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Augusto Di Meo |
“Il Decreto che assume i testimoni
di giustizia nella Pubblica Amministrazione? Una buona norma, ma per me sfuma
anche questa possibilità di aiuto, perché lo Stato non mi ha mai riconosciuto
come testimone di Giustizia”. Augusto Di Meo, il fotografo di Casal di Principe
che fece condannare il killer di don Giuseppe Diana, è amareggiato e deluso,
perché nonostante la sua testimonianza sia stata determinante ai fini del
processo e delle condanne comminate, non è stato mai riconosciuto come
“testimone di giustizia”. Ora, con l’approvazione del decreto da parte del
governo di norme che prevedono l’assunzione per “chiamata diretta nominativa” e
che dovrebbe riguardare circa 80 persone in tutt’Italia, Di Meo rischia di
perdere un altro treno che potrebbe contribuire a rendere meno difficoltosa la
sua attuale condizione lavorativa e familiare, penalizzata dai problemi
derivanti della crisi economica. Augusto Di Meo ha citato in
giudizio il Ministero dell’Interno per ottenere un riconoscimento che a
diciannove anni da quei fatti, non è mai arrivato. Fu grazie al suo
coraggio se gli inquirenti cominciarono da subito la caccia a colui che aveva
osato profanare una chiesa con l’uccisione di un prete. Appena dopo
il delitto, Di Meo riconobbe in fotografia la persona che aveva sparato quella
mattina: “Si è lui, è Giuseppe Quadrano" disse deciso il fotografo ai
carabinieri che lo interrogavano
Dopo quella testimonianza, Augusto
Di Meo, temendo probabili ritorsioni, fu
costretto a chiudere la sua attività di fotografo a Villa di Briano. Si recò in Umbria,
insieme con la moglie e i due figli piccoli, dove tentò di trasferire la
propria attività di fotografo professionale, ma senza successo. “Negli anni
passati in Umbria – racconta Di Meo - ho
dovuto attingere a tutti i miei risparmi per poter continuare a svolgere la mia
attività anche dopo il trasferimento e mantenere
la mia famiglia. Nel frattempo ho maturato anche diversi debiti, perché lo
Stato non mi ha mai fornito alcuna protezione, nè mi ha mai aiutato dal punto
di vista economico”.
Di Meo, oggi
52enne, è ritornato da
quindici anni a vivere facendo il fotografo nei suoi luoghi di origine. La moglie Silvana 55
anni, insegna nelle scuole materne del
Comune di Roma. Tutte le mattine parte da Villa di Briano da casa poco prima
delle 5 e torna a sera, poco prima delle
20, con un disagio familiare non indifferente. I figli, Antonio (laureato in ingegneria) è disoccupato. La
ragazza, Livia Rosa, è laureata in scienze della formazione ed è
anche lei disoccupata. Per di più, Di Meo si trova anche a fronteggiare un forte
un debito con Equitalia dovuto proprio al fatto di non aver avuto la
possibilità di far fronte a tutte le scadenze economiche perché per anni non ha
potuto svolgere pienamente la propria attività.
Augusto, intanto, continua a raccontare come sono andati i fatti quella mattina del 19 marzo del 1994. Lo fa con centinaia di ragazzi che
passano nelle “terre di don Diana”, per i campi di lavoro promossi da Libera. Per
questa sua attività , il 30 novembre del 2012 gli è stato assegnato il “premio
Nazionale don Giuseppe Diana”, insieme al procuratore della DDA, Federico
Cafiero De Raho e al padre comboniano, Giuseppe Zanotelli.
Il suo legale, l’avvocato
Alessandro Marrese, per ottenere il riconoscimento da parte dello Stato quale testimone di Giustizia, ha scritto una prima lettera alla Commissione
Centrale che definisce e applica le misure di protezione presso il Ministero
dell’Interno, il 6 febbraio del 2012. Ma non ha ottenuto risposta. Ho sollecitato tre mesi dopo un nuovo intervento, ma niente. E così il 16 gennaio 2013 ha
presentato un atto di citazione al tribunale di Napoli contro il Ministero
dell’Interno per un giudizio che è cominciato il 13 maggio, perché Di Meo e la
sua famiglia non possono essere abbandonati così.
“Il Ministero dell’Interno si è
opposto con motivazioni che se conosciute pubblicamente – spiega l’avvocato
Marrese - sicuramente non
invoglierebbero altre persone a testimoniare contro la criminalità
organizzata”.
La prossima udienza del giudizio
contro il Ministero dell’Interno è stata fissata per il mese di dicembre 2013.
“Non mi fermo – dice Augusto con
un volto che diventa rosso dalla rabbia – aspetto giustizia. Ho ancora fiducia
nello Stato anche perché so che don Diana da lassù non mi abbandonerà”.
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