mercoledì 28 marzo 2012

UN ULIVO PER RICORDARE GIANLUCA CIMMINIELLO

Un ulivo per ricordare Giancluca Cimminiello, è stato piantato il 24 marzo scorso, nel rione Berlingieri di Napoli, il  quartiere dov'è cresciuto.  Gianluca Cimminiello, 31 anni, fu ucciso  il 2 febbraio del 2010  a Casavatore davanti al negozio di tatuaggi “Zendar” di cui era titolare per aver scatenato l'invidia di un altro tatuatore in seguito alla pubblicazione su Facebook di una foto con  il calciatore del Napoli, Ezechiel Lavezzi. 
Presenti la famiglia Cimminiello,  l’assessore Giuseppe Narducci in rappresentanza del Comune di Napoli,  il giornalista ed amico Nino Pannella, i rappresentanti della VII municipalità.

CONCORSO LETTERARIO IN RICORDO DI ATTILIO ROMANO' NEL GIORNO DEL SUO 37° COMPLEANNO

Si terrà venerdì 30 marzo, alle ore 10,00, presso l'Auditorium della  Settima Municipalità di Napoli sito in PiazzaGuarino a San Pietro a Patierno,  la premiazione del concorso letterario "Attilio Romanò"  riservato ai ragazzi delle scuole medie. Il concorso ha per tema una frase di Attilio:  "...continuerò a vivere con l'unico carburante che conosco: l'Amore!".

Tantissime le adesioni da parte delle scuole della zona selezionate da un'apposita commissione che ha letto tutti i componimenti pervenuti. Nei temi dei ragazzi spesso è ricordata anche la tragica fine per mano della camorra di Attilio, che fu ucciso il 24 gennaio del 2005 nel suo negozio di telefonia a Miano, da killer del Clan Di Lauro, in guerra con il gruppo degli scissionisti. Fu scambiato per un'altra persona.

"Il 30 marzo Attilio avrebbe compiuto 37 anni  - dice la sorella Maria Romanò - e proprio in questo giorno siamo lieti di ricordarlo con la manifestazione di un impegno che si perpetua già da cinque anni. Il 30 marzo è anche il compleanno di Dario Scherillo; pregheremo insieme per Attilio  e per Dario alla SS. Messa che sarà celebrata alle ore 18.00 presso il convento di S. Caterina a Grumo Nevano."

DEDICATO A TERESA BUONOCORE IL PREMIO PER LA PACE DONNA CORAGGIO 2012

Il premio per la Pace Donna Coraggio 2012 quest'anno è stato dedicato a Teresa Buonocore, 51 anni ,  uccisa il 20 settembre 2010 a Napoli, vicino al Ponte dei Francesi,  per aver denunciato gli aguzzini di sua figlia. La sua testimonianza fu decisiva per apire le porte del carcere a   Enrico Perillo, il rapitore e violentatore della figlia di otto anni. La cerimonia è avvenuta Sabato 24 marzo 2012 presso l'aula consiliare del Comune di Alife.

L'iniziativa è stata organizzata dal Movimento per la Pace, guidato da Agnese Ginocchio, e patrocinata dalla Regione Campania, dalla Provincia di Caserta, dall'Ufficio Provinciale Pari Opportunità, dal Comitato Provinciale Unicef, dalla Città di Alife e dalla Comunità Montana del Matese.

Alla cerimonia è intervenuta Pina Buonocore, sorella di Teresa, che ha ritirato il premio speciale, insieme alla giovanissima figlia di Teresa, alla quale il direttivo del Movimento per la Pace ha conferito il riconoscimento della "Croce per la Pace", nominandola sua "Ambasciatrice di Pace".

A ROMA UN PRESIDIO DI LIBERA INTITOLATO A MARCELLO TORRE

Un presidio di Libera intitolato all'avvocato Marcello Torre, il sindaco di Pagani ucciso l'11 dicembre 1980 che "sognava una Pagani Libera e civile".
La cerimonia di inaugurazione  del presidio  Libera Roma XI è prevista per Sabato 31 marzo 2012 (Roma, Caffé Letterario, Via Ostiense 83/95, ore 18:30)

Intervengono:

Annamaria Torre (Referente Libera Salerno);
Gianni Speranza (Sindaco di Lamezia Terme);
Luana Caporaso (Avviso Pubblico, Comitato Direttivo);
Marcello Ravveduto (Storico, biografo di Marcello Torre).

Un'occasione importante per discutere della buona politica nel nostro Paese, che non si piega alla corruzione ma combatte per un'Italia all'insegna della legalità e della giustizia.

martedì 27 marzo 2012

ANNALISA DURANTE UCCISA A FORCELLA OTTO ANNI FA. DON LUIGI MEROLA: DATE UN LAVORO AL PADRE"

 Annalisa voleva andare via da Napoli. Sognava una vita diversa e forse ci sarebbe riuscita  se quella sera, il 27 marzo del 2004, un sabato sera,  una pallottola non l'avesse centrata alla testa, nei vicoli dell'antica Vicaria, durante uno scontro a fuoco tra camorristi, mettendo la fine alla sua esistenza a soli 14 anni.

"Vivo e sono contenta di vivere, anche se la mia vita non è quella che avrei desiderato. Ma so che una parte di me sarà immortale". Scriveva così nel suo diario  Annnalisa e aggiungeva: "Cari genitori, quando Pasqua sarà veramente festa di Rinnovamento, papà avrà un lavoro vero e noi andremo via da Forcella".

Ma a otto anni di distanza da quella tragedia, nemmeno il papà di Annalisa ha un lavoro. E don Luigi Merola, l'ex parroco di Forcella, denuncia:
«È una assoluta vergogna: a otto anni dalla morte di Annalisa, il Comune, la Provincia e la Regione oltre che le associazioni Libera e Polis, hanno totalmente dimenticato la famiglia Durante. Senza un impiego sicuro, papà Giovanni è ancora costretto ad arrangiarsi». Don Luigi Merola, ha denunciato questa situazione nel corso dello 'Specialè in onda questo pomeriggio alle 17,30 sul circuito Lunaset. «Forcella e i suoi vicoli - ha detto don Luigi - sono ripiombati nel buio delle coscienze, i giovani abbandonati a se stessi. Ma è gravissimo che lo Stato e le associazioni contro la camorra si siano dimenticati del papà di Annalisa». Ricorda don Merola: «All'inizio, dopo la tragedia eravamo riusciti a dare un lavoro a Giovanni Durante che però poi, a causa della crisi economica che affligge il nostro Paese, è stato licenziato. Oggi i Durante vivono tra mille problemi.

Il papà di Annalisa si dice fiducioso nello Stato ma intanto - ha continuato don Luigi - rivolgo un appello ai responsabili di associazioni quali 'Liberà e 'Polis' affinchè trovino un impiego a quel padre cui gli hanno massacrato la figlia». Una denuncia forte quella di don Luigi Merola che si estende anche al resto delle Istituzioni: «A Forcella il cammino di speranza intrapreso all'indomani dell'omicidio si è purtroppo interrotto. Oggi è necessario che il bene continui a far rumore, che la Chiesa faccia la sua parte. Basterebbe che tutte le duecento parrocchie di Napoli aprissero le loro porte per sottrarre i minori alla devianza e alla criminalità». Don Luigi ha infine parlato del suo ritorno a Napoli: «Sono contento, ringrazio il cardinale Sepe che mi ha voluto nuovamente qui. Adesso sono parroco della chiesa di San Bartolomeo a Brecce nei pressi di piazza Garibaldi, a due passi dalla mia Forcella, ed ho tanto da fare tutto il giorno».

