martedì 13 dicembre 2011

BENI CONFISCATI AVRANNO NOMI VITTIME INNOCENTI CRIMINALITÀ

'Da mostri a nostri". Si chiama cos' la tre giorni che  ha preso il via questa mattina, presso il Nuovo Palazzo di Giustizia al Centro Direzionale di Napoli. E' una  tre giorni di iniziative sul riutilizzo dei beni confiscati alle mafie promossa dalla Fondazione Polis della Regione Campania, dal Consorzio Sole della Provincia di Napoli e dall'associazione Libera. Dal workshop è venuta fuori la proposta di dare il nome di una vittima innocente della criminalità ad ogni bene confiscato alla camorra. «Dare il nome di una vittima innocente della criminalità ad ogni bene confiscato - ha detto l'assessore Sommese - aumenta il senso di appartenenza alla collettività dei patrimoni sottratti alla criminalità organizzata e rappresenta la conferma che lo Stato può vincere contro la camorra, rendendo ciò che era di un 'mostrò realmente 'nostrò». L'assessore ha rilanciato l'importanza dell'iniziativa 'Facciamo un pacco alla camorrà, oggi presentata al Senato e alla Camera dei Deputati: «Il lavoro delle cooperative giovanili sui terreni confiscati testimonia la presenza in Campania di tante esperienze positive che è giusto far conoscere. Il nostro sostegno alla Fondazione Polis, al Consorzio Sole, a Libera e a tutte le organizzazioni impegnate sul versante della confisca non verrà mai meno perchè il tema del riuso dei beni confiscati è una priorità assoluta della nostra azione di governo», ha concluso Sommese.

lunedì 12 dicembre 2011

A NAPOLI UNA STELE DELLA MEMORIA PER LE VITTIME INNOCENTI

 Una stele per ricordare tutte le vittime innocenti della camorra: si chiama «Spiral of life» ed è stata presentata oggi a Napoli. Situata a pochi passi da piazza del Plebiscito, la stele è opera dell'architetto Andrea De Baggis ed è, come spiegato nel corso della cerimonia promossa da Fondazione Polis, Regione Campania, Comune di Napoli e Libera, «un inno alla vita che si slancia verso il cielo». 'Stele della Memorià è un concorso bandito da Polis, riservato alle persone che non avessero compiuto i 40 anni di età, vinto da de Baggis. «La stele è una testimonianza costante dell'impegno contro la criminalità organizzata - ha affermato il presidente della Giunta regionale Stefano Caldoro - Tra le spese 'non obbligatoriè rientrano anche quelle per la Fondazione Polis, ma non è nostra intenzione sottrarre fondi alle attività che svolge». Per il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, l'opera serve «a tutti per riflettere e ricordare che dobbiamo impegnarci, la memoria serve per combattere». Ed è questo, a suo avviso, il «messaggio» della stele della memoria. La stele è stata benedetta dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, il quale ha sottolineato che l'opera è «la memoria che si fa vita». «La scommessa è far rivivere tutte le persone innocenti uccise dalla camorra - ha commentato Paolo Siani, presidente di Polis - .Un monumento non per uno soltanto, ma per tutte le persone che sono pezzi della nostra città». Il prefetto Andrea De Martino ha rinnovato l'appello all'unità di società civile, istituzioni e forze dell'ordine, contro la criminalità organizzata. «Dobbiamo combattere - ha concluso - contro chi ha mostrato la sua ferocia nei confronti degli innocenti».

