martedì 23 dicembre 2014

TRENT'ANNI FA LA STRAGE RAPIDO 904 - RICORDATE A NAPOLI LE 16 VITTIME. DON CIOTTI: "UNA DEMOCRAZIA MALATA"

A trent'anni dalla strage del Rapido 904, una cerimonia commemorativa, come avviene tutti gli anni,  si è tenuta presso la stazione di Napoli da dove partì quel treno in cui morirono 16 persone.  Una corona di fiori è stata deposta al binario 11 della stazione Garibaldi  da dove a mezzogiorno del 23 dicembre 1984,  il treno  si avviò verso Milano ma senza mai arrivarci. Rosaria Manzo, presidente dell'associazione vittime del Rapido 904, ha ricordato che «ancora oggi attendiamo la verità dalle aule dei tribunali. Tutti noi - ha aggiunto - lottiamo per i nostri diritti, con l'orgoglio di chi chiede rispetto e di chi ha come obiettivo la ricerca della verità». La prossima udienza del processo in corso a Firenze è fissata - come riferito - il 13 gennaio 2015. «Non ci fermeremo - ha proseguito Rosaria - davanti al nome dell'esecutore o del mandante, vogliamo sapere il perché e se c'è stato un groviglio tra politica, mafie, camorra e movimenti eversivi di destra e di sinistra. Vogliamo - ha proseguito - la chiarezza, il Paese tutto ha bisogno di una sentenza definitiva che sancisca la certezza del diritto». La cerimonia è stata preceduta dalla consegna, da parte del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, di medaglie della città ai familiari delle 16 vittime napoletane che persero la vita a bordo del Rapido 904. Alla commemorazione, tra gli altri, hanno partecipato l'assessore regionale Pasquale Sommese, rappresentanti istituzionali dei Comuni di Somma Vesuviana e di Ischia, il questore di Napoli Marino, la Fondazione Polis, il Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità e il presidente di Libero don Luigi Ciotti.

«Serve una grande rivoluzione culturale che costringa lo Stato ad aprire quelle stanze in cui sono nascoste tante verità»,  ha detto il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. Una giornata, quella di oggi, che - ha sottolineato il sindaco - «non è solo di ricordo e di memoria, ma anche momento per chiedere a chi deve di ricercare verità e giustizia perché - ha aggiunto - uno Stato che ha paura della verità non è forte e non è democratico».  in Italia  - Ha ricordato il sindaco di Napoli - sono «troppi i fatti per cui ancora oggi non c'è giustizia e in cui si intrecciano politica, mafie e movimenti eversivi. Napoli - ha concluso de Magistris - ha un grande cuore e vuole lottare per la giustizia, per dare speranza a chi stenta ad avere fiducia nelle istituzioni e per cacciare chi all'interno dello Stato si è macchiato di collusione e di sangue»


«In Italia c'è una democrazia malata e un pò pallida perchè non è possibile che non si conosca la verità su alcuna strage». ha tuonato, il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, dal palco eretto sotto la stazione Garibaldi a Napoli.   In Italia il 75 per cento delle stragi avvenute è ancora senza verità: «La verità - ha proseguito - è la condizione della democrazia anche se nella nostra Costituzione questa parola, verità, manca e allora - ha aggiunto - la scriviamo noi nelle nostre coscienze». Una parola 'verita« che - ha sottolineato il presidente e fondatore di Libera - »è scomoda per gli assassini e per chi in tutti questi anni ha coperto i motivi delle tante stragi impunite e che attendono giustizia«. Ma, da don Ciotti, è venuto anche un invito a tutti "all' impegno a cui la memoria ci sfida perchè non dobbiamo solo commuoverci, ma dobbiamo muoverci tutti di più per cercare la verità che è il miglior modo per rendere vivi i morti". 