sabato 24 marzo 2012

PLACIDO RIZZOTTO RIPOSERÀ IN CAPPELLA GENTILIZIA RESTAURATA DA CGIL

 Una cappella gentilizia con decorazioni liberty all'ingresso del cimitero di Corleone (Palermo), conserverà i resti di Placido Rizzotto, le cui ossa ritrovate tre anni fa nei giorni scorsi sono state identificate come appartenenti al sindacalista della Cgil ucciso dalla mafia nel marzo del 1948. A restaurare la cappella, donata dal Comune, sarà la Cgil. Rizzotto Sarà tumulato accanto a Bernardino Verra, eroe del movimento contadino, assassinato dalla mafia nel 1915. Lo ha annunciato il sindaco di Corleone, Nino Jannazzo, alla giornata in ricordo di Placido Rizzotto organizzata oggi alla Cgil. «Oggi è stata una giornata storica per la democrazia italiana. Quello di Rizzotto è un esempio di unità nazionale, di lotta per la libertà, per la giustizia, la democrazia e l'unità. Oggi a Corleone in un cinema pieno di centinaia di ragazzi delle scuole, insieme a tantissime gente, sindacalisti, associazioni e giovani hanno ricordato e festeggiato la possibilità di avere a Corleone un luogo in cui celebrare l'uomo, il sindacalista e il partigiano Rizzotto», ha dichiarato il segretario della Cgil di Palermo Maurizio Calà. «E oggi da Corleone - ha aggiunto Calà - abbiamo ribadito la richiesta fatta anche dalla segretaria Susanna Camusso con una lettera al capo dello Stato, di riaprire le indagini per fare luce su esecutori e mandanti dell'omicidio». All'iniziativa hanno partecipato il sindaco di Corleone Jannazzo, il questore di Palermo Nicola Zito, il segretario della Camera del Lavoro di Corleone Dino Paternostro, il nipote del sindacalista, Placido Rizzotto, i segretari della Cgil di Palermo e della Cgil nazionale Maurizio Calà il regista Pasquale Scimeca e l'attore Vincenzo Albanese. A conclusione l'intervento della segretaria nazionale confederale Serena Sorrentino.

Fonte: ADNKRONOS

martedì 20 marzo 2012

ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN UCCISI IL 20 MARZO 1994 ASPETTANO ANCORA GIUSTIZIA

Due notizie agghiaccianti in soli due giorni: il 19 marzo la camorra ammazza a Casal di Principe, don Giuseppe Diana; il 20 marzo un commando ammazza in Somalia, la giornalista del Tg3,  Ilaria Alpi  e l’operatore Miran Hrovatin. I due erano in Somalia per seguire la guerra fratricida  tra due fazioni  armate che stavano insanguinando tutto il paese. Era in corso l’operazione “Restor Hope” guidata dagli Usa e appoggiata da diverse nazioni, tra cui anche l’Italia, per cercare di ripristinare condizioni di vivibilità migliori. Se il primo caso, quello di don Diana, è risolto e i killer sono stati condannati, per Ilaria e Miran, invece, la vicenda non è stata ancora chiarita. Dietro l’agguato somalo c’è una torbida storia legata al traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi in partenza ed in transito dall’Italia, che si intreccia col traffico di armi internazionale. Tant’è che  nel giugno del  2007, Il Pm Franco Ionta, titolare del procedimento sul caso Alpi/Hrovatin presso la Procura di Roma, ha chiesto l’archiviazione del caso per l’impossibilità di identificare i responsabili del duplice omicidio avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994.

Ho avuto modo, alcuni anni fa, di intervistare nella loro casa a Roma, i genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana. Mi impressionò la loro determinazione  a perseguire la verità. Ebbero parole dure non solo nei confronti della commissione parlamentare d’inchiesta, ma anche verso alcuni colleghi  di Ilaria al  Tg3. Giorgio, che aveva già i suoi ottant’anni, morì poco dopo. Luciana, invece, prosegue la sua battaglia per ottenere giustizia. Per quanto piccolo può essere il nostro sostegno, è pieno e incondizionato al fianco di Luciana

lunedì 19 marzo 2012

DON DIANA UCCISO DALLA CAMORRA DICIOTTO ANNI FA. IL RACCONTO DELLA MAMMA

Sono già passati diciotto anni dalla sua uccisione per mano della camorra.  La morte di don Giuseppe Diana ha lasciato  un vuoto incolmabile nei familiari e in chi l'ha conosciuto più da vicino. La sua morte, però, ha avuto anche degli effetti positivi:  ha determinato la presa di coscienza di molta parte delle popolazioni  dell'agro aversano che oggi hanno più consapevolezza che la camorra è un cancro che va eliminato. Questi territori, una volta conosciuti solo come terre di Camorra, oggi si affermano come "LE TERRE DI DON PEPPE DIANA". E' il suo messaggio che penetra nelle coscienze delle persone. E' stato lui a dire "Per amore del mio popolo non tacerò". E il suo popolo sta rispondendo bene. Stamani, 19 marzo,  tutte le scuole della Regione Campania sono chiuse proprio per ricordare don Diana. Le manifestazioni che celebrano la sua figura, non si contano più. La Chiesa stessa comincia ad interrogarsi se è maturo il tempo per chiedere la sua beatificazione.  E' un processo lungo quello che cammina verso il cambiamento. Ma  è possbile avviarlo se lo vogliono innanzitutto i concittadini di don Diana.
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Il racconto che segue, è tratto dal mio libro "LA BESTIA. CAMORRA STORIE DI DELITTI, VITTIME E COMPLICI", edizioni Melampo.
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“Iolanda se ne stava zitta su una sedia nel centro dell’androne. Attorno a lei, seduti per terra a semicerchio, aveva una ventina di giovanissimi scout. A un certo punto iniziò a raccontar loro la storia di suo figlio. Partendo, come faceva sempre, da quella mattina del 19 marzo del 1994, quando il giorno del suo onomastico sentì Peppe uscire per l’ultima volta di casa. Si fece silenzio. I ragazzi, arrivati a Casal di Principe da Ivrea in un’assolata domenica d’agosto, la guardavano dal basso in alto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa fra le mani. Con la faccia rapita come nipotini che guardino la nonna intenta a raccontar loro una favola. Iolanda esordì, come al solito, con un lamento doloroso, quasi una colonna sonora che avrebbe accompagnato il suo ricordo: «Che m’hann’ fatto, che m’hann’ fatto. Nun me passa. Nun me passa», ripeteva in dialetto, come una cantilena, mentre scuoteva la testa. I ragazzi non capivano ogni parola, ma le sue lacrime bastavano a coinvolgerli senza eccezioni. Piangeva come le accade sempre quando vede entrare nel suo cortile i pantaloncini corti e le camicie azzurre degli scout. È come se rivedesse il figlio che ritorna. Don Peppe, lo scout”.

Iolanda, madre di scout

Iolanda era scesa con fatica dalla sua casa al primo piano di via Garibaldi 29. Il marito, Gennaro Diana, l’aveva informata che il gruppo che aspettavano era arrivato. Lei era avanzata con il passo incerto per spostarsi fin sotto l’androne dell’abitazione. In quel cortile una volta si praticavano molte attività agricole, come certifica la classica tettoia per gli attrezzi ora inesistenti, sostituita da vasi di fiori e piante ornamentali, soprattutto cicas, una pianta sempreverde originaria dell’Asia che da queste parti è molto diffusa. Il marito anziano e i figli insegnanti hanno detto addio da tempo al lavoro dei campi, che aveva rappresentato a lungo per la famiglia l’unica fonte di reddito.

Osservata da vicino, Iolanda zoppicava vistosamente. Non aveva ancora assorbito i doppi postumi di un’operazione al femore e di un tumore al seno. Indossava, come al solito, maglia e gonna nera, il segno quotidiano del suo lutto. Portava un frontino grigio nei capelli bianchi e al collo l’inseparabile medaglina a forma di cuore, con dentro la foto del figlio “Pinuccio”. Cercava di nascondere l’emozione alla vista degli scout, ma con scarsi risultati. Quei ragazzi erano arrivati da così lontano fino a Casal di Principe in treno, con il sacco a pelo e alcune provviste al seguito, per conoscere la terra di don Peppe Diana, i suoi amici, la sua famiglia. La sera dovevano dormire al Santuario della Madonna di Briano, lì vicino. E lei, Iolanda Di Tella, la mamma di don Peppino, 76 anni e molti acciacchi, il portamento fiero di contadina, ancora una volta non si era tirata indietro. Pronta a mostrare il suo dolore, ma anche a comunicare il suo affetto a quei ragazzi. Battagliera come sempre. Soprattutto quando si è trattato di difendere la memoria di suo figlio. Molto di quel che si è fatto in proposito lo si deve anche a lei. Che non si è mai stancata di telefonare ai magistrati, agli amici, al vescovo di Caserta Raffaele Nogaro e a don Luigi Ciotti. Gli scout di Ivrea non la conoscevano. Chi partecipò ai funerali di don Peppe quel 21 marzo del 1994, quando ventimila persone attraversarono tutta Casal di Principe dietro il feretro, se la ricorda bene, invece. Dai balconi penzolavano centinaia di lenzuoli bianchi. Per una volta quei portoni impenetrabili come fortini assediati avevano mostrato un altro volto: più umano, sensibile e solidale. Tutta la città era fuori dalle case. Anche da quelle in stile hollywoodiano o piene di colonnati stile impero che imperversano in ogni dove. Che vorrebbero simboleggiare la grandezza e la potenza di chi le abita, ma raccontano solo il gusto kitsch e l’incultura diffusi con la nuova ricchezza.

