domenica 15 luglio 2012

ANTONIO AMMATURO E PASQUALE PAOLA UCCISI DALLE BR PER CONTO DELLA CAMORRA?

La morte di Antonio Ammaturo e del suo autista, Pasquale Paola, è ancora avvolta da troppi misteri. Si dice che fu un "favore" delle Br al boss Raffaele Cutolo. Ammaturo aveva scoperto molte cose della trattativa tra lo Stato e le Br,  per la liberazione dell'assessore regionale della Dc, Ciro Cirillo, avvenuto il 27 aprile del 1981. Trattativa fatta per il tramite della camorra,.Misteri che sono rimasti ancora tali.

Questo racconto che segue è tratto dal mio libro "al di là della notte" edizione Tullio Pironti

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Antonio Ammaturo
Suona il citofono. «Capo, sono io. L’aspetto giù». «Va bene. Scendo in un attimo, aspettami in auto». Pasquale Paola, l’agente di polizia scelto, quel giorno fa lui da autista al capo della squadra mobile, Antonio Ammaturo. Si conoscono da tempo. È uno degli uomini più fidati del vicequestore. La moglie, Ermelinda Lombardi, sta preparando il caffè. Ma il marito preferisce scendere subito, per non far aspettare Pasquale. La macchina, un’Alfetta bianca, una di quelle auto civetta della polizia che si fanno notare in giro, esce dall’edificio dove abita il vicequestore, in piazza Nicola Amore, a Napoli, al centro della città. Sono le sedici e quarantacinque del 15 luglio 1982. L’anno e il mese in cui l’Italia vince i mondiali in Spagna. Tutti gli italiani parlano solo degli azzurri di Bearzot. Anche in piazza Nicola Amore c’è tanta gente per strada e al bar si accendono appassionate discussioni calcistiche.

È un pomeriggio afoso. Pasquale, invece, è intento nel suo lavoro. Ma non s’accorge che ad aspettare Antonio Ammaturo non è il solo. Fuori il palazzo ci sono altre persone. È un commando di brigatisti rossi. Sono in missione di morte. Due armati con pistole e mitragliette. Altri due in auto. Sono in una Fiat 128 verde chiaro, che aspetta con il motore acceso. La vittima designata è proprio Antonio Ammaturo. Pasquale Paola sarà la seconda vittima. Da tempo pedinavano il capo della mobile. In uno dei covi delle BR scoperti un paio di anni prima proprio a Napoli, era stata trovata una scheda sul poliziotto: «Un funzionario con grande esperienza di polizia giudiziaria», era scritto, «il quale, tra l’altro, in una sola notte riuscì ad arrestare sull’Aspromonte sei latitanti». Antonio Ammaturo e l’autista Pasquale Paola hanno solo il tempo di mettersi in macchina, uscire dal palazzo e fare pochi metri. La Fiat 128 gli sbarra la strada. I due brigatisti armati gli si parano davanti. Indossano tute da meccanici. Fanno fuoco a ripetizione. Dieci, venti, trenta colpi. La sparatoria continua. Altri colpi partono dalla mitraglietta e dalla pistola. Per i due poliziotti non c’è niente da fare. La morte è istantanea. Scene di panico. La gente che corre per scappare. Un vigile urbano che è nei paraggi si accorge della sparatoria e reagisce. Spara alcuni colpi di pistola contro l’auto che sgomma a tutta velocità. I brigatisti cercano la fuga risalendo per via Duomo. Poi imboccano via Tribunali. Si infilano nei vicoli di Napoli. Passano per San Gregorio Armeno dove incrociano una pattuglia di “falchi”. Ne nasce un conflitto a fuoco. L’auto è colpita. Forse anche qualche brigatista è stato colpito. Nella sparatoria vengono feriti lievemente anche due passanti. Sono Giuseppina Scarano, di quarant’anni e Luciano Manzo, di diciannove. Nei vicoli è difficile continuare a correre con l’auto. I vicoli di Napoli si stringono.

Le auto non riescono a passare. Troppi ostacoli. Fine della corsa. I terroristi scappano a piedi. C’è sangue nell’auto e per terra. Qualcuno di loro è ferito. Scatta una gigantesca caccia all’uomo, ma senza esito. I brigatisti spariscono. Inghiottiti nei vicoli. Saranno aiutati da alcuni appartenenti alla camorra. In piazza Nicola Amore, intanto, arrivano numerose pattuglie della polizia. Sono tutti sbigottiti e increduli. Ermelinda Lombardi, la moglie di Ammaturo, ha sentito tutto il trambusto e i colpi d’arma da fuoco. Ha come un presentimento. Apre la porta e corre di corsa per le scale. La blocca un inquilino e l’abbraccia. A quel punto capisce che l’obiettivo dell’agguato è il marito. Scoppia a piangere. Vuole scendere per forza. Per vedere per l’ultima volta il suo Antonio.