venerdì 9 dicembre 2011

PREMIO MARCELLO TORRE - SABATO 10 DICEMBRE, DON CIOTTI, DE MAGISTRIS, PISAPIA E ROMANI

Domani, sabato 10 dicembre, alle ore 9.30, a Pagani (SA), presso l’Aula Magna del Liceo Scientifico “B. Mangino”, avrà luogo il Premio nazionale per l’impegno civile “Marcello Torre”, dedicato al Sindaco ucciso dalla camorra trentuno anni fa. All'incontro pubblico intitolato: “L’Italia Unita contro le mafie. 150 anni di mafia e antimafia”, parteciperanno: Pierpaolo Romani, Coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, don Luigi Ciotti, Presidente di Libera; Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli e Giuliano Pisapia, Sindaco di Milano. Coordinerà il dibattito Riccardo Christian Falcone, Direttore tecnico del Premio Marcello Torre.

martedì 6 dicembre 2011

DARIO SCHERILLO. UN PREMIO GIORNALISTICO PER RICORDARLO A SETTE ANNI DALLA SUA UCCISIONE

Aveva appena lasciato l’Autoscuola che gestiva insieme a i suoi fratelli. Dario Scherillo, 26 anni, un ragazzo solare,  verso le 20 del 6 dicembre del 2004 era salito sul motorino per andare ad incontrare una persona che  frequentava la scuola guida.  Quella sera, però, non sapeva che il motorino lo avrebbe portato ad un altro appuntamento, quello con la morte. Nella vicina Secondigliano, era in atto la faida tra gli uomini del boss Paolo Di Lauro, detto "Ciruzzo 'o milionario” e la cosiddetta “ala scissionista”. Si ammazzavano per il controllo del mercato della droga. Dario incontra il ragazzo che cercava a Casavatore, in via Segrè. Si ferma col suo motorino e cominciano a parlare. Dopo qualche minuto arrivano due persone in moto, con i volti coperti da caschi. Sparano alle spalle di Dario. Senza un motivo. Lo scambiano per un’altra persona. Dario muore in pochi minuti. I familiari lo sapranno da due agenti della polizia che si recheranno a casa per perquisire l’abitazione. Insomma l’ennesima vittima innocente scambiata per un affiliato al clan.
Per ricordare Dario Scherillo l’amministrazione Comunale di Casavatore promuove per oggi 6 dicembre, per il terzo anno consecutivo, il premio giornalistico dedicato al ragazzo ucciso dalla camorra.

venerdì 2 dicembre 2011

ANTONIO CRISTIANO, AGENTE DI CUSTODIA UCCISO IL 2 DICEMBRE 1983

La storia è tratta dal mio libro "al di là della notte", Ed. Tullio Pironti 

Antonio Cristiano stava smontando dal servizio. Aveva fatto due turni consecutivi, rimanendo ininterrottamente nell’infermeria del carcere di Poggioreale dalle due del pomeriggio del 1° dicembre fino alle otto di mattina del giorno dopo. Aveva ventisette anni e un fisico atletico, tanto da potersi permettere di lavorare con un turno così lungo. Faceva l’agente di custodia da sette anni. Prima di essere trasferito a Poggioreale aveva lavorato nel carcere di San Vittore e poi in quello di Foggia. Era sposato da poco più di un anno. A casa, ad Aversa, l’aspettava sua moglie Filomena D’Alessandro, “Mena”, incinta di otto mesi. Doveva partorire una bella bambina, e con i turni di notte e un po’ di straordinario Antonio pensava di avere meno problemi economici quando la famiglia sarebbe cresciuta. Con lui, quella mattina del 2 dicembre del 1983, smontava dal servizio anche Aniello De Cicco, suo amico, di un anno più grande. Erano stati a Foggia insieme e ora anche nel carcere di Poggioreale. Aniello aveva finito il turno la sera prima, ma aveva dormito nel carcere.