Ai lati del corteo funebre la gente piangeva sinceramente mentre osservava quella fiumana di persone che avanzava lenta come un magma uscito d’improvviso da un vulcano. Pian piano la folla si spandeva per i vicoli stretti, li occupava, li copriva di uno spirito nuovo. Il vociare di sottofondo faceva uscire dalle case altra gente. E dai balconi si srotolavano lenzuoli bianchi che facevano da ala al funerale. Una scena che si ripeteva con l’avanzare del feretro del giovane parroco, portato a spalla dai suoi amici e dagli scout. L’uccisione di un sacerdote per mano della camorra era troppo anche per chi da anni era abituato a vedere e a subire decine di morti ammazzati.

Sembrava la madonna Addolorata, quel giorno, Iolanda. Con gli occhi asciutti rivolti verso il cielo, senza più lacrime da versare. Camminava con la testa quasi all’indietro, lo sguardo assente. «Pensavo solo al mio Peppe», avrebbe raccontato. Con il marito e i figli, Emilio e Marisa, se ne stette immobile nel piazzale del cimitero dove si celebrò il funerale. Uno slargo enorme, e tuttavia incapace di raccogliere le ventimila persone che accompagnavano suo figlio. I più dovettero accontentarsi di sostare nelle strade laterali e ascoltare la messa dagli altoparlanti. Lei era tutta chiusa nel suo abito nero. Teneva lo sguardo fisso nel vuoto, come se stesse chiedendo conto direttamente a Dio di quel che era accaduto al figliolo, che pure aveva scelto di servirlo.

«Sono passati tanti anni da quel giorno, ma il dolore non mi passa, non mi può passare e non mi passerà mai» continuava a ripetere sottovoce nell’androne, mentre gli scout la scrutavano commossi. Quasi si scusò e abbassò la testa per non farsi sentire. L’emozione contagiò tutti quanti. I ragazzi cercavano di resistere abbassando la testa. Qualcuno si girava di lato. Ma le lacrime di Iolanda non si fermavano. Fu Valerio Taglione, capo  scout dell’Agesci, responsabile provinciale di Libera e portavoce del comitato don Peppe Diana a rompere il ghiaccio e a togliere tutti dall’imbarazzo. «Su, adesso non facciamo di questo incontro solo un momento di dolore». «No, è che sono contentissima di vedere questi ragazzi – fece lei – Ma è che ho una fitta al cuore. Non mi può passare. Non me lo dovevano fare – continuava a ripetere – Non mi passerà mai». Quel giorno di agosto gli scout erano arrivati alla stazione ferroviaria di Aversa alle 9,00 del mattino. Ad attenderli c’era, appunto, Valerio Taglione. A lui si erano aggiunti Salvatore Cuoci, presidente della scuola di Pace “Don Peppe Diana”, e altri due scout di Aversa, Emiliano Addelio e Lucia Cacciapuoti.


«…La sera prima non aveva fatto molto tardi perché l’indomani doveva alzarsi presto, e non cenò nemmeno. Solamente un bicchiere di latte – Iolanda, sempre seduta sulla sedia sotto l’androne, riannodò per loro i suoi ricordi – Venne a salutarmi in cucina e poi si diresse verso la sua camera. È l’ultima immagine che ho di don Peppe. Il giorno dopo si alzò più presto del solito, alle 6,00. Era il suo onomastico. Aveva dato appuntamento al bar ai suoi amici, subito dopo la messa. Qui noi usiamo che si offre a tutti un caffè con una bella polacca calda, un dolce tipico di queste zone. Praticamente è un cornetto più elaborato, con al centro crema pasticcera e amarene. Stessa cosa avrebbe fatto poco più tardi all’Itis Alessandro Volta di Aversa, dove insegnava religione. Aveva già dato incarico ad alcuni suoi amici di far arrivare polacche per tutti i colleghi. Lo sentii che camminava per le stanze e, poco dopo, udii provenire dalla cucina i soliti rumori: il frigo che si apriva, il caffè che saliva, il profumo che invadeva la casa, le ante dei mobili che si chiudevano, la tazzina sul lavandino. Conoscevo a memoria quei rumori, perché ogni mattina erano uguali. Spesso ero io ad alzarmi prima di lui per preparagli il caffè. Poco dopo la porta si chiuse dietro di lui e sentii i suoi passi mentre scendeva le scale della cucina. Aprì il portone per uscire e si incamminò a piedi verso la sua parrocchia di San Nicola di Bari, che da qui dista dieci minuti. Immaginai il percorso che faceva, perché l’avrò fatto centinaia di volte. Lo seguii col pensiero. Ecco, adesso avrà girato l’angolo. Ora, magari, avrà salutato le prime persone mattiniere che ha incontrato sui suoi passi. Udii le campane che il sagrestano, Agostino Iaiunese, aveva incominciato a suonare. Pochi altri passi ed era arrivato nello slargo davanti alla parrocchia. Ad aspettarlo all’entrata della chiesa c’era il suo amico fotografo, Augusto di Meo, per fargli gli auguri. Le suore e una decina di donne anziane erano già dentro, sedute nei banchi a pregare. Entrò in sagrestia per prepararsi per la messa. Incominciò a indossare i paramenti sacri. Erano da poco passate le 7,20. Nel
frattempo anch’io mi ero alzata e stavo sistemando la sua stanza, come tutte le mattine. Prima di andare a scuola Peppe ripassava da qui e gli preparavo un altro caffè. Quella mattina non sarebbe tornato perché andava di fretta. Proprio in quei minuti arrivò anche il killer che non lo conosceva di persona. Indossava un giubbotto di pelle e aveva i capelli lunghi. La sua età poteva essere quella di una persona sulla trentina. Avanzò a passi veloci. Chiese a una vecchietta dove fosse il prete. E lei gli indicò la sagrestia. Pochi momenti prima era uscito il fotografo. Incrociò il killer, che entrò mentre Peppe stava ancora preparandosi. Mio figlio era girato di spalle. “Chi è don Peppe?”, chiese ad alta voce l’uomo appena entrato in sagrestia. E lui, sentendosi chiamato, si girò: “Sono io don Peppe”. Ebbe solo il tempo di dire queste parole e di guardare in faccia il suo assassino. Il killer tirò fuori dalla cintola una pistola, ed esplose quattro o cinque colpi. Due dei quali lo colpirono al volto, mentre gli altri, esplosi alla distanza di qualche metro, lo colpirono al capo, al collo e alla mano destra provocandogli una morte istantanea. Cadde all’indietro. Il sangue cominciò a scorrere sul pavimento. Il killer fuggì. In chiesa furono attimi di terrore. Accorsero le poche donne che erano lì, le suore, il sagrestano e Augusto il fotografo.

Le urla attirarono altre persone che in quel momento passavano fuori la chiesa. Qualcuno tentò di rianimarlo. Ma non c’era più nulla da fare. Era morto. Passarono pochi minuti e venne di corsa il sagrestano ad avvisarmi. Suonò il citofono in maniera concitata. Mi spaventai. Il cuore cominciò a battermi. Aprii il portone da sopra, con il pulsante elettrico. Mi affacciai alla balconata e vidi il suo volto pieno di disperazione. Ebbi paura: “Iolanda, Iolà – gridò – hanno levato ’a don Peppe ’a miézo”. Capii bene che voleva dire che l’avevano ucciso, ma non ci volevo credere. Mi sembrava una cosa così assurda, che risposi con scetticismo: “Ma che stai dicendo?”. “Sì, Iolanda, hanno ucciso a don Peppe”. Mi crollò il mondo addosso. Dovetti sedermi. Mi pareva una cosa talmente impossibile che stentavo a prenderla per vera. Ma quando vidi che fuori casa mia si faceva un vociare di persone che accorrevano dopo aver appreso la notizia, il mio cuore cominciò a sussultare forte. Sembrava che dal petto fosse passato alla gola e mi sentii scoppiare. Chiamai mio marito e mio figlio Emilio: “Gennaro..., Gennà…, Emilio…, correte..., correte, andate a vedere cosa hanno fatto a Pinuccio”. Aveva 36 anni e ancora tanto da vivere».

