mercoledì 30 ottobre 2013

GIOVANNI POMPONIO MORTO PER DIFENDERE LE PAGHE DEI FERROVIERI


Giovanni Pomponio
Il brano che segue è tratto dal mio libro "Come nuvole nere" (Melampo editore)
 
Giovanni Pomponio morirà il 30 ottobre 1975 dopo 3 giorni di agonia.
 
Quel giorno, il vice brigadiere di Polizia Giovanni Pomponio ha il turno di riposo. Ma i suoi superiori la sera prima lo hanno pregato di andare ugualmente al lavoro. “Ci sono gli stipendi da pagare e non abbiamo molti uomini per la sicurezza. Domani serve anche la sua presenza come responsabile di scorta”. Il mattino seguente, Giovanni ha un impegno importante: partecipare alla messa in ricordo di una giovane nipote della moglie. La ragazza era morta il 28 di ottobre di sei anni prima, a 16 anni, a seguito di un incidente. Giovanni vuole assolutamente andare alla funzione religiosa, ma la moglie lo rassicura: “Non ti preoccupare. Dirò a mia sorella che non sei potuto mancare dal servizio. Io andrò con l’autobus e al ritorno prenderò un taxi”. Quel consiglio dato al marito, Antonietta Vigliotti non se lo perdonerà mai, fi no alla morte. Il 28 ottobre del 1975, il vice brigadiere di Polizia Giovanni Pomponio è puntualmente al lavoro alla stazione ferroviaria di Napoli-Gianturco per scortare le paghe dei dipendenti delle Ferrovie. Sa che fra quattro giorni avrà tutto il tempo libero che vuole, perché andrà finalmente in pensione, dopo 37 anni di servizio in Polizia.

 

“E invece – racconta Sergio, il secondo figlio di Giovanni – la pensione non se la godrà mai, perché quella mattina mio padre verrà colpito a morte durante una rapina. Una banda di criminali assalta l’ufficio cassa. Sono armati di mitra e pistole per portare via 500 milioni che servono per pagare gli stipendi dei ferrovieri. Mio padre, ferito alla gola, morirà in ospedale, dopo tre giorni di agonia. Poteva rifiutarsi di rientrare in servizio quel giorno, ma lui era un servitore dello Stato, non sapeva dire di no”. Giovanni Pomponio il 28 ottobre parte presto dalla sua casa al Vomero, vuole evitare il traffico mattutino. Le strade sono quasi deserte a quell’ora, Napoli ancora dorme, ma presto si animerà di gente, di colori e di frastuoni. Poco dopo le sette è nella sede della Polizia Ferroviaria della stazione di Napoli-Gianturco. Giovanni non sa che ci sono anche altre persone che si sono alzate presto e che sono interessate agli stessi soldi che gli hanno chiesto di proteggere. Sono una banda di spietati criminali torinesi che fanno rapine in serie, negli ultimi diciotto mesi ne hanno messe a segno ben sedici. Sono arrivati a Napoli da qualche giorno, si spostano col treno, oppure in aereo, per evitare al massimo i controlli delle forze dell’ordine. Non si fanno vedere troppo in giro e non frequentano altre persone, solo quelle strettamente necessarie per organizzare nei minimi particolari le rapine. Colpiscono e spariscono senza lasciare tracce. Hanno saputo che a Gianturco il bottino è appetibile. Hanno avuto una soffiata da un basista e vogliono a tutti i costi mettere le mani sulle paghe dei ferrovieri.

 
Con Giovanni Pomponio ci sono altri sette agenti per difendere la cassa. Il vice brigadiere incarica cinque di essi di provvedere al trasferimento di 450 milioni alla stazione ferroviaria di Napoli Centrale, dove verranno pagati la gran parte degli stipendi. Abitualmente il trasporto delle paghe avviene intorno a mezzogiorno. Stavolta Giovanni Pomponio decide di anticipare questa incombenza. Appena in tempo. I rapinatori entrano in azione poco dopo le nove del mattino. Quattro banditi, armati di tutto punto, scavalcano il terrapieno di Rione Luzzatti e arrivano da un cancello laterale dell’ufficio cassa. Un cancello che sino ad allora è stato sempre chiuso.

 
Giovanni si accorge di una persona sconosciuta vicino all’ufficio paghe e forse vede anche un’arma che lo mette in allerta. Non ha notato che alle sue spalle ci sono altri due banditi. Carica il mitra e si gira verso lo sconosciuto: “Dove vai, fermati!”, gli intima. Quella mossa è la sua condanna a morte, perché da dietro gli sparano a bruciapelo per ucciderlo. Mirano alla testa, lo colpiscono alla nuca. Il proiettile fuoriesce dalla gola. Il colpo gli trancia la vena giugulare. Il vice brigadiere di Polizia cade a terra in una pozza di sangue. Un ferroviere ha visto tutto. Corre vicino a Giovanni cercando di soccorrerlo: “Bisogna portarlo in ospedale o morirà”. “Non lo toccare altrimenti farai la stessa fi ne”, gli grida uno dei banditi. Non si fanno scrupoli. Sono spietati. Si avvicinano al poliziotto a terra, gli sfilano il mitra e la pistola e continuano la rapina come se nulla fosse accaduto (…)”

