La
storia è tratta dal mio libro “Come Nuvole Nere” – Melampo editore
“Mena, scendi tu a
portare questi panni in lavanderia? Però, mi raccomando, chiedi se vengono
pronti entro un paio di giorni”. Pia è la mamma di Mena Morlando; maestra
elementare e madre di quattro figli, ha altro da fare e da pensare a pochi
giorni dal Natale. È il 17 dicembre del 1980. Sono appena passate le 18,30 e
sta preparando la cena per la famiglia, quando la figlia afferra il sacchetto
con i panni e si avvia. La lavanderia è ad appena un centinaio di metri dalla
casa dei Morlando, un’abitazione in via Monte Sion, quasi al centro di
Giugliano, il più popoloso dei comuni a nord di Napoli. Mena ha 25 anni, ed è l’unica
figlia femmina. Come sua madre e sua nonna, d’altronde. Si è diplomata all’istituto
Magistrale da qualche anno e sta studiando per partecipare al concorso per l’insegnamento
nelle scuole pubbliche. Vuole diventare insegnante come sua madre e come sua
nonna. Per il momento fa un po’ di supplenze nelle scuole private, in attesa di
poter lavorare di più. Studia quasi tutti i giorni per superare il concorso e
per entrare in ruolo. Va a lezioni private: la mamma l’ha affidata a una sua
collega. La ragazza non vuole perdere l’occasione che può dare una svolta alla sua
vita. Per il resto, è una donna normalissima, come altre della sua età. Aspetta
di trovare un ragazzo che le voglia bene per poi sposarsi. Il corredo già ce l’ha.
Pia, la mamma, ha cominciato a prepararglielo sin da quando Mena era piccola.
Comprava un po’ alla volta delle lenzuola, biancheria, pentole per la cucina.
Nelle famiglie napoletane il corredo è una tradizione che si tramanda da
sempre, al pari del casatiello e della pastiera. Quando una ragazza si sposa,
non può mancare. E sono soprattutto le mamme a mantenere questa tradizione,
quando in casa c’è una figlia femmina. Non è che i figli maschi non contino, ma
tra donne si stabilisce un rapporto diverso.
Mena ama la musica,
canta spesso le canzoni degli anni Settanta e aspetta con ansia la domenica:
con i fratelli ha adibito una casa sfitta di proprietà della famiglia a luogo
di ritrovo per gli amici, dove ci si incontra per ballare nei giorni di festa.
Cinquanta lire a testa per comprare patatine, aranciate e coca-cola e si balla
fino all’ora di cena. Insomma un posto per dare avvio a qualche flirt tra
ragazzi. La provincia non offre molto di più. “Mamma allora io vado”. Mena
scende le scale e sul portone incrocia il terzo dei suoi fratelli, Francesco.
Sta tornando da Napoli, dove ha sostenuto un esame all’università. Ha cinque
anni in meno di lei ed è iscritto a Medicina. “Dove stai andando?”, chiede
Francesco alla sorella. “Vado in lavanderia”, risponde lei mostrando il
sacchetto. Mena si allontana di alcune decine di metri. Percorre il vicoletto che
dalla casa dei Morlando porta alla chiesa di Sant’Anna in poco meno di un
minuto. Sta pensando al giorno di Natale, forse riuscirà a organizzare una
festa con gli altri ragazzi per ballare e stare insieme.
All’improvviso ha un
soprassalto: sente sparare, sembrano mortaretti. I ragazzi in questo periodo ne
sparano a bizzeffe. Ma lei non si è abituata, le fanno sempre un certo effetto.
Stavolta, però, Mena si sbaglia, non sono mortaretti, è proprio una sparatoria.
La ragazza non ha il tempo di accorgersi di niente, sente solo urlare da una
parte all’altra della strada. Si trova tra due fuochi senza capire il perché.
Vorrebbe mettersi in salvo, ma non fa in tempo a scappare: viene colpita da un
proiettile calibro 9 dietro il collo, dal basso verso l’alto. Il proiettile
esce dalla fronte, il sangue schizza ovunque. Brandelli di carne esplodono tutt’intorno.
Mena cade a terra mentre il sangue comincia a sgorgare dalla fronte e dal
collo. Muore all’istante portando con sé i suoi sogni. Niente più concorso.