Gli sguardi dei ragazzi che ascoltavano immobili, in un silenzio assoluto, il racconto di Iolanda Di Tella, si velarono. Lei abbassò la testa. Si guardò l’immaginetta che portava appesa al collo con la foto del suo Pinuccio. La baciò, la strinse tra le mani e continuò con i ricordi delle prime ore dopo la morte. Quelle delle discussioni sul perché e sul percome era stato ucciso e su chi avrebbe avuto interesse a farlo. «In casa mia erano venuti un po’ tutti a portarmi le condoglianze. Anche quelli della famiglia Schiavone, con la quale c’è una parentela alla larga. I primi giorni girava la voce che era stato proprio il gruppo Schiavone a fare assassinare mio figlio. È stata dura in quei momenti. Pregai mio figlio morto di farmi rimanere calma. Feci ricorso a tutte le mie residue forze, altrimenti in quelle ore avrei cacciato quelli che mi erano stati indicati come i mandanti. Mi rivolsi ancora al mio Peppino che stava in una cassa da morto: “Fammi restare serena, non farmi prendere dall’odio”. Non so come, ma ebbi la forza per riuscirci. Questa ostilità nei confronti di quelli che io consideravo comunque colpevoli l’ho espressa apertamente. Tanto che per molto tempo la moglie di Francesco Schiavone, Giuseppina Nappa, cercò di parlarmi. Lei è coetanea di don Peppe. Si conoscevano. Erano andati a scuola insieme. Alcuni giorni dopo il delitto aveva cercato di contattarmi attraverso don Carlo Aversano, ma io avevo sempre declinato l’invito. Lei voleva chiarire che la famiglia del marito non c’entrava niente con la morte di mio figlio. Non gliene diedi l’occasione. Però, siccome abbiamo parenti in comune, avremmo potuto incontrarci casualmente da qualche parte. Ma ogni volta che c’era questo rischio, se io ero da un parente o c’era già lei, gli altri uscivano di casa e avvertivano: c’è la mamma di don Peppino, non ti vuole incontrare, non entrare. Qualche anno dopo, io mi trovavo a casa di una mia zia e arrivò anche lei, Giuseppina Nappa. Fu un incontro occasionale. Io non la conoscevo. C’era mio figlio Emilio che stava con me. Lei entrò e disse a Emilio che voleva parlarmi. Così si presentò e volle spiegarmi la sua versione dei fatti: “Voi avete pianto don Peppe perché è vostro figlio, ma il dolore nostro è stato altrettanto forte. Con don Peppe ci conoscevamo da piccoli, eravamo andati a scuola insieme e spesso ci incontravamo. Aveva battezzato un mio bambino. Mio marito, per come la pensa, non avrebbe mai ucciso un sacerdote, perché se avesse avuto qualcosa da dire, avrebbe anche avuto il coraggio di parlare con don Peppe e don Peppe faceva lo stesso. Dovete sapere che a casa ho l’immagine di don Diana con i fiori davanti”. Le risposi che a me non interessava quale fazione avesse ucciso mio figlio. Quelli che scelgono certe strade, per me sono tutti uguali. Poi mi hanno detto che il 19 marzo del 2004, quando c’è stato il corteo per il decennale della morte di don Peppe, era presente anche lei».

«Ora senza mio figlio la mia vita non è più la stessa – disse Iolanda – Avevo avuto sempre paura che gli potesse accadere qualcosa. Quando andavo a messa ed era lui a spiegare il vangelo, parlava spesso contro la camorra. Io mi sedevo sempre nelle ultime file dei banchi, quasi per non farmi vedere. Ma dopo la funzione andavo in sagrestia e con la scusa di prendergli i paramenti sacri per lavarli, lo prendevo da parte e gli dicevo: “Peppì, ma perché parli sempre di queste cose. Qui l’ambiente è difficile...”. “Mammà – mi rispondeva – ma è la Chiesa che mi dice di parlare così. La Chiesa di Roma”. Allora io, non convinta, quando andavo a casa accendevo il televisore e lo sintonizzavo dove facevano la messa. Volevo ascoltare con le mie orecchie se era vero che anche a Roma parlavano in quel modo o era lui che insisteva. Avevo paura per la sua incolumità. Poi a volte sentivo che anche in televisione parlavano come lui e mi calmavo. Pensavo che qui ai preti, in fondo, non li hanno mai toccati. Queste cose, fino a qualche anno prima, accadevano solo in America Latina. Solo che pochi mesi prima accadde una cosa che mi turbò molto, come turbò anche mio figlio. Il 15 settembre del 1993 venne ucciso a Palermo, nel quartiere di Brancaccio, don Pino Puglisi, nel giorno del suo compleanno. Me la ricordo bene quella sera in cui diedero la notizia in televisione. Stavamo in casa, in cucina, e c’era anche lui. Quando sentii che avevano ucciso un prete in Sicilia, mi sentii mancare. Era proprio accanto a me che preparavo la cena. Gli dissi: “Peppì, hai sentito? Ora se la prendono anche con i preti”. “Mammà – mi fece – ma perché ti preoccupi? Se ci ammazzano, in qualche modo dobbiamo esserne contenti, perché noi abbiamo fatto la scelta di servire il Signore. E, se è necessario, dobbiamo donare anche la vita per testimoniarlo”. Non risposi, ma ci restai male, perché vidi che lui parlava della morte come di una cosa che poteva accadere. Come mamma me ne preoccupavo. Avevo paura. Sapevo bene che aveva fatto la scelta di opporsi apertamente alla camorra. “Se hanno ucciso Gesù Cristo – mi ribadì – vuol dire che potranno ammazzare anche noi che seguiamo i suoi insegnamenti”. E io insistevo, per cercare di proteggerlo: “Ma tu porti anche questa barba che sembri un pregiudicato. Cammini a ogni ora del giorno e della notte. E se ti prendono per un malvivente?”. “Mamma, ma di che ti preoccupi – mi diceva – se mi fermano, io gli caccio il rosario, gli dico che sono un sacerdote, e se vogliono togliermi l’auto o i soldi, glieli do volentieri. Ma sono sicuro che vicino a me non ci vengono”. Lo diceva per tranquillizzarmi. Invece non è stato così».

A quel punto Iolanda abbassò la testa e mise le mani davanti agli occhi. Voleva nascondere le lacrime. Ma ancora una volta non ci riuscì (...)"

domenica 18 marzo 2012

DON GIUSEPPE DIANA BEATO. LA LETTERA DEL VESCOVO EMERITO DI CASERTA, RAFFAELE NOGARO. PROMUOVIAMO UNA PETIZIONE DA PRESENTARE AL VESCOVO DI AVERSA

Ieri mattina nella curia di Aversa, mentre il vescovo Angelo Spinillo, con i sacerdoti della Foranìa di Casal di Principe,  presentava la ristampa  del documento: "Per amore del mio popolo",  gli ho chiesto pubblicamente del perché la chiesa non  dà inizio al processo di beatificazione per don Diana. "Non ci abbiamo pensato", è stata la sua risposta. Ma si è detto disponibile a percorrere questa strada qualora arrivasse una richiesta di almeno cinquanta persone in tal senso. Già due anni fa il vescovo emerito di Caserta, monsignor Raffaele Nogaro, in una lettera privata ai  genitori del sacerdote ucciso dalla camorra, aveva riproposto la questione. Qui sotto ripubblico la lettera e magari possiamo cominciare proprio da qui l'avvio di una petizione da inoltrare al vescovo di Aversa.
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Il testo della lettera di Monsignor Nogaro del 17 marzo 2010

Ci sono i martiri del nazismo. Ci sono i martiri del comunismo. Ci sono stati i martiri dell’impero romano.

Grandi, perché hanno saputo resistere al male, fino a sopprimerlo con il sacrificio della loro vita.
Il Cristo crocifisso rivive e si rinnova in loro con tutta la potenza della sua redenzione.

La chiesa si sente graziata da una testimonianza piena di parresia e li proclama , con fierezza, “makarioi, benedetti e beati, persone valorose, felici, esemplari”
Il nazismo ha assunto il volto satanico del male, rifiutando l’uomo, per accogliere solo colui che poteva essere di razza pura. Il comunismo, di sapore evangelico, si è tradotto, nella sua concretizzazione storica, in tanti disastri.