Abitava a Trentola Ducenta. Poco dopo le otto e trenta si erano avviati con la Fiat 126 di Antonio verso casa. Da Poggioreale, salendo per corso Malta e la Doganella, poi Secondigliano, il centro di Melito, passando per le colonne di Giugliano e poi, finalmente a casa. Ma quella mattina il destino di Antonio Cristiano e Aniello De Cicco, era segnato. «Il mio superiore», racconta Aniello De Cicco, rovistando nei ricordi di quella mattina di ventisette anni fa, «mi aveva chiesto di fare un altro turno nel pomeriggio. Così, dopo aver completato il turno della notte, decisi di andare a casa per poi ritornare nel pomeriggio. Incrociai Antonio che, come me, aveva appena smontato. Gli chiesi un passaggio. Eravamo compaesani. Tutti e due originari di Trentola Ducenta. Ci conoscevamo bene. Era il periodo natalizio e il corso di Secondigliano e quello di Melito erano già addobbati a festa. La festa mette di buon umore e noi quella mattina lo eravamo, nonostante la stanchezza per la notte appena trascorsa».

La Fiat 126 guidata da Antonio Cristiano procedeva lenta verso casa. Aveva da poco superato Secondigliano, si era immessa sul corso di Melito e il semaforo rosso, quello quasi fuori le colonne di Giugliano, li obbliga a fermarsi. Erano quasi le nove e venti. Da dietro sopraggiunge una Fiat Panda rossa con due persone a bordo. Affianca la Fiat 126. Improvvisamente la persona vicina al conducente estrae la pistola e comincia a sparare. Sono killer della camorra. Contro i due agenti di custodia furono sparati otto colpi di pistola, calibro 7,65. Due proiettili colpirono Antonio Cristiano, altri due colpirono De Cicco, e quattro non raggiunsero alcun bersaglio. Antonio Cristiano fu colpito al cuore. De Cicco, invece, fu colpito da un proiettile sotto la clavicola sinistra interessando anche la regione mammellare destra. Un altro entrò ed usci dal lato superiore di una gamba. Le sue condizioni apparvero gravissime. L’auto dei sicari fuggì in direzione di Aversa. Le indagini sull’agguato, condotte dal capitano De Santis della Compagnia dei carabinieri di Giugliano, ricostruirono subito l’accaduto, anche grazie alla testimonianza di Aniello De Cicco.

«Era il 2 dicembre», riprende a raccontare Aniello De Cicco, «e appena sentii i colpi, pensai fossero mortaretti. Dalle nostri parti nel periodo natalizio è facile imbattersi in ragazzi che sparano tracchi. “Non è ancora presto per cominciare con i botti di Natale?”, dissi rivolto ad Antonio. Ma non finii nemmeno la frase che Antonio si accasciò prima sullo sterzo e poi mi cadde addosso. Vidi il sangue. Capii che ci stavano sparando. Ero armato e istintivamente estrassi la pistola dalla fondina. Stavo per rispondere al fuoco, quando il mio braccio si afflosciò su se stesso. Mi avevano colpito alla spalla ma non sentii nessun dolore particolare. Antonio mi cadde addosso e mi fece abbassare col corpo. Alcuni colpi mi passarono sulla testa. Non so come, ma ebbi la forza di alzarmi, di uscire dall’auto con il sangue che mi scorreva dappertutto. Impugnavo ancora la pistola nonostante non avessi la forza di alzare il braccio e di sparare. Fermai un automobilista alla guida di un Fiorino. Con il suo aiuto tirammo Antonio dalla Fiat 126 e lo caricammo sul suo furgoncino. A tutta velocità ci dirigemmo al pronto soccorso dell’ospedale di Aversa. Antonio era ancora vivo. Respirava, emetteva rantoli. A me zampillava il sangue dalla spalla. Un proiettile mi aveva fatto danni enormi. Per fortuna al pronto soccorso un infermiere mi diede dei punti di sutura. Furono la mia salvezza, perché bloccarono l’emorragia di sangue. Mi trasferirono a Caserta. Ma a Caserta non mi ricoverarono. Mi trasferirono nuovamente. Stavolta al Cardarelli di Napoli. Ci arrivai con l’ambulanza attorno alle quattordici.