Niente più ragazzo. Niente più matrimonio. Niente balli. Niente amici. La vita
di Mena Morlando si chiude una settimana prima del Natale del 1980.
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Francesco Morlando |
“Sono stato l’ultimo
a parlare con mia sorella Mena – Francesco Morlando, il fratello, non ha
dimenticato nulla di quella sera – e ancora oggi non riesco a capacitarmi di
come possa essere accaduto. Era irreale allora e mi sembra tuttora impossibile,
la sua morte. Avevo parcheggiato l’auto, il tempo di salire in casa, attraversare
la cucina, la sala da pranzo e posare la borsa coi libri sulla mia scrivania e
ho sentito un trambusto provenire da fuori, pensavo fossero i soliti botti che
anticipano le feste, dato che era quasi Natale. Ma sentivo anche voci
concitate. Mi sono affacciato al balcone e a una decina di metri ho visto che
alcune persone accompagnavano mio fratello Marco, sostenendolo per le braccia. Ho
fatto il percorso a ritroso passando per la cucina. ‘Cosa c’è. Cosa sta
accadendo?’, chiedeva mamma. ‘Niente, stai tranquilla. Scendo io un attimo a
vedere’. Non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo visto. Sono sceso e
sono andato incontro a mio fratello. Ma è stato lui a precedere le mie domande:
‘Mena è morta. L’hanno uccisa’. ‘Ma cosa dici? L’hanno uccisa?’.
Ricordo che
cercavo di raggiungere il posto dov’era il corpo di Mena, correvo verso il
cancello della chiesa, venti metri più avanti, ma alcune persone mi impedirono
di procedere. Qualcuno aveva già coperto il corpo con un lenzuolo. Non riuscivo
a crederci, l’avevo lasciata pochi attimi prima, il tempo di fare cinquanta
metri a piedi ed era stata uccisa, un minuto dopo. Sono tornato indietro perché
nel frattempo mia mamma era scesa in strada. Sono riuscito a bloccarla per non
farla andare sul posto, ma lei aveva capito che era accaduto qualcosa di grave.
Non so come ho fatto a trovare la forza di dirle che il corpo di Mena era a
terra senza vita. Sembrava tutto così assurdo... Poi ho pensato a papà. Era dal
medico e lo studio del medico era cento metri più avanti rispetto al luogo dove
avevano ucciso mia sorella: per tornare a casa sarebbe passato da lì. Allora ho
pregato un mio amico d’infanzia di andare a prenderlo con una scusa e
accompagnarlo a casa facendo un percorso un po’ più lungo, senza passare dal luogo
della sparatoria. Nel giro di un quarto d’ora tutta la famiglia era riunita a
casa, incredula di quanto accaduto. A volte mi sono chiesto: se l’avessi
trattenuta a parlare per qualche altro minuto, forse lei non si sarebbe trovata
al centro di una sparatoria tra gruppi camorristici rivali. Tutti dubbi e
domande che forse non hanno un senso, ma che da quella sera ho sempre nella mia
mente”.
La famiglia Morlando fino
a quel momento ha vissuto nella normalità più assoluta, senza grandi problemi,
se non quelli quotidiani di tutte le famiglie.
La mamma di Mena, Pia Franchini, è originaria di San Leucio, una frazione di
Caserta, discende da un ramo della famiglia Landi, proprietaria di un’antica
seteria. Insegna a Giugliano, nella scuola elementare che si trova proprio al
centro di piazza Gramsci. Gli ultimi dieci anni li ha fatti nella città dove
abita. Il papà di Mena, Gennaro, è impiegato alle Poste e lavora nella sede di
Giugliano. Mena è la prima figlia, nata nel 1955. Poi, un anno dopo, arriva
Marco. Francesco, il terzo fratello, è del 1960 e Angelo, l’ultimo dei figli, nasce
esattamente dieci anni dopo Mena, nel 1965. “Ci chiudemmo in casa – ha gli
occhi tristi Francesco mentre continua il
drammatico racconto – poi dopo un’ora arrivò la Polizia a perquisire l’abitazione,
trattandoci quasi come criminali. Perquisirono la stanza dove Mena dormiva, che
era la stanza di tutti noi fratelli. C’era l’angolo dove Mena aveva le sue
cose: libri, peluche, diari. Non dissero niente, fu una cosa senza alcun garbo.