La Chiesa, riconoscendo l’esemplarità di vita delle vittime di questi movimenti, dichiara anche la propria innocenza verso le loro ideologie di morte.

C’è pero’, un male originario, quello di Caino. Caino vuole tutto per sé, anche i beni del fratello Abele.
Per averli, lo uccide. E’ il male della camorra. E’ il male della natura umana, l’egoismo, che nella camorra viene esasperato all’estremo.

Le chiese del Sud non hanno voluto combattere questo male. Si sono rassegnate a forme di convivenza e di opportunismo.
In verità, “il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17,21). Esso esercita segretamente, ma con intensità, il suo potere. E anche nel mondo della camorra, fioriscono i martiri, i testimoni della giustizia del regno di Dio: ecco Giuseppe Diana, a fianco di Giuseppe Puglisi.

Giuseppe Diana è il riscatto delle nostre terre sempre oppresse, è l’anima pulita della nostra chiesa meridionale.
E’ giunto il momento di proclamarlo “beato-makarios, il valoroso, il giusto”.

Ha pagato di persona , come Gesù, fino a donare la vita per i fratelli.
La chiesa, inoltre, non potrà mai assumere il volto della purezza evangelica, se non presenta i suoi “martiri della libertà”, contro le presenze massacranti della camorra.
Recentemente ha pubblicato un documento di grande responsabilità, sul fenomeno malavitoso, suggerendo cosi’ possibili catechismi della legalità.

E’ un atto di coscienza che le fa onore.
Tuttavia minaccia di lanciare la scomunica ai camorristi.
Spero non lo faccia mai, perché la chiesa ha ricevuto la consegna di Gesu’ di “non condannare”.
La scomunica definisce la distruzione della persona, il fallimento totale della speranza.

E la chiesa delude profondamente quando scomunica.
La sua missione è quella di offrire agli uomini, “senza preferenza di persone” (At. 10,34), a tutti quindi, la compassione, la comprensione, la misericordia, il perdono di Cristo.

Giuseppe Diana, quale sacerdote della Chiesa, ha esaltato la sua responsabilità cristiana del servizio al prossimo fino al martirio.
Era il prete che viveva il “ sacramento della vocazione”.
Il Padre lo voleva per sé: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi mando” (Gv. 15,16).

Rifletteva appassionatamente su questa compiacenza di Dio, che gli affidava una missione specifica.
Ed era convinto che ogni suo gesto aveva l’autorizzazione del Padre.

Era un prete che viveva il “sacramento dell’incontro”.
Compito del discepolo di Cristo è “amare il prossimo”.
“Prossimo”, superlativo di “prope”, significa “vicinissimo” inscindibile da me.

Per amare la persona bisogna “incontrarla”, avvicinarla, farla “prossimo” e soccorrerla al bisogno.
E’ necessario compiere per ogni “prossimo”, ogni donna e ogni uomo, tutte le possibili opere di misericordia.
Era un prete che viveva il “sacramento della Parola-Carne”.
Gesu’ il “Verbum Dei” si fa “carne” d’uomo-si fa coscienza d’uomo.

Il destino, cioè la consegna di vita, di Giuseppe Diana, era evidenziato dalla incarnazione di quel Dio che si fa carne in lui.
Il suo destino è uno solo, strutturale, non rinunciabile, non modificabile, che non puo’ essere tradito: essere testimone di Cristo.
In qualità di testimone del Signore, egli riscrisse parte del Vangelo, in quel testo sapienziale ” Per amore del mio popolo”
Soprattutto, quale testimone genuino di Cristo, è salito lungo tutto il suo Calvario, per mettersi in Croce con Lui.

Giuseppe Diana esaudisce quei criteri di santità, che gli concedono di essere “makarios-beato”.
E’ necessario che la nostra chiesa ne prenda atto. Solo se la chiesa lo proclama “beato-benedetto e bravo”, attribuisce a se stessa la dignità della lotta fino all’ultimo sangue, contro la camorra.
Altri tentativi di riscatto possono riuscire ormai non credibili e forse non affidabili.

La Chiesa, che celebra i suoi “martiri della giustizia”, diventa la garanzia della vittoria sulla la camorra.

DON GIUSEPPE DIANA: 20 ANNI DALLA PUBBLICAZIONE DEL DOCUMENTO "PER AMORE DEL MIO POPOLO"

Ripropongo un mio articolo sui vent'anni del documento "Per amore del mio popolo" che fu causa della morte di don Giuseppe Diana, ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994. Questo articolo è stato pubblicato dal  sito: www.ilfattoquotidiano.it il 24 dicembre 2011. 

A Natale del  1991, don Giuseppe Diana pubblicava il documento: “Per amore del mio popolo”. La curia di Casal di Principe lo distribuirà ha distribuito nuovamente il 25 dicembre scorso al popolo dei fedeli proprio come quel Natale. Lo ha fatto per riannodare il filo della memoria con un martire della Chiesa, ma anche per indicare una via d’uscita a quanti ancora oggi sono imbrigliati nella rete dell’illegalità e della violenza. Quel documento, che è di un’attualità straordinari (riproposto inq uestigiorni anche dalla Diocesi di Aversa, che finalmente lo ha fatto suo) fu una delle cause della uccisione di don Diana per mano della Camorra, avvenuta il 19 marzo del 1994.

Il parroco della chiesa di San Nicola di Bari di Casal di Principe tuonava contro la politica e le sue collusioni con la camorra. Puntava il dito contro la sua chiesa che non parlava con voce chiara. Denunciava la presenza di un’imprenditoria collusa e corrotta. Ma lo faceva quasi in solitudine, in un clima di violenza diffusa che ha prodotto decine e decine di morti. Don Peppino credeva nella “forza della parola”. La usava per spiegare, convincere e disarmare i giovani che erano affascinati dalla violenza camorristica. Alzava la voce per difendere la parte più debole del suo popolo. L’amore per la sua gente e la sofferenza di tante famiglie lo aveva spinto ad uscire dalla sagrestia per cercare di impedire a tanti giovani di percorrere i sentieri che portavano direttamente alla morte. E per questo era diventato il simbolo del riscatto della propria terra. Non glielo hanno perdonato. Ha pagato con la vita il coraggio di ribellarsi.

“La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Scriveva don Diana in quel documento del 1991. Fotografava la vita nelle contrade del suo territorio con una chiarezza unica: “I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”. Conosceva fin troppo bene la sofferenza di tante mamme che temevano di vedere distrutte le vite dei propri figli. Perciò scriveva: “Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra”. Era consapevole che la Chiesa deve svolgere un ruolo di primo piano nel costruire la speranza. Perciò parlò con le parole dei Profeti. Utilizzò le parole di Ezechiele per richiamare la denuncia. Le parole di Isaia per guardare avanti. Le parole di Geremia per richiamare la Giustizia sociale” e la “Genesi” per vivere nella solidarietà.

La politica la metteva sul banco degli accusati: “E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale”. Si appellò soprattutto ai suoi confratelli, ai Cristiani, al popolo di Dio, per aprire un varco nei clan della camorra che nel 1991 apparivano, nonostante le divisioni, come un unico monolite di violenza. Si appellò soprattutto al Popolo di Dio e ai sacerdoti:

“Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. (…) Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

E’ stato ucciso per quello che ha scritto. Ma il suo sangue è stato il seme che ha dato buoni frutti. Ora, il territorio che in tanti conoscevano come il regno della camorra, sta cambiando pelle grazie anche al suo martirio e sta cambiando anche nome: Casal di Principe non è il paese di Sandokan, ma è il paese di don Peppino Diana.

