso. «Sì, lo ammetto. Io li ho odiati», dice con decisione il ragazzo, «hanno rovinato la vita della mia famiglia. Hanno fatto soffrire mia madre fino a farla morire di dolore. Non ci riesco a rimanere indifferente». Giuseppe sta per mettere su un’altra famiglia. Fra qualche mese si sposerà. «La vita va avanti», dice il primo figlio di Franco Imposimato, «anche se il dolore ti resta dentro e non lo puoi mai eliminare. È come una spina che hai dentro la carne. Può restare lì per anni, ma quando la vai a toccare ti fa sempre male. È come una cicatrice mai rimarginata. Tutto questo me lo porterò dentro fino alla morte. Come si fa a dimenticare tutto quello che abbiamo passato? Come si fa a dimenticare che c’era chi non voleva frequentare la famiglia Imposimato perché aveva paura? Come si fa a dimenticare che c’era chi non faceva giocare i propri figli con noi, togliendoci anche il saluto? Ricordo l’espressione triste del volto di mia madre quando ci raccontava che alcune persone non la salutavano e avevano paura a frequentarla. È come se i criminali fossimo stati noi che abbiamo subito la morte di mio padre e non quelli che hanno sparato.
Il processo per l’assassinio di Franco Imposimato e il ferimento della moglie, Maria Luisa Rossi, si è concluso in Cassazione con la condanna all’ergastolo dei mandanti (Pippo Calò eVincenzo Lubrano, morto nel 2007) e degli esecutori materiali (Antonio Abbate e Raffaele Ligato). Uno dei mandanti, Lorenzo Nuvoletta, è morto prima che venissero riaperte le indagini. Franco Imposimato il 19 dicembre di quel 1983 avrebbe compiuto quarantaquattro anni.
sabato 8 ottobre 2011
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