Ci sentivamo violentati, non capivano il nostro dolore. Il giorno dopo i
giornali parlarono di delitto passionale.
E Mena diventò ‘la maestrina’. Un
appellativo che autorizzava a pensare di tutto su mia sorella. Accennarono
anche a un tentativo di suicidio di Mena avvenuto anni prima, ma tutt’altro che
vero. Come non erano veri i motivi addotti dai giornali alla base dell’assassinio
di mia sorella. Sul quotidiano Il Mattino era scritto che era stato
proprio il camorrista Francesco Bidognetti a sparare a mia sorella. Forse era
ferito e scappava. Non so se sia vera la notizia che qualcuno si sia fatto
scudo con il corpo di Mena, perché la dinamica dei fatti nessuno mai ce l’ha
riferita. Forse non la conoscono nemmeno gli inquirenti. O forse è nelle
relazioni allegate all’istruttoria del giudice istruttore Felice Di Persia. Ma
non è mai trapelata all’esterno. Abbiamo appreso alcune notizie solo a mezzo
stampa e osservando il corpo di Mena quando è stata tumulata”. “Ci vuole poco a
infangare la memoria e la reputazione di una persona – fa Francesco – basta un
giornalista poco affidabile. Il Mattino inviò un corrispondente
da Napoli perché quel giorno non c’era quello locale. Noi tentammo di far
passare la verità sui giornali facendo scrivere degli articoli di rettifica. Ma
il danno era fatto”.
“Poi Mena, non
essendo una persona nota, è caduta nel dimenticatoio. Ogni tanto compariva
qualche trafiletto, magari dicevano ‘arrestato tizio,
implicato nell’omicidio della maestrina di Giugliano’. Ma non abbiamo mai avuto
notizie dirette e non credo che ci sia stata la reale volontà di indagare sulla
nostra tragedia, sulla sua morte è caduto l’oblio. Quegli articoli ferirono i
miei genitori e tutta la nostra famiglia, è come se, dopo morta, Mena l’avessero
uccisa un’altra volta. Le hanno tolto anche la dignità. Una violenza inaudita,
che abbiamo dovuto sopportare per anni. In realtà – afferma Francesco – la
sparatoria era un regolamento di conti tra Francesco Bidognetti, boss emergente
della camorra casalese in soggiorno obbligato a Giugliano, e vecchi esponenti
della Nuova Camorra Organizzata, come Battista Marano, che era legato al clan
Mallardo, affiliati al boss Raffaele Cutolo.
E Mena si era trovata
per puro caso in mezzo a una sparatoria tra bande di camorra rivali. Al
commissariato lavorava il mio ex suocero e mi diceva sempre: ‘Sicuramente non è
un delitto passionale, ma non si sa com’è accaduto’. Solo mesi dopo fummo
convocati dal giudice istruttore, Felice Di Persia, che però non ci chiese
nulla. A papà disse solo: ‘In un eventuale giudizio voi volete costituirvi
parte civile?’. Papà rispose di sì. E questo è l’unico nostro contatto con la
giustizia”. “Una cosa che ogni tanto penso che vorrei fare, è quella di scrivere
a Francesco Bidognetti, il boss dei casalesi. Non so se devo passare attraverso
il ministero della Giustizia, ma lo farò. Se fosse in un carcere qui vicino,
sarei anche disposto ad andare a trovarlo per farmi dire la verità su quella
sera. Ma senza spirito di odio o di vendetta. Anche se mi dicesse: ‘Guarda, ho
sparato io. È stata una sventura, una disgrazia, s’è trovata lì...’. Insomma, vorrei
quella verità che non ho mai saputo. Dopo trent’anni l’accetterei con assoluta
serenità”.