L’agguato fu rivendicato nello stesso pomeriggio del 2 dicembre 1983, al centralino del quotidiano «Il Mattino», da una persona che disse di parlare a nome dell’Oca (Organizzazione camorrista armata). «Abbiamo ammazzato una guardia carceraria ad Aversa per gli abusi subiti nei carceri e nei supercarceri specialmente nel braccetto della morte. Seguiranno altri comunicati». Una telefonata ritenuta attendibile dagli investigatori, perché già in passato questa sigla, riconducibile ai gruppi camorristici vicini alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, aveva rivendicato altri omicidi dove era stata utilizzata la stessa tecnica omicida. Nei mesi precedenti erano già stati uccisi diversi agenti di custodia che non si erano piegati alle minacce dei camorristi. Era in atto un’offensiva della criminalità contro gli agenti di custodia che facevano il loro dovere. Il sottosegretario alla giustizia, Antonio Carpino, nel rispondere ad una interrogazione del deputato del Pci Granati Caruso sulla vicenda di Antonio e Aniello, il 10 aprile del 1984, in Commissione Giustizia alla camera dei Deputati, affermò: «Non risulta che il Cristiano e il De Cicco o i loro familiari siano stati in precedenza oggetto di intimidazioni o minacce. Va, tuttavia, rilevato che tutti gli operatori sia civili sia militari della casa circondariale di Poggioreale sono il bersaglio continuo della criminalità organizzata, che si è prefissata l’obiettivo di seminare il terrore tra il personale dell’amministrazione degli istituti di prevenzione e pena, allo scopo di riacquistare, all’interno dell’Istituto, quella supremazia, da tempo perduta, a seguito dell’avvenuto ristabilimento dell’ordine e della disciplina e della sicurezza interni. Il Ministero, per evitare il ripetersi di attentati, ha da tempo impartite precise istruzioni ai propri dipendenti, dotando, altresì, la casa circondariale di Napoli di autovetture e di pulmini blindati. Ha preso, inoltre, contatti con le forze dell’ordine per la protezione personale anche nei comuni di residenza, ove ovviamente non può provvedere direttamente».

«Quella mattina ero preoccupata perché mio marito non tornava ancora dal lavoro. Erano circa le dieci e non avevo sue notizie», racconta la moglie, Filomena, “Mena”, D’Alessandro, «così telefonai al carcere. Ma nessuno mi diceva niente. Il direttore mi disse solo che mio marito aveva avuto un incidente. “Non è nulla di grave. Signora, stia tranquilla”. Ero incinta di mia figlia, all’ottavo mese. Eravamo sposati da due anni. Avevo avuto già due aborti e per questo motivo, per tutto il periodo della gravidanza, stavo a riposo per non rischiare di perdere anche quest’altro bambino. Quando seppi dell’incidente, cominciai a preoccuparmi. Chiamai mia mamma. Fu lei poi a telefonare al carcere. Ma ebbe le stesse notizie. Ritelefonò più tardi e le dissero che Antonio era morto. Si recò in ospedale ad Aversa insieme a mio padre per cercare Antonio. Rintracciarono il suo corpo all’obitorio. Che tragedia», dice Mena scoppiando in lacrime, «il 12 gennaio del 1984 nacque mia figlia. Un parto anticipato e difficile. Il dolore per la morte di mio marito era insopportabile. Tutti mi dicevano di stare tranquilla, di pensare alla bambina che doveva nascere. Ma come potevo farcela? Nella pancia mi sembrava di avere un cavallo. Scalciava che voleva uscire. Il dolore era tanto. A vent’anni si è fragili. Tutta la mia vita era andata in frantumi. I miei sogni svaniti. Non dormivo la notte. Piangevo sempre. Si ruppero le acque anzitempo. Nacque con difficoltà la mia bimba. Stavo rischiando di perderla. Le diedi il nome di mio marito. Si chiama Antonia. Subito dopo il parto caddi in depressione. Il dolore per una morte e la gioia per una vita nuova si mescolavano. Ma il peso di queste due cose mi schiacciava. I miei genitori mi vollero a casa loro. Non potevo farcela da sola con una bambina da crescere e senza più mio marito.

