martedì 27 agosto 2013

LIBERO DI NOME E DI FATTO


L'imprenditore palermitano Libero Grassi
29 Agosto 1991, un killer aspetta sotto casa un imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo. Il killer è Salvatore Madonia. L’imprenditore è Libero Grassi, non un eroe, ma un uomo qualunque, un uomo Libero di nome e di fatto. Anzi, la libertà l'aveva nel dna Libero Grassi. La portava con sé ogni giorno, scolpita in quel nome che i genitori, convinti antifascisti, gli avevano dato in ricordo del sacrificio di Giacomo Matteotti. Libero Grassi, l'imprenditore tessile che disse di no al pizzo, che non si piegò all'imposizione mafiosa, perché, spiegò a Michele Santoro durante una puntata di Samarcanda dell'aprile del 1991, «non mi piace pagare. È una rinuncia alla mia dignità d'imprenditore». La sua impresa, la Sigma, era sana, produceva biancheria intima ed aveva un bilancio in attivo. «La prima volta mi chiesero i soldi per i 'poveri amici carcerati’, i 'picciotti chiusi all'Ucciardone’ - scrive Grassi in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera -. Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: 'Attento al magazzino’, 'Guardati tuo figliò, 'Attento a tè. Il mio interlocutore - racconta - si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli». Libero Grassi denuncia agli investigatori e pubblicamente. Chiede l'aiuto degli altri industriali, cerca solidarietà, sostegno, ma trova silenzio ed indifferenza. Di più ostilità. La mafia non esiste, gli imprenditori siciliani non pagano il pizzo, dice il presidente di Confindustria. Ma lui, quell'uomo austero, convinto sostenitore della libertà d'impresa non ci sta. Non si piega, non accetta, non ammicca.

E la sua ribellione la grida. Forte e chiara perché possa varcare i confini di Palermo e della Sicilia. Prende carta e penna e il 10 gennaio del 1991 scrive al Giornale di Sicilia. È una lettera indirizzata al suo «Caro estortore». «Volevo avvertire il nostro ignoto estortore - dice Libero Grassi - di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al 'Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui». Poche semplici parole, che hanno l'effetto, però, di una deflagrazione. Troppo per Cosa nostra. Un affronto da punire con la morte, perché non sia di esempio ad altri, perché la ribellione non diventi contagiosa. Il 29 agosto del 1991 Salvatore Madonia lo attende sotto casa, in via Alfieri, e lo uccide sparandogli alle spalle. Per quell'omicidio molti anni dopo fu condannato all'ergastolo e, come lui, altri boss del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ad uccidere materialmente Libero Grassi è stata la violenza del piombo mafioso, ma le colpe, le responsabilità di quella tragica morte vanno ricercate altrove: nel silenzio, nell'indifferenza di una città troppo compiacente, abituata a convivere con la prepotenza mafiosa. Una città fragile squassata dall'esempio eversivo della dignità e del rispetto delle regole. Ci sono voluti 13 anni perché Palermo si risvegliasse, perché nascesse il primo comitato antiracket, AddioPizzo, e a distanza di tre anni 'LiberoFuturo’, la prima associazione di imprenditori e liberi professionisti che hanno detto no al pizzo.

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