 

 

sabato 12 ottobre 2013

GENNARO DE ANGELIS UCCISO 31 ANNI FA. A RICORDARLO DON LUIGI CIOTTI, SIRIGNANO E TANTI ALTRI


CESA - Simularono una rapina per ammazzarlo, ma il motivo vero della sua uccisione è da ricercare nel fatto che non si volle piegare al clan di Raffaele Cutolo. Gennaro De Angelis, agente di custodia nel carcere di Poggioreale, fu ucciso la sera del 15 ottobre del 1982. E’ stato ricordato stamani, in una cerimonia tenuta nella scuola media “Bagno” di Cesa, alla presenza di don Luigi Ciotti, il presidente di Libera,  dell’atleta Marco Maddaloni, del magistrato della DDA, Cesare Sirignano, familiari delle vittime di innocenti della camorra,  Valerio Taglione del Comitato don Diana, il Questore di Caserta Giuseppe Gualtieri e numerose altre autorità. Gennaro De Angelis era addetto alla spesa dei detenuti. Gli avevano chiesto di far passare armi e di chiudere un occhio durante i controlli. Disse di no. Il suo diniego lo condannò a morte. Quella sera di trentuno anni fa due giovani entrano armati e a volto coperto nel Circolo della Madonna dell’Arco nella piazza centrale di Cesa, a pochi passi da Aversa. Dentro ci sono una trentina di persone che giocano a carte a vari tavolini. “Fermi tutti, altrimenti vi ammazziamo”, gridano i due  a volto coperto. Tutti pensano ad una rapina. Invece i due giovani si dirigono decisi verso il tavolo dove sta giocando Gennaro De Angelis e gli sparano alla testa a bruciapelo. Alcuni colpi feriscono anche un’altra persona che era vicino alla vittima. Si tratta di Pasquale Marino, sessanta anni, pensionato. Morirà qualche giorno dopo in ospedale. Tutta la sparatoria dura meno di un paio di minuti. Fuori c’è l’auto ancora in moto guidata da un altro complice. I due escono in fretta dal circolo e salgono sulla vettura che li stava aspettando. Fuggono in direzione di Aversa. Sono le venti e quindici del 15 ottobre 1982.
 
“Quei colpi di pistola – ha detto don Luigi Ciotti  – non hanno ucciso solo Gennaro De Angelis e Pasquale Marino, ma hanno ucciso dentro anche la giovane moglie Adele, e i figli, Vincenzo, Marianna e Annamaria. Allora – ha proseguito -  quei colpi  o li sentiamo che hanno sparato anche a noi, se no, non ha senso nulla. Voi troverete tanta gente che si commuove e poi dimentica in fretta. Non basta commuoversi. Bisogna muoversi di più, tutti”. Sul palco sono  saliti testimoni importanti della lotta contro la criminalità, chiamati ad uno ad uno da Salvatore Cuoci, coordinatore della manifestazione. Davanti a centinaia di studenti, Marco Maddaloni, che insieme ai suoi parenti a Scampia sta provando da un po’ di tempo a recuperare ragazzi difficili, ha cercato di spiegare che il bullismo può essere l’anticamera  del camorrista. “Essere furbetti è una cosa, essere delinquenti è un’altra. Bisogna cominciare dalle scuole ad aiutare i bambini più deboli per farli diventare grandi, esattamente come noi”. Ha premiato poi le squadre che hanno partecipato ad un torneo di calcio in memoria di Gennaro De Angelis.
 
Per Valerio Taglione, del Comitato don Diana, ricordare Gennaro De Angelis significa anche ricordare anche tutte le vittime che in questi anni sono state ammazzate dalle mafie. “Proviamo a dire  ai familiari, noi stiamo con voi. Ce la possiamo fare a costruire un territorio completamente diverso. Ce la possiamo fare, ce la dobbiamo fare”. Per il magistrato della DDA, Cesare Sirignano bisogna aiutare quelli che hanno più difficoltà. “Ho visto troppi giovani nella aule di tribunale ricevere condanne molto serie e tanti di quei giovani sono di queste terre. Non è bello che persone dell’età dei miei figli debbano essere  condannati a pene così dure. E’ una sensazione molto brutta per un magistrato. Però  - ha aggiunto - è importante diffondere messaggi di speranza. Non bisogna cedere alle facile ricchezze. Non bisogna seguire messaggi di prepotenza, ma bisogna aiutare le persone che hanno bisogno di più. Altrimenti solo con le parole non riusciamo a cambiare molto”. Alla fine della manifestazione, per tutti una grande torta,  preparata dai ragazzi dell’alberghiero di Cesa. Sopra c’era l’immagine di Gennaro de Angelis e i nomi di tutte le vittime della camorra della provincia di Caserta.