Dopo i funerali di
mia sorella iniziò una vita triste. Tra dicembre e aprile sono dimagrito di
trentasei chili, stavo chiuso in una stanza tutto il giorno, non mangiavo e non
uscivo. Dal giorno dopo la morte di Mena, sono sempre tornato a casa alle sei
di sera. Sapevo che
in casa c’erano due
persone la cui vita si era fermata lì. I miei genitori si trascinavano avanti
stancamente: aspettavano il giorno per la notte, la sera per la mattina, per
loro la vita non aveva più senso. Nel successivo mese di giugno, mia mamma ebbe
un ictus, che la costrinse su una sedia a rotelle. Le fu data la pensione anticipata,
a soli 55 anni. Ricordo ancora la diagnosi: ‘emorragia extra cerebrale in zona
subaracnoidea’. All’inizio era lucida e così tentammo con la fisioterapia di
recuperare la sua autonomia. Lei si impegnava, ma quando capì che non sarebbe
tornata come prima, si lasciò andare; è rimasta in quelle condizioni per dieci anni.
Il sorriso spento sulle labbra”.
“Tre figli maschi e
una donna disabile su una sedia a rotelle: una situazione davvero triste e
diffi cile. Ci siamo ritrovati io e mio fratello Marco a lavare mia mamma che,
come tutte le donne, era gelosa del proprio corpo e della propria intimità, ci
teneva alla discrezione, soprattutto nei confronti dei figli. In quelle
condizioni si sentiva ulteriormente umiliata perché noi la dovevamo accudire.
Si sentiva violata, senza dignità”.
“Ogni Natale la
nostra tragedia si rinnovava. Già dal 15 dicembre in poi, a casa nostra c’era
un clima pesante. Natale è il momento in cui le famiglie si riuniscono, stanno
insieme, ma quel posto vuoto a tavola, il posto di Mena, non potevi
nasconderlo. Da allora il Natale non l’ho più avvertito come una festa. Mia
mamma è deceduta nel 1990, a 65 anni. A papà dopo un anno dalla morte di Mena fu
diagnosticata una cirrosi epatica; era anche diabetico, ogni due-tre mesi c’era
bisogno di trasfusioni di sangue, e all’epoca non era facile trovarne. Così
sono diventato donatore. Papà aveva 56 anni, un anno in più di mia madre. Erano
entrambi ancora giovani, si potevano godere un altro pezzo della loro vita.
Invece non è andata così”. “Andavo al cimitero tutti i fi ne settimana, lì
abbiamo una cappella di famiglia. Per me era una gioia andarci, non una
sofferenza. Andavo sereno, da solo. Mi chiudevo dentro e parlavo ad alta voce. Ancora adesso
lo faccio, è come andare a trovare qualcuno in ospedale che però sta bene e non
sta morendo. Io parlo normalmente con mia sorella”.
“La cosa che mi ha
ferito di più in questi anni, non è stata tanto non conoscere la verità dei
fatti, quanto quegli articoli di giornale che parlavano di delitto passionale:
la dignità tolta a mia sorella è la cosa che non ho mai accettato. E
soprattutto mi ha dato fastidio il fatto che sia stata dimenticata da tutti. Io
ho odiato questo paese, sono scomparso da Giugliano per vent’anni. Ho sempre
detto ai miei fi gli: ‘Andate via da qui perché questa è una terra maledetta’.
C’è stata omertà da parte di persone che hanno assistito all’omicidio di mia
sorella e non hanno voluto mai parlare. Capisco la paura, ma qualcuno poteva
inviare anche una lettera anonima, invece niente. Passavo da Giugliano solo per
andare al cimitero la domenica.
Poi sono tornato, e nel 2003 ho aperto lo
studio nella casa dove avevo abitato con i miei genitori. Ho impiegato trent’anni
per cercare di dare dignità a questa ragazza che troppe persone ricordavano
ancora come la ragazza uccisa per motivi passionali. Ho cominciato a pormi
questo problema tra il 1997 e il 1998, e dicevo tra me: ‘Come è possibile che
mia sorella non debba avere la sua dignità?’. Nonostante il dolore, qualcosa mi
spingeva a percorrere questa strada. Le persone intorno mi dicevano: ‘Ma chi te
lo fa fare. Vai solo ad aprire una ferita’. Ma io sentivo dentro di me che
bisognava aprire un varco nella memoria, per ricordare Mena Morlando. Ho fatto questa
battaglia in silenzio, da solo, ed è stata dura, perché Mena non è stata una
vittima eccellente, la sua morte non ha colpito l’opinione pubblica”.