«Quel giorno in cui fu ucciso mio padre, me lo ricordo come se fosse ieri», racconta Gilda, la figlia di Antonio Ammaturo. «Ero sul letto quando citofonò Pasquale Paola. Le sue ultime parole che sentii mentre scendeva dalle scale furono: “Ho fatto tardi”, e non prese nemmeno il caffè che mamma aveva preparato. Faceva un gran caldo e benché sapessi che non gli faceva piacere che ci si sedesse sopra il suo letto, io mi distesi lo stesso sopra, vedendo che andava via, ma quella volta non mi disse niente. Papà prese la giacca, salutò la mamma e scese subito. Mia madre mi ha raccontato che prima di attraversare il portone per uscire si voltò, aveva la giacca del vestito sul braccio, e con l’altro la salutò mentre lei dal balcone lo guardava andare via… Fu l’ultima volta che lo vedemmo e ascoltammo i suoi passi per la casa. Le raffiche di mitra le sentii nitide. Poi un silenzio assordante. C’era l’Italia che giocava i mondiali di calcio. Pensai che i tifosi volessero festeggiare. Ma fu un attimo. Il silenzio non corrispondeva alla gioia per l’Italia. Il cuore mi si gelò dentro. Capii che era accaduto qualcosa a mio padre. Non volevo crederci. Poi mia madre di corsa per le scale. E scoppiai a piangere. Fino a poco tempo fa», dice ancora Gilda, oggi funzionaria della Prefettura di Avellino, «non avevo il coraggio di ritornare nella piazza dove fu ucciso papà. La sua morte è una ferita che ancora non si è chiusa. Mio padre era una persona molto riservata e schiva», dice Gilda con la voce rotta dall’emozione, «gran parte della sua giornata la passava per strada. “Ordine pubblico”, davanti ai suoi uomini, nei lunghi cortei tra le assordanti manifestazioni dei “disoccupati organizzati” per i quali aveva sempre una parola di speranza ed un aiuto. Oppure passava le giornate tra le tende dei terremotati a cui la camorra stava togliendo anche il respiro, per il giro degli affari sporchi e degli appalti del post terremoto che solo papà ebbe il coraggio di denunciare, senza paura. Qualche giorno prima dell’agguato mi disse: “State vicino alla mamma. Aiutatela”. Forse aveva presagito qualcosa. Non so spiegarmi quelle sue parole pronunciate con grande riserbo mentre eravamo da soli a casa e non c’era nessuno presente. Il tono con cui le disse manifestava una sua segreta preoccupazione che non voleva fosse percepita da noi familiari. Ci teneva sempre al di fuori dei suoi problemi di lavoro e con noi non ne parlava mai, così come fece cancellare le minacce scritte sul portone di casa già alcuni mesi prima dell’attentato per non metterci in apprensione. Malgrado le difficoltà e la lontananza, visto che ha sempre lavorato in posti molto disagiati, e noi ci siamo ricongiunti solo con il suo trasferimento a Napoli, non ci ha fatto mancare mai la sua affettuosa presenza, con grandi sacrifici, e ci ha regalato un’infanzia dorata e felice».


Pasquale Paola
Ammaturo non si occupava di politica. Si occupava solo di criminalità organizzata. Perciò la sua morte per mano delle Brigate Rosse è strana. Conosceva vita, morte e miracoli dei clan della camorra. Aveva contribuito a sgominare molti clan. Lo temevano, come lo temeva il boss di Ottaviano, Raffaele Cutolo, a cui aveva reso la vita difficile da quel 5 settembre 1981, giorno della sua nomina a capo della squadra mobile di Napoli. Pochi giorni dopo il suo insediamento fece irruzione nel castello di Ottaviano, roccaforte di Raffaele Cutolo, interrompendo un summit di camorra e arrestando tra gli altri il figlio del boss, Roberto. Ammaturo, in un’intervista al quotidiano «Paese Sera», aveva anche detto di Cutolo: «È completamente artefatto. Ogni parola che dice risuona subdola e carica di secondi fini. La sua fortuna è quella di aver trovato terreno fertile con i mali della città». Un affronto che Cutolo non riuscì a mandare giù. Il 27 aprile del 1981 c’era stato il rapimento dell’assessore regionale Dc, Ciro Cirillo. Cutolo aveva fatto da intermediario per farlo rilasciare. Alle BR erano state promesse armi e soldi.



A Cutolo condizioni di vita migliori nelle carceri e il trasferimento di numerosi camorristi. Antonio Ammaturo, che era un vero e proprio segugio e aveva le sue fonti confidenziali sparse per l’intera città, seppe che dietro la liberazione di Ciro Cirillo c’era stata una trattativa tra lo Stato e le BR che aveva avuto come intermediario Raffaele Cutolo. Al fratello Grazio, parlò di un dossier che aveva compilato e che gli aveva spedito. Un altro lo spedì al Ministero dell’Interno. «Sono cose grosse. Napoli tremerà», gli aveva confidato il giorno prima della sua morte.