La manifestazione in ricordo di Gennaro De Angelis è stata promossa da Libera, "Comitato don Peppe Diana", coop. "Carla Laudante", la Pro Loco di Cesa, e le associazioni "Vinci", "Cesarinasce", Labor Mentis", "Attiviamocinsieme", Coordinamento Campano familiari vittime innocenti e Fondazione Polis 

 

 

sabato 5 ottobre 2013

RICORDATO ANTONIO CANGIANO A 25 ANNI DALL'AGGUATO DI CAMORRA CHE LO PARALIZZO'


Don Ciotti fa visita a Tonino Cangiano
CASAPESENNA - La sera del 4 ottobre del 1988 lo ferirono in un agguato di camorra costringendolo a vivere su una sedia a rotelle. Antonio Cangiano, assessore ai lavori pubblici e vice sindaco a Casapesenna, paese del boss Michele Zagaria, doveva essere punito perché aveva rifiutato di sottostare ai ricatti del clan per l'affidamento di un appalto. Cangiano, che è deceduto il 23 ottobre del 2009, a 60 anni,  anche in seguito a quelle ferite, è stato ricordato nel centro sociale cittadino, alla presenza della moglie e dei suoi tre figli. “Vogliamo la verità su quella vicenda che ha segnato la nostra comunità – ha detto Pasquale Cirillo, di Legambiente che ha promosso l’iniziativa – perché a distanza di tanti anni non si conoscono né i killer, né i mandanti di quell’agguato”. Il commando che sparò alcuni colpi di pistola a Cangiano in piazza Petrillo, gli spezzò anche la colonna vertebrale. Da allora rimase paralizzato.
 
Don Luigi Menditto
A commemorare Cangiano anche don Luigi Menditto, parroco di Casapesenna da 50 anni. Don Luigi ha ricordato come  Cangiano aveva tentato di riprendersi una rivincita nei confronti della camorra. “Lo convinsi a candidarsi a Sindaco della città. Era il 1993 – ha detto il parroco – Mi recai a casa sua insieme ad una delegazione di un comitato cittadino. Tonino accettò, nonostante le sue condizioni di salute e divenne Sindaco il 21 novembre 1993, con quasi 4000 preferenze”. Ma fu di nuovo costretto alle dimissioni in seguito a nuove minacce da parte della camorra. Il 23 gennaio del 1996 il consiglio comunale fu sciolto, ancora una volta, per condizionamenti di camorra. La prima volta avvenne a settembre del 1991. Nel 1995 gli amputarono anche le gambe e comunicava solo attraverso un computer. Il 19 marzo del 2009, in occasione del quindicesimo anniversario della morte di don Giuseppe Diana, gli fece visita don Luigi Ciotti. “Per noi sei un simbolo vivente del movimento anticamorra” gli aveva detto il presidente di Libera. 
 
 
“Apprendo solo ora che Antonio Cangiano non è stato riconosciuto vittima di camorra – dice Gianni Solino, responsabile provinciale di Libera Caserta – l’umiltà, la dignità e la riservatezza della sua famiglia non devono essere di ostacolo al suo riconoscimento, perché sappiamo tutti che Tonino Cangiano è una vittima della camorra. La sua è una storia di resistenza che è avvenuta in questo territorio. Una resistenza non di massa, di pochi, ma che c’è stata. Cangiano ha pagato come don Peppe Diana la sua scelta di non piegarsi alla camorra”.
 
Gianni Zara, ex sindaco di Casapesenna, che con le sue dichiarazioni ha fatto scattare una nuova indagine sugli amministratori della città, ha ricordato di quando incontrò  Tonino Cangiano a casa sua. “Era il natale del 2008 ero ancora sindaco in quel periodo. In quell’incontro Tonino mi ha trasmesso  la sua forza, la sua intelligenza e il suo coraggio. Mi ha detto: “Non mollare. Qualunque sia il pericolo che hai davanti, qualunque  sia il sistema che rappresenta l’illegalità, lo devi combattere senza avere paura e con grande determinazione”.
 
E’ toccato infine a Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e suo amico personale, ricordare le battaglie comuni contro la camorra. “Tonino era uno di noi. Insieme abbiamo denunciato i rischi di un sistema camorristico che stava conquistando pezzi della nostra economia, che conquistava anche pezzi delle nostre istituzioni, candidandosi direttamente alla gestione della cosa pubblica e stabilendo una vera e propria dittatura militare. Lui ha pagato il prezzo più alto. Come don Diana, come il sindacalista della CGIL, Tammaro Cirillo a Villa Literno.  Abbiamo fatto una promessa a noi stessi – ha concluso Natale -  tutti questi morti per mano della camorra, non devono essere dimenticati, perciò siamo qui ancora a parlare di Tonino Cangiano”. Dopo il saluto dei familiari di Cangiano, e la lettura di alcuni passi in suo ricordo da parte di ragazzi delle medie di Casapesenna, una corona di fiori è stata deposta alla fine della cerimonia all’ingresso del centro sociale che porta il suo nome.






Alla manifestazione hanno partecipato, tra le tante persone, anche una delegazione del coordinamento familiari di vittime innocenti della camorra (Salvatore Di Bona, Pasquale Scherillo, Carmen del Core), Valerio Taglione, portavoce del Comitato don Peppe Diana, il sindaco di San Marcellino, Pasquale Carbone, esponenti di Legambiente e del movimento 5 stelle.