STRAGE DI USTICA: BLOCCATI ANCORA UNA VOLTA I RISARCIMENTI AI FAMILIARI DELLE VITTIME

Ci risiamo. Ancora problemi per il risarcimento ai familiari delle vittime della strage di Ustica. Per avere una risposta dallo Stato dovranno aspettare ancora tre anni gli 81 familiari delle vittime della strage del Dc-9 che si inabissò nel mare di Ustica il 27 giugno nel 1980. Tre anni che si aggiungono ai 31 trascorsi dal misterioso disastro. La corte d'appello che dovrà decidere se confermare o meno la condanna milionaria dei ministeri dei Trasporti e della Difesa ha rinviato al 2015 il processo. Ma intanto ha deciso il congelamento del verdetto di primo grado: i parenti di chi nella tragedia dell'Itavia perse la vita, per ora, non incasseranno i risarcimenti. Sospesi in attesa della pronuncia sull'impugnazione del verdetto che riteneva colpevole lo Stato di non avere garantito la sicurezza del volo e di avere negato a chi la chiedeva la verità sul disastro. Un'impugnazione che, secondo la corte, non sarebbe manifestamente infondata e che richiederebbe un'accurata valutazione. A far pendere la bilancia per la sospensione dei risarcimenti c'è poi - scrive il collegio presieduto da Rocco Camerata Scovazzo - «la considerevole entità della somma oggetto della condanna». Insomma i 110 milioni liquidati pesano: recuperarli dalle parti in caso di accoglimento dell'appello dell'avvocatura dello Stato sarebbe difficile. E comunque, il debitore - cioè lo Stato - avrebbe un grave danno dall'adempimento«. »La decisione della corte d'appello di Palermo in realtà non ci sorprende: la sospensiva è in un certo senso comprensibile vista l'estrema importanza della somma liquidata in primo grado ai familiari delle vittime«, commenta Daniele Osnato, legale di 68 delle 81 parti costituite al processo.»

"Quello per cui davvero ci rammarichiamo - spiega - è il rinvio del processo al 2015. Dalla strage di Ustica sono passati quasi 32 anni: quanto tempo devono attendere le persone per avere una risposta?«. Un'attesa lunga decenni quella dei familiari delle vittime che fu stigmatizzata anche dalla sentenza di condanna dei ministeri. Il giudice riconobbe »il loro interesse a conoscere come e perchè i congiunti sono morti e anche perchè tale conoscenza sia stata così evidentemente preclusa per trent'anni«. In parole povere nel verdetto venne riconosciuta l'esistenza di un diritto alla verità leso e quindi da risarcire. »L'esigenza di sapere la verità - scrisse il giudice - «è indispensabile per poter definitivamente seppellire i morti e compiutamente elaborare il lutto che è conseguito al disastro aereo di Ustica». A ricostruire un pezzetto di quella verità il magistrato di primo grado ci provò: e nero su bianco scrisse che la notte del 27 giugno del 1980, sui cieli di Ustica, c'era un'azione di guerra. Una conclusione tutt'altro che scontata e negata per anni.

«Vengo a sapere che a Palermo c'è stata la sospensiva rispetto al pagamento al quale erano stati condannati i ministeri dei Trasporti e della Difesa nei confronti dei parenti delle vittime della strage di Ustica. Senza entrare nel merito tecnico della decisione, debbo comunque rilevare una grande difficoltà da parte di governi e apparati dello Stato nel prendere atto della verità sulla strage di Ustica e sulle sue conseguenze». Lo afferma Daria Bonfietti, presidente dell'Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica. «In questa occasione, però - aggiunge - mi permetto anche di sottolineare come il Governo sia stato ben sollecito nel ricorrere e nel proporre la sospensiva rispetto alla sentenza del tribunale civile di Palermo, e non sia attivo nello stesso modo nel chiedere a Stati amici ed alleati - Francia, Belgio, Germania e Stati Uniti - la risposta alle rogatorie (che giacciono inevase da due anni) della Procura della Repubblica di Roma, che ha riaperto le indagini dopo le dichiarazioni del presidente emerito Francesco Cossiga, il quale attribuiva la causa della tragedia ad un attacco di aerei francesi».

sabato 17 marzo 2012

LE INIZIATIVE PER RICORDARE DON GIUSEPPE DIANA. IL VESCOVO DI AVERSA: "PENSEREMO ANCHE AL PROCESSO DI BEATIFICAZIONE"

Il  vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, ha presentato stamane nella sala della curia, l’opuscolo “…poiché il cielo rosseggia”. Una pubblicazione  che contiene il documento scritto 20 anni fa da don Giuseppe Diana, insieme ai sacerdoti della Foranìa di Casal di Principe: “per amore del mio popolo”. La Diocesi di Aversa, con questa pubblicazione ha fatto suo il documento pubblicato a Natale del 1991 (meglio tardi che mai!), un documento che conserva ancora tutta la sua forza dirompente. “Con questa iniziativa – ha affermato il vescovo Spinillo -  vogliamo sottolineare la contrapposizione stridente che esiste tra i falsi messaggi della camorra e il messaggio di Gesù Cristo. Questo documento  ci indica anche un cammino  che la comunità vuole seguire”. Nel corso dell’incontro ha fatto capolino  la richiesta di aprire il processo di beatificazione per don Diana. Il Vescovo, che ha candidamente risposto: “Non ci abbiamo mai pensato”, si è detto però disponibile ad aprire la strada alla beatificazione di don diana se lo vogliono i fedeli.

L’iniziativa della Curia aversana ha aperto la serie di manifestazioni pera ricordare il diciottesimo anniversario della morte del sacerdote di Casal di Principe, ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994, nel giorno del suo onomastico, nella parrocchia di San Nicola di Bari, perché ritenuto «colpevole» di provare a risvegliare la coscienza dei suoi concittadini e di denunciare i soprusi dei camorristi.

Stamane, in contemporanea all’iniziativa di Aversa, se n’è tenuta un’altra a Pomigliano D'Arco. Un corteo è sfilato per le vie della città per ricordare don Diana.    La manifestazione. La giornata si è conclusa con lo spettacolo teatrale "CRAVATTARI" di Fortunato Calvino


Lunedì 19 marzo tutte le scuole della Campania saranno chiuse proprio  per ricordare la morte di don Diana. Sempre lunedì il  gruppo “I Care” di Trentola Ducenta incontra Alex Zanotelli per celebrare la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di don Giuseppe Diana


 Sempre lunedì sera, ma alle ore 19, nella chiesa di San Nicola a Casal di principe, Messa solenne celebrata dal Vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, con i parroci della diocesi.


 Tra le iniziative in programma, il giorno 20 marzo verranno resi noti i nomi dei vincitori del «Premio don Peppe Diana» organizzato da Libera Caserta e dal Comitato don Peppe Diana; andrà a persone che nei più svariati campi si sono distinti nell'inviare messaggi di legalità, come faceva costantemente don Peppe. Il 21 marzo, invece, le due associazioni insieme si sono fatte promotrici di un'iniziativa presso 90 istituti scolastici campani dalla denominazione «Stessa ora, stesso giorno». In tutti gli istituti infatti verrà proiettato il film-documentario «Oltre Gomorra. Il tesoro dei boss». L'argomento della manifestazione sarà il rifiuto della criminalità e il rispetto delle regole della società civile.


Sabato, 24. Marzo, infine, a Benevento, per iniziativa degli scout “Agesci Benevento 2”, “Non tacerò – In memoria di don Peppe Diana” una intera giornata di riflessione e informazione sul tema della legalità.

A GENOVA CON LIBERA 100MILA PERSONE A FIANCO DEI FAMILIARI DELLE VITTIME INNOCENTI

 Novecento nomi pronunciati come in una lenta, dolorosa via crucis hanno chiuso la grande manifestazione voluta da Libera per la 17/ma Giornata della memoria e dell'impegno per le vittime di mafia a Genova. In 100 mila hanno invaso la città per dire no alla criminalità organizzata. Protagonisti i parenti delle vittime, quasi tutti provenienti dalle regioni più a rischio come la Sicilia, la Calabria e la Campania, ma è stata l'Italia del coraggio e della consapevolezza a scendere in piazza per ricordare quel «popolo di viventi» strappato alla vita da Cosa nostra, dalla 'ndrangheta e dalla camorra. Novecento nomi: accanto a Rizzotto, Impastato, Borsellino, Falcone, agli agenti delle loro scorte, a Chinnici, Dalla Chiesa, i nomi di uomini, donne e ragazzi sconosciuti. E sono sconosciuti anche i ragazzi che oggi hanno invaso Genova per dire no alla violenza della mafia. «Siete meravigliosi» ha detto don Luigi Ciotti alla fine del corteo, dopo che in tanti si sono alternati sul palco a leggere quei nomi che sono scolpiti uno dopo l'altro nella memoria dell'antimafia più vera. «Il costante impegno nel rinnovare il ricordo delle donne e degli uomini vittime della criminalità mafiosa contribuisce a sottrarre alle organizzazioni criminali spazi e occasioni di penetrazione e di consolidamento nella società» ha scritto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato a don Ciotti stamani. Ed è vero: qui, tra questa gente che cammina con la fotografia del proprio caro massacrato appesa al collo, con un Tricolore in mano, con uno striscione con le parole di Falcone, la mafia non ha aria da respirare, non ha acqua di coltura, non ha terreno da conquistare.