È stata dura, anche se i miei genitori e i miei fratelli non mi hanno fatto mancare niente. Ma mio padre ne ha preso una malattia, come me. Dopo due anni da quella tragedia è morto anche lui. Aveva cinquantacinque anni quando se n’è andato. Non ha retto al dolore perché non riusciva a sopportare la mia sofferenza. Mia madre non si è data per vinta. Mi ha sostenuto, aiutata, nonostante le sue difficoltà. I miei fratelli non hanno fatto mancare il loro affetto a mia figlia. Alla mia bambina, però, ho trasmesso la mia ansia, le mie paure», racconta Mena tra le lacrime che non si fermano, «e la mancanza del padre si è fatta sentire, soprattutto a scuola. Quando tutti i ragazzi scrivevano i pensierini sul papà, mia figlia non sapeva cosa fare. Ci restava male e piangeva. Lei non aveva il papà. Non sapeva che voce avesse. Non conosceva le sue carezze. Non ci aveva mai giocato. L’avevo abituata un po’ alla volta all’assenza del padre. Veniva sempre con me al cimitero a portare i fiori sulla tomba di Antonio. E poi mi vedeva sempre vestita di nero. Portavo il lutto “stretto”, come si faceva qualche anno fa dalle nostre parti. E con il mio volto sempre bianco, sembravo un cadavere. Le persone a me vicine mi dicevano che dovevo vivere, dovevo pensare a me. Ma non mi interessava di farlo. C’è voluto un coraggio sia a mettere che a togliere quei vestiti neri. La mia vita non aveva più un senso».

Mena si ferma. Piange. Non riesce a proseguire. Riprende fiato. «È stata dura anche dal punto di vista economico. Nelle difficoltà sono diventata una donna forte. Solo tre anni fa mia figlia ha potuto beneficiare delle provvidenze che la legge riconosce alle vittime del dovere. Ora lavora nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si è sposata un anno e mezzo fa. Il giorno del matrimonio l’ha accompagnata all’altare il fratello di Antonio. È stato un giorno di gioia e di dolore. Ogni familiare che la vedeva vestita da sposa, nel darle gli auguri non poteva fare a meno di pensare al papà che non c’era più. Sembrava al tempo stesso un matrimonio e un funerale, perché dopo gli auguri tutti scoppiavano a piangere pensando ad Antonio. C’eravamo conosciuti al mare», ricorda ancora singhiozzando Mena, «avevo quindici anni. Ci siamo fidanzati di lì a poco. Lui era già un agente di custodia. Stava a San Vittore. Poi è stato trasferito a Foggia e poi a Napoli. Quattro anni insieme e poi il matrimonio. Ora spero che mia figlia, che ha sposato un bravo ragazzo, si costruisca una vita più serena e che arrivi ad avere un bambino. Per me, ormai, è andata così. Ho bruciato tutte le mie tappe. Me ne sono fatta una ragione. E mi dico: “Il Signore ha voluto così. Questa doveva essere la pagina del destino assegnatomi”. Nel frattempo sono diventata molto più frequentatrice della chiesa. Ma dico sempre al Signore di rendermi giustizia e gli chiedo solo che le persone che hanno ucciso mio marito non devono trovare mai pace. Solo questo».

Antonio Cristiano era nato il 3 febbraio del 1956. È stato riconosciuto «vittima del dovere» ai sensi della Legge 466/1980 dal ministero dell’Interno. All’ingresso del corridoio dell’istituto penitenziario di Napoli Poggioreale è presente una targa in memoria dei caduti del Corpo con il nome dell’agente Antonio Cristiano.


giovedì 1 dicembre 2011

IL PROCESSO PER L'UCCISIONE DI LEA GAROFALO DEVE RIPARTIRE DA ZERO

I giudici della prima corte d'assise di Milano, presieduta da Anna Introini che ha sostituito Filippo Grisolia, diventato capo di gabinetto al ministero della Giustizia, hanno deciso, accogliendo le richieste delle difese, che il processo con al centro la morte di Lea Garofalo, sciolta nell'acido, deve ripartire da zero.