Quei dossier non si sono mai trovati. E, forse, dietro la sua uccisione c’è anche questa sua attività di ricostruzione della “trattativa”. All’epoca si parlò molto di un «favore fatto» a Cutolo da parte delle BR. Ma questo non è stato mai dimostrato. L’uccisione di Antonio Ammaturo e Pasquale Paola verrà rivendicata dalle BR, partito della guerriglia. Antonio Ammaturo aveva cinquantasette anni quando fu ucciso. Era sposato con Ermelinda Lombardi, da cui aveva avuto tre figlie: Gilda, Maria Cristina e Grazia. Era nato a Contrada, in provincia di Avellino, l’11 gennaio 1925. Laureato in giurisprudenza, divenne funzionario di polizia nel 1955. Prestò servizio presso la Questura di Avellino. Gli anni che lo formano e gli faranno acquisire tanta esperienza sul campo saranno quelli alla guida del Commissariato di Giugliano. Otto anni in una terra dove il clan di Alfredo Maisto la faceva da padrone. Ammaturo raccontò che, poco dopo il suo arrivo a Giugliano, incontrò il boss in un motel. Alfredo Maisto si considerava un perseguitato della polizia e diceva di essere una brava persona. «Su di me ci sono solo tante dicerie». Maisto gli mostrò delle foto che lo ritraevano con dei politici ad un congresso della Democrazia cristiana. Quelle foto le esibì quasi come un salvacondotto. Ma Ammaturo non si lasciò impressionare. Qualche tempo dopo, arrestò il boss. Tornò a Napoli il primo dicembre 1976. Gli venne affidata prima la direzione del commissariato Mercato e poi di quello di Montecalvario. Il 5 settembre 1981 fu scelto come dirigente della squadra mobile di Napoli. Era «un uomo duro dal cuore d’oro». E questo lo riconoscevano anche molti di quelli che lui aveva arrestato. Difatti in tanti erano presenti ai suoi funerali.



Due mesi prima della sua morte, ad un giornalista che gli chiedeva perché non avesse la scorta, aveva risposto: «Auto blindata? Certo, è più sicura. Ma quando “quelli” hanno deciso di farti fuori, non c’è auto blindata che tenga. Lo sa lei dove abito io? Vivo con la mia famiglia a meno di duecento metri in linea d’aria dal cuore di Forcella. In un posto così l’auto blindata è inutile». Proprio la mattina del 15 luglio ’82 la polizia aveva arrestato Luigi Giuliano, il re di Forcella. Pasquale Paola, l’agente scelto, di anni ne aveva trentadue. La giovane moglie, Raffaella Bonito, solo ventiquattro. Era originario di Vico Equense. Dal 1977 faceva l’autista di scorta. Era uno che ci sapeva fare. E la sua grande corporatura rassicurava tutti quelli che lo avevano vicino. Il suo era un lavoro che non si notava, ma di grande apporto. Proveniva dalla scuola di Polizia di Nettuno. Poi era passato alla sezione investigativa con compiti di scorta. Due anni prima era stato promosso guardia scelta. La giovane moglie era preoccupata di questo suo nuovo incarico, ma lui che aveva sempre la battuta pronta per sdrammatizzare anche le situazioni più difficili, l’aveva rassicurata. Ma contro le armi delle BR non era bastata né la sua stazza fisica, né la sua professionalità.



Le spoglie di Pasquale Paola si trovano nel cimitero di Vico Equense. Lì c’è una targa con questa scritta: «Qui riposano le spoglie mortali dell’agente scelto della Polizia di Stato Paola Pasquale. Per il giusto merito, riconoscimento e prestigio della polizia distintesi con la sua vita. Severo servitore dello Stato, insignito di medaglia d’oro al valore civile. Caduto nell’adempimento al dovere il 15.07.1982 in un agguato terroristico a Napoli. A ricordo dei posteri questi grandi eroi non dovranno mai essere dimenticati per il nostro caro congiunto sicuro che può essere di sollievo alla sua anima immortale e di ammonimento alle nostre coscienze». «Ancora oggi la morte di mio padre resta senza un perché», dice con disappunto Gilda. «Troppe cose non chiare. Troppi misteri. Il fatto che riesca a parlarne, però, mi aiuta a elaborare il lutto. Ci riesco da tre anni grazie a Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti. Mi ha aiutato molto. Grazie a loro ho incontrato tanti bambini e ragazzi nelle scuole della provincia di Avellino. A loro ho parlato di mio padre e del suo lavoro come funzionario dello Stato. Ho parlato dei suoi valori. Un esempio di vita per i giovani di oggi. “Un poliziotto duro dal cuore d’oro” che è stato sempre fiero di servire lo Stato».



Ad Antonio Ammaturo e Pasquale Paola è stata assegnata la medaglia d’oro al valor civile.

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