Genova dice in questo modo da che parte sta: questa città che trovò la forza di liberarsi da sola dai nazifascisti dice che ci si può liberare anche dalle infiltrazioni che ammorbano l'economia nel nord Italia. Perchè la mafia non è più «quella con la coppola e con la lupara. Oggi è ben altro. La vera forza della mafia - ha detto don Ciotti - non sta dentro la mafia ma fuori da essa, in quella zona grigia costituita da segmenti della politica, delle professioni e dell'imprenditoria». Anche il sindacato può costruire armi efficaci contro la criminalità organizzata. Ricordando Placido Rizzotto, sindacalista ucciso 64 anni fa con altri suoi 42 compagni per le idee che difendeva in una Corleone avvelenata dalla cosca di Liggio, Maurizio Landini (Fiom) propone un «nuovo modo di combattere l' illegalità che passa attraverso una estensione dei diritti e l' applicazione in modo esplicito e trasparente delle leggi nel nostro Paese. I sindacati - ha concluso - devono mettere un impegno maggiore su questo terreno in termini di contratti e intervento». Al termine della manifestazione, i 100 mila sono sfiniti di stanchezza ma fieri e felici: tanti ragazzi hanno ascoltato quei 900 nomi con gli occhi lucidi e c'è ancora qualcuno che alza un cartello con incise le parole di Giovanni Falcone: 'Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fà.

(fonte ANSA).

venerdì 16 marzo 2012

FUNERALI DI STATO PER PLACIDO RIZZOTTO. LO HA DECISO IL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Saranno funerali di Stato per Placido Rizzotto, il sindacalista della Cgil rapito dalla mafia il 10 marzo del 1948. Il Consiglio dei ministri ha condiviso la proposta del Presidente del Consiglio Mario Monti di celebrare funerali di Stato per Rizzotto, figura emblematica della lotta contro la mafia, una volta terminati gli accertamenti tecnici sui resti recuperati. Lo rende noto il comunicato di Palazzo Chigi. «Siamo molto soddisfatti e contenti della decisione presa dal Consiglio dei ministri per i funerali di Stato di Placido Rizzotto». Ha detto  il sindaco di Corleone, Nino Iannazzo, subito dopo avere appreso la notizia che il Consiglio dei ministri ha dato l'assenso ai funerali di Stato per il sindacalista di Corleone ucciso 64 anni fa da Cosa nostra e i cui resti sono stati identificati solo nei giorni scorsi dalla Polizia scientifica di Palermo. «È un gesto di riconoscimento del governo Monti anche per la città di Corleone, - ha aggiunto - per i grandi cambiamenti che si sono registrati negli ultimi anni». E conclude: «È un atto che dà ancora più rilievo all'attività degli inquirenti e della Polizia scientifica che ha riconosciuto i resti del povero Rizzotto».

Felice della decisione del Consiglio dei Ministri anche il nipote del sindacalista ucciso dalla mafia. «Davvero? Hanno accolto la richiesta dei funerali di Stato per mio zio? Mi sta dando una notizia bellissima. Grazie. Sono veramente felice». Placido Rizzotto, nipote omonimo del sindacalista ucciso a Corleone 64 anni fa da Cosa nostra, apprende dall'Agenzia ADNKRONOS della decisione del Consiglio dei ministri di celebrare i funerali di Stato. «Sono contentissimo - prosegue Rizzotto junior - avevo formalizzato appena ieri la richiesta dei funerali di Stato e già oggi il Consiglio dei ministri ha accolto questa richiesta. Era impensabile. Mi sorprende questa celerità. Questo mi fa capire che Plcaido Rizzotto è diventato, negli anni, un vero e proprio simbolo per tutta l'Italia, non solo per noi familiari o per il sindacato. Questa è la cosa più bella di tutti».

Placido Rizzotto si trova a Genova con l'associazione Libera per celebrare la giornata delle vittime di mafia. «Lo dirò subito ai miei 'fratellì di Libera - dice ancora emozionato al telefono - Voglio ringraziare di cuore il Governo e tutti coloro si sono prodigati per ottenere questo risultato». Ma Rizzotto ringrazia anche la «Polizia scientifica e il Commissariato di Corleone» perchè «solo grazie alla loro insistenza, al loro lavoro e alla loro professionalità si è riusciti a recuperare prima e poi a identificare i poveri resti di mio zio».




«È un successo dell'Antimafia critica che non ha mai dimenticato il nesso velenoso del nostro paese tra la mafia e la politica». Così Vito Lo Monaco, presidente del Centro La Torre, commenta la decisione del Governo di proclamare i funerali di Stato per Placido Rizzotto. «I funerali di Stato per Placido Rizzotto sanciscono la svolta dell'azione di contrasto delle istituzioni avviata con la storica legge Rognoni-La Torre che ha identificato il reato di associazione di stampo mafioso e la natura speciale del rapporto con la politica della mafia. Sono passati trent'anni da quella legge, ci sono state tante altre stragi. Fare luce sui rapporti mafia-politica - continua Lo Monaco - significa dare compiutezza alla democrazia del nostro Paese. La mafia, come scrisse La Torre nella sua Relazione di minoranza della Commissione Antimafia del 1976, è un fenomeno afferente le classi dominanti. Se si condivide questo punto di vista è più facile mettere a nudo tutte le cosiddette »entità esterne« presenti in tutti i fatti tragici del nostro Paese»

«Il Governo ha dimostrato grande sensibilità nell'accogliere la richiesta di migliaia di cittadini per commemorare con funerali di Stato Placido Rizzotto». È quanto dichiara il presidente degli europarlamentari Pd, David Sassoli, che per primo, su Twitter, aveva fatto partire la richiesta di funerali di Stato per il sindacalista ucciso 64 anni fa dalle mafie i cui resti sono stati recentemente identificati. «Si tratta - ha aggiunto - di un riconoscimento importante, dovuto non solo all'uomo e alla sua battaglia, ma anche alla nostra Storia e a quella gran parte del Paese che, oggi come allora, reclama legalità e libertà da tutte le mafie. La mafia voleva far sparire per sempre Placido Rizzotto. Con la decisione di oggi - conclude Sassoli - lo Stato dimostra di avere una memoria più lunga e di saper essere più forte della criminalità».
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, in un messaggio su Twitter ha scritto: «Funerali di Stato per Placido Rizzotto. Ne siamo contenti e orgogliosi».

FAMILIARI VITTIME GEORGOFILI, TEMIAMO DEPISTAGGI SOFISTICATI SULLA STRAGE

«Per la prima volta abbiamo paura di tentativi di depistaggi sofisticati sulla verità per la strage di via dei Georgofili. Abbiamo sempre fortemente creduto in Gabriele Chelazzi e lo faremo fino alla fine dei nostri giorni sia come uomo, ma soprattutto come magistrato sagace, intelligente e preparatissimo, infatti Gabriele Chelazzi dopo attenta ricostruzione fissa la data del fallito attentato dell'Olimpico il 31 ottobre 1993. Sarà poi Gaspare Spatuzza, il pentito dell'ultima ora, colui che rivoluzionerà i processi per l'uccisione del Giudice Borsellino, a fissare una nuova data per il fallito attentato all'Olimpico nel 23 gennaio 1994. Per ora noi dobbiamo credere in ultima battuta a Gaspare Spatuzza, anche se come abbiamo sempre detto, siamo pronti in ogni momento a ricrederci se risulterà poco o male informato». Lo afferma, in una nota, Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. «Inoltre - aggiunge Maggiani Chelli - è la motivazione di sentenza del processo a Tagliavia che in primo grado sancisce la nuova data del fallito attentato all'Olimpico, dopo di che ce ne corre dal cavalcare la nuova data del 23 gennaio 1994, giorno nuovo del fallito attentato all'olimpico, quale movente politico dei neri contro i rossi, ovvero della 'strategia della tensionè come ha lasciato intendere ieri sera l'on. Veltroni a 'Servizio Pubblicò di Michele Santoro. Per citare Gabriele Chelazzi che più volte lo ha detto a noi, diciamo: 'mai innamorasi di una tesì perchè potrebbe far comodo».