Nel processo, nel quale sono imputati l'ex convivente Carlo Cosco e altre cinque persone vicine alla 'ndrangheta del crotonese, dovranno essere riascoltati tutti i testimoni che erano stati interrogati nelle precedenti udienze, compresa la figlia della donna, Denise. Un caso sul quale si era mobilitato anche il presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, nel tentativo di far sì che il processo potesse proseguire tenendo valide le testimonianze. Le difese, a causa del cambiamento nella composizione della Corte, hanno negato il consenso perchè «il giudice che andrà in camera di consiglio deve essere lo stesso che ha partecipato all'assunzione delle prove».

Il collegio ha accolto la richiesta disponendo di «rinnovare l'attività istruttoria non potendo limitarsi alla lettura delle dichiarazioni rese». Occorre quindi «risentire i testi» per «garantire il rispetto dell'oralità del dibattimento». Il pm Marcello Tatangelo ha già riconvocato in aula i primi testimoni, che verranno ascoltati oggi. È stato sostituito inoltre da un collega uno dei legali degli imputati, Vincenzo Minasi, arrestato in esecuzione di un'ordinanza emessa dal gip di Milano per l'inchiesta della dda contro la cosca dei Valle-Lampada, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreti d'ufficio e intestazione fittizia di beni.

«Speriamo che il Tribunale imponga un ritmo serrato alle udienze, e che entro luglio si arrivi a una sentenza di primo grado». È l'auspicio dei legali delle parti civili,  ascoltando nuovamente i testimoni. Il prossimo luglio scadono i termini di custodia cautelare degli imputati che, se non dovesse intervenire la sentenza di primo grado entro quella data, potrebbero tornare in libertà. «La difesa ha esercitato la sua facoltà - ha spiegato Roberto D'Ippolito, il legale della madre e della sorella di Lea Garofalo - ma purtroppo il rischio concreto è quello che gli imputati tornino in libertà, e su questo bisognerà vigilare. I familiari sono rimasti sconcertati da questa decisione e per Denise tornare in aula sarà una nuova sofferenza - ha continuato - ma hanno reagito tutti con molto vigore». La ragazza, di 19 anni, verrà riascoltata durante una delle prossime udienze, così come gli altri testimoni che hanno già deposto nelle scorse cinque udienze.

SALONE DELLA GIUSTIZIA SI APRE CON RICORDO MAGISTRATI VITTIME TERRORISMO

La terza edizione del Salone della Giustizia  si è aperta alla Nuova Fiera di Roma con la lettura dell'elenco dei nomi dei magistrati vittime del terrorismo e della criminalità organizzata . Il presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli ha scandito i nomi dei giudici uccisi, alla presenza del Guardasigilli Paola Severino in una sala gremita da molti giovani delle scuole romane. Berselli ha espresso apprezzamento per l'intervento del ministro in Commissione al Senato che ha definito «condivisibile e pieno di responsabilità» e ha garantito, nel suo ruolo di presidente della Commissione, «l'impegno per la realizzazione delle riforme possibili, dati i tempi della legislatura». «La riforma della giustizia -ha sottolineato Berselli- non è nè di destra nè di sinistra ma è per i cittadini che si aspettano una giustizia vera in tempi giusti». Prima della cerimonia di inaugurazione il ministro della Giustizia ha fatto un giro negli stand del Salone, accompagnata oltre che dal senatore Berselli, che della manifestazione è l'organizzatore, dal vicepresidente del Csm Michele Vietti, dal capo del Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria Franco Ionta, dal primo presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, e dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito.