“Se la chiesa non lo canonizza,
lo canonizziamo noi don Peppino Diana, perché lui è di una santità autentica,
genuina: la santità del popolo”. Raffaele Nogaro, il vescovo emerito di
Caserta, ritorna su una vicenda che per la chiesa casertana è una questione
ancora aperta: la beatificazione del sacerdote ucciso dalla camorra a Casal di
Principe il 19 marzo del 1994. Lo fa nella sua Caserta, in un bene confiscato
assegnato al centro Nausica, nel corso di una tappa del festival dell’Impegno
civile, l’iniziativa promossa dal Comitato don Peppe Diana e Libera. “Mi
interessa relativamente la santità canonica da parte della chiesa – continua a
dire Nogaro, che da qualche mese è ritornato a parlare in pubblico dopo una
lunga degenza - A me piace di più il Don Diana santo del popolo, perché lui si
è incarnato nel popolo. Mi piacerebbe tanto che la gente del sud lo ricordasse
come “San Peppino Diana di Terra di Lavoro”.
Nogaro racconta la sua amicizia
con don Diana, che il 4 luglio avrebbe compiuto 56 anni. “Alla fine degli anni
’80 me ne parlò il vescovo di Aversa, Giovanni Gazza, uomo del nord come me.
Don Peppino era suo segretario particolare già da qualche anno. Alla conferenza
episcopale Campana Gazza mi è venuto incontro per confidarsi un po’, perché si
sentiva a disagio nell’ambiente meridionale, dove invece io mi sono trovato
bene sin dall’inizio nonostante fossi friulano. “Ho paura per lui perché fa
affermazioni che non sono permesse. Troppo pesanti”. Anche per Gazza le prese
di posizione di don Diana erano fuori dal coro. Ma don Diana era già lanciato
lungo la strada che aveva scelto di percorrere.
Naturalmente questa franchezza, questa limpidità di un uomo di chiesa –
ricorda con particolare fervore Nogaro - mi ha entusiasmato subito. E quando Gazza me
lo ha presentato, mi ha detto, scherzando, “qui c’è un pazzo come te, solo tu
puoi aiutarlo a comportarsi bene”, subito
siamo diventati amici. Abbiamo avuto una frequentazione molto intensa. Eravamo
sintonizzati perché il suo pensiero coincideva col mio. Entrambi pensavamo che
la Chiesa era collusa con la camorra. La camorra che si è sviluppata in modo
così brutale, a livello fisico, e che è diventata un costume. Ha corrotto le
coscienze, avviene dappertutto questo, ma una mentalità camorrista specifica
purtroppo è stata possibile perché è stata quasi confortata nelle sue azioni
più malvage da una Chiesa che forse non capiva la situazione in quel momento.
Tutto questo a me pareva che fosse una vergogna. Quando don Diana mi ha fatto
vedere il documento che aveva scritto “Per amore del mio popolo” ne sono stato
felice. Nella parte in cui parla della camorra, la descrive come il nichilismo
dell’umanità perché - e si rivolge agli uomini di chiesa – il principio che
dovrebbe governare e dirigere il nostro rapporto con le persone è quello
dell’amore per il fratello. Mentre la camorra è il principio opposto: l’odio
per il fratello. Il principio della supremazia dell’egoismo,
dell’individualismo. Il nichilismo che naviga nel nostro pensiero
contemporaneo, è stato messo in atto, rivissuto da queste forme camorristiche
che troviamo nelle nostre terre. Don Diana, lo so bene, non era un prete
disciplinato – si accalda Nogaro - ma
credeva, pregava, annunciava Cristo, aveva la religione dell’amore del
prossimo. Che è quella genuina, è quella del Vangelo, quella di Papa Francesco
che dice che la Chiesa è un ospedale da campo e deve provvedere a sostenere nell’emergenza tutti quelli che hanno bisogno, amici o nemici
non importa. Ecco Don Diana faceva le cose che oggi sostiene Papa Francesco. Perciò
dico che la sua è autentica, è quella vicina al popolo. E se la chiesa non lo
canonizza, poco male, perché per la gente don Diana è già santo.
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