«Antonio Scarano, il collaboratore di giustizia che sosteneva che la data dell'Olimpico era il 31 ottobre 1993, data peraltro molto pertinente con i passaggi da 41 bis a carcere normale messi in atto in 'tutta solitudinè dal prof. Conso ai primi di novembre 1993, è morto anzitempo e non può più essere messo a confronto con Gaspare Spatuzza. Crediamo quindi a Spatuzza sicuramente sì, ma siamo terrorizzati da chi in una data, quella del 23 gennaio 1994, identifica tutta la Verità sulle stragi del 1993, che invece è ancora in parte da scrivere e la verità non sarà completa fintanto che il governo del 1993 non si deciderà a dire attraverso i suoi uomini di allora, tutto ciò che è accaduto il quel maledetto maggio ,senza opportunismi personali o quelli legati alla ragion di stato», conclude Maggiani Chelli.

lunedì 12 marzo 2012

"JOE PETROSINO UCCISO A REVOLVERATE. MUORE UN MARTIRE"

Joe Petrosino, partì da Padula per trovare fortuna in America, ed è diventato il più famoso dei poliziotti italiani d'oltreoceano. E' ancora oggi ricordato negli USA come un martire nella lotta contro il crimine organizzato.

La storia che segue, è tratta dal mio libro "Al di là della notte", ed. Tullio Pironti

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Quattro piccole stanzette. Si aprono una nell’altra dopo aver salito alcune scale nel centro storico di Padula. Si entra in un mondo che sembra rimasto intatto come qualche secolo fa. Alzando lo sguardo si vedono case incastonate nella roccia. Rifugi di pastori. Piccole finestre con le luci accese che si animano di ombre come nei presepi viventi. È qui che il 30 agosto 1860 nacque Giuseppe Petrosino. Dentro la casa, il letto, la culla, la valigia di cartone, la cucina, le travi di legno del soffitto. Gli arredi e gli ambienti sono rimasti quasi uguali. Il tempo in queste stanze ha le lancette ferme. Appese ai muri le foto sbiadite, gli articoli di giornale, le onorificenze. Sembra di vederlo ancora in questi piccoli ambienti il piccolo Giuseppe, mentre corre da una stanza all’altra.

Ci visse fino a tredici anni, fino a quando, nel 1873, insieme al padre Prospero, ed a tutta la famiglia, partì per l’America su uno di quei bastimenti che imbarcavano migliaia di persone. Carnai galleggianti che facevano viaggiare anche i sogni degli italiani che guardavano all’America come alla terra dove tutto è possibile. Le poche notizie che arrivavano dagli emigranti, passavano di bocca in bocca: «In America si può diventare anche ricchi. Ci sono tante occasioni per fare soldi». Ma, una volta arrivati nel “Nuovo Mondo”, non tutti ce la facevano. Diventare ricchi significava lavorare sodo. Anche per questo, non tutti stavano sempre dalla parte giusta, quella della legalità. Il padre di Petrosino negli Stati Uniti va a fare il sarto. Il mestiere che faceva anche a Padula. E come tutti gli artigiani di Little Italy è taglieggiato dagli altri connazionali.

Qui la malavita ha anche un nome americanizzato, «Black hand», la Mano Nera, perché quando inviava lettere anonime per chiedere il pizzo le firmava con un’immagine di una mano di colore nero. Pur di sopravvivere il papà di Petrosino si adattò e pagò il pizzo. Giuseppe, che qui tutti chiamavano Joe, per aiutare la famiglia si mette a fare lo strillone. Vende giornali per tutta Little Italy. Poi fa anche il lustrascarpe davanti alla centrale di polizia. Conosce molti agenti che passavano da lui per farsi pulire le scarpe. Presenta la domanda di arruolamento. Vuole diventare poliziotto. Fare il poliziotto è stato sempre il suo sogno. Ce l’aveva nel sangue. Conosceva a memoria già tutti i gradi della polizia. Ma la domanda di assunzione viene respinta. Joe, allora, non si dà per vinto. La ripresenta più di una volta, ma è sempre la stessa storia. Il risultato finale non cambia. C’è sempre qualcosa che gli sbarra la strada. Riesce, però, a farsi assumere come spazzino nel dipartimento di polizia. Anche così si rivelerà una pedina importante nella prevenzione del crimine. Per strada si riescono a sapere molte cose. I poliziotti lo utilizzano come informatore.

Joe, però, non demorde dai suoi obiettivi. Vuole diventare poliziotto a tutti gli effetti. «In quegli anni», racconta il pronipote Nino Melito, che a Padula conserva gelosamente la sua memoria, «il Dipartimento è in mano agli irlandesi. E solo immaginare un italiano con la divisa è un sogno». Nel suo quartiere, intanto, la Mano Nera mette radici. Vito Cascio Ferro, piccolo boss di origine siciliana, venuto insieme a Joe in America, controlla tutta la malavita. Nel frattempo Joe si guadagna la fiducia della polizia con un episodio singolare: armato della sola scopa da spazzino, salva il Capo della Polizia da un attentato. Finalmente il sogno di Joe si avvera. Viene assunto come poliziotto nel 1883. Avrà una carriera straordinaria grazie alla sua grinta e alla sua intelligenza nel contrastare il crimine.

Per lui c’è l’appoggio incondizionato di un assessore alla polizia, Theodore Roosevelt, lo stesso che poi diventerà presidente degli Stati Uniti. Roosevelt lo nomina prima sergente, poi detective, infine tenente. Una carriera rapidissima, grazie alle sue doti innate di investigatore. Petrosino nel 1905 riesce ad ottenere anche una squadra formata da poliziotti tutti italiani, l’Italian Branch. L’ideale per capire la malavita italiana e combattere la Mano Nera. Il suo obiettivo è quello di prendere il capo della criminalità italiana, Cascio Ferro. Sarà come una sfida personale. Il duello dura anni. Petrosino viene in Italia per continuare le sue indagini. Passa dai suoi familiari a Padula. Sarà anche l’ultima volta che incontrerà il fratello Michele. La visita doveva avvenire in gran segreto.

I giornali, invece, ne parleranno abbondantemente. Lo tradirà qualcuno a lui molto vicino. Petrosino avrà dei sospetti che confiderà al fratello. Ma non farà in tempo a scoprire il traditore. E così il grande investigatore, il poliziotto di Padula, Joe Petrosino, proprio quello in cui si rivedevano tutti gli italiani onesti, viene ucciso a Palermo il 12 marzo 1909. Accade tutto alla fermata del tram di piazza Marina, alle 20,45, quando arrivano tre uomini armati. Sapevano di trovarlo lì. La soffiata era giusta. Non perdono tempo. Appena lo individuano, lo circondano e da vicino sparano quattro colpi davanti a decine di testimoni. Uno andrà a vuoto. Altri tre lo raggiungono in punti vitali: al volto, alle spalle e alla gola. Per Petrosino non c’è scampo. I killer scappano facendosi largo tra la folla spaventata dagli spari. Joe è a terra. Rantola. Perde sangue dalla bocca. Qualcuno si avvicina. Lo riconosce. Grida: «È Petrosino, è Joe Petrosino, il poliziotto che arresta quelli della Mano Nera». Petrosino muore quasi subito. Finisce così, in una piazza affollata del centro di Palermo, la vita e la carriera del poliziotto italoamericano cacciatore di mafiosi. Ma in quel momento nasce anche un mito: quello del poliziotto che aveva osato sfidare la mafia. Il mandante dell’omicidio, molto probabilmente, fu il capo della Mano Nera, Vito Cascio Ferro. Ma nessuno è stato mai in grado di provarlo.
Con la morte di Joe Petrosino la mafia siciliana diventa più potente. Il governo americano mise una taglia di 10.000 lire, per chi avesse fornito utili informazioni sui mandanti e gli assassini. Ma non ne arriveranno mai. I funerali di Joe Petrosino si svolsero a Palermo il 19 marzo, poi la salma fu reclamata da Theodore Roosevelt, presidente degli Usa, dove il 12 aprile del 1909, si svolsero i secondi solenni funerali con gli onori di un capo di Stato. Dietro il feretro sfileranno circa 250 mila persone. Un numero enorme di cittadini, segno della popolarità e della riconoscenza del popolo americano nei confronti di Joe Petrosino. Il console americano a Palermo, quando seppe della morte di Petrosino, telegrafò al governo degli Stati Uniti questo testo: «Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire».