L'imprenditore palermitano Libero Grassi |
29 Agosto 1991, un killer
aspetta sotto casa un imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo. Il
killer è Salvatore Madonia. L’imprenditore è Libero Grassi, non un eroe, ma un
uomo qualunque, un uomo Libero di nome e di fatto. Anzi, la libertà l'aveva nel
dna Libero Grassi. La portava con sé ogni giorno, scolpita in quel nome che i
genitori, convinti antifascisti, gli avevano dato in ricordo del sacrificio di
Giacomo Matteotti. Libero Grassi, l'imprenditore tessile che disse di no al
pizzo, che non si piegò all'imposizione mafiosa, perché, spiegò a Michele
Santoro durante una puntata di Samarcanda dell'aprile del 1991, «non mi piace
pagare. È una rinuncia alla mia dignità d'imprenditore». La sua impresa, la
Sigma, era sana, produceva biancheria intima ed aveva un bilancio in attivo.
«La prima volta mi chiesero i soldi per i 'poveri amici carcerati’, i 'picciotti
chiusi all'Ucciardone’ - scrive Grassi in una lettera pubblicata dal Corriere
della Sera -. Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai
di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: 'Attento al magazzino’,
'Guardati tuo figliò, 'Attento a tè. Il mio interlocutore - racconta - si presentava
come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non
disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo
intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli». Libero
Grassi denuncia agli investigatori e pubblicamente. Chiede l'aiuto degli altri
industriali, cerca solidarietà, sostegno, ma trova silenzio ed indifferenza. Di
più ostilità. La mafia non esiste, gli imprenditori siciliani non pagano il
pizzo, dice il presidente di Confindustria. Ma lui, quell'uomo austero,
convinto sostenitore della libertà d'impresa non ci sta. Non si piega, non
accetta, non ammicca.
E la sua ribellione la
grida. Forte e chiara perché possa varcare i confini di Palermo e della
Sicilia. Prende carta e penna e il 10 gennaio del 1991 scrive al Giornale di Sicilia.
È una lettera indirizzata al suo «Caro estortore». «Volevo avvertire il nostro
ignoto estortore - dice Libero Grassi - di risparmiare le telefonate dal tono
minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto
non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione
della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita
e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica
chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega
in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al 'Geometra Anzalone’ e diremo no a
tutti quelli come lui». Poche semplici parole, che hanno l'effetto, però, di
una deflagrazione. Troppo per Cosa nostra. Un affronto da punire con la morte,
perché non sia di esempio ad altri, perché la ribellione non diventi
contagiosa. Il 29 agosto del 1991 Salvatore Madonia lo attende sotto casa, in
via Alfieri, e lo uccide sparandogli alle spalle. Per quell'omicidio molti anni
dopo fu condannato all'ergastolo e, come lui, altri boss del calibro di Totò
Riina e Bernardo Provenzano. Ad uccidere materialmente Libero Grassi è stata la
violenza del piombo mafioso, ma le colpe, le responsabilità di quella tragica
morte vanno ricercate altrove: nel silenzio, nell'indifferenza di una città
troppo compiacente, abituata a convivere con la prepotenza mafiosa. Una città
fragile squassata dall'esempio eversivo della dignità e del rispetto delle
regole. Ci sono voluti 13 anni perché Palermo si risvegliasse, perché nascesse
il primo comitato antiracket, AddioPizzo, e a distanza di tre anni
'LiberoFuturo’, la prima associazione di imprenditori e liberi professionisti
che hanno detto no al pizzo.
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