mercoledì 17 dicembre 2014

MENA MORLANDO, LA RAGAZZA CHE BALLAVA DI DOMENICA. DA 34 ANNI SENZA GIUSTIZIA

La storia è tratta dal mio libro “Come Nuvole Nere” – Melampo editore


“Mena, scendi tu a portare questi panni in lavanderia? Però, mi raccomando, chiedi se vengono pronti entro un paio di giorni”. Pia è la mamma di Mena Morlando; maestra elementare e madre di quattro figli, ha altro da fare e da pensare a pochi giorni dal Natale. È il 17 dicembre del 1980. Sono appena passate le 18,30 e sta preparando la cena per la famiglia, quando la figlia afferra il sacchetto con i panni e si avvia. La lavanderia è ad appena un centinaio di metri dalla casa dei Morlando, un’abitazione in via Monte Sion, quasi al centro di Giugliano, il più popoloso dei comuni a nord di Napoli. Mena ha 25 anni, ed è l’unica figlia femmina. Come sua madre e sua nonna, d’altronde. Si è diplomata all’istituto Magistrale da qualche anno e sta studiando per partecipare al concorso per l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Vuole diventare insegnante come sua madre e come sua nonna. Per il momento fa un po’ di supplenze nelle scuole private, in attesa di poter lavorare di più. Studia quasi tutti i giorni per superare il concorso e per entrare in ruolo. Va a lezioni private: la mamma l’ha affidata a una sua collega. La ragazza non vuole perdere l’occasione che può dare una svolta alla sua vita. Per il resto, è una donna normalissima, come altre della sua età. Aspetta di trovare un ragazzo che le voglia bene per poi sposarsi. Il corredo già ce l’ha. Pia, la mamma, ha cominciato a prepararglielo sin da quando Mena era piccola. Comprava un po’ alla volta delle lenzuola, biancheria, pentole per la cucina. Nelle famiglie napoletane il corredo è una tradizione che si tramanda da sempre, al pari del casatiello e della pastiera. Quando una ragazza si sposa, non può mancare. E sono soprattutto le mamme a mantenere questa tradizione, quando in casa c’è una figlia femmina. Non è che i figli maschi non contino, ma tra donne si stabilisce un rapporto diverso.

Mena ama la musica, canta spesso le canzoni degli anni Settanta e aspetta con ansia la domenica: con i fratelli ha adibito una casa sfitta di proprietà della famiglia a luogo di ritrovo per gli amici, dove ci si incontra per ballare nei giorni di festa. Cinquanta lire a testa per comprare patatine, aranciate e coca-cola e si balla fino all’ora di cena. Insomma un posto per dare avvio a qualche flirt tra ragazzi. La provincia non offre molto di più. “Mamma allora io vado”. Mena scende le scale e sul portone incrocia il terzo dei suoi fratelli, Francesco. Sta tornando da Napoli, dove ha sostenuto un esame all’università. Ha cinque anni in meno di lei ed è iscritto a Medicina. “Dove stai andando?”, chiede Francesco alla sorella. “Vado in lavanderia”, risponde lei mostrando il sacchetto. Mena si allontana di alcune decine di metri. Percorre il vicoletto che dalla casa dei Morlando porta alla chiesa di Sant’Anna in poco meno di un minuto. Sta pensando al giorno di Natale, forse riuscirà a organizzare una festa con gli altri ragazzi per ballare e stare insieme.

All’improvviso ha un soprassalto: sente sparare, sembrano mortaretti. I ragazzi in questo periodo ne sparano a bizzeffe. Ma lei non si è abituata, le fanno sempre un certo effetto. Stavolta, però, Mena si sbaglia, non sono mortaretti, è proprio una sparatoria. La ragazza non ha il tempo di accorgersi di niente, sente solo urlare da una parte all’altra della strada. Si trova tra due fuochi senza capire il perché. Vorrebbe mettersi in salvo, ma non fa in tempo a scappare: viene colpita da un proiettile calibro 9 dietro il collo, dal basso verso l’alto. Il proiettile esce dalla fronte, il sangue schizza ovunque. Brandelli di carne esplodono tutt’intorno. Mena cade a terra mentre il sangue comincia a sgorgare dalla fronte e dal collo. Muore all’istante portando con sé i suoi sogni. Niente più concorso. Niente più ragazzo. Niente più matrimonio. Niente balli. Niente amici. La vita di Mena Morlando si chiude una settimana prima del Natale del 1980.


Francesco Morlando
“Sono stato l’ultimo a parlare con mia sorella Mena – Francesco Morlando, il fratello, non ha dimenticato nulla di quella sera – e ancora oggi non riesco a capacitarmi di come possa essere accaduto. Era irreale allora e mi sembra tuttora impossibile, la sua morte. Avevo parcheggiato l’auto, il tempo di salire in casa, attraversare la cucina, la sala da pranzo e posare la borsa coi libri sulla mia scrivania e ho sentito un trambusto provenire da fuori, pensavo fossero i soliti botti che anticipano le feste, dato che era quasi Natale. Ma sentivo anche voci concitate. Mi sono affacciato al balcone e a una decina di metri ho visto che alcune persone accompagnavano mio fratello Marco, sostenendolo per le braccia. Ho fatto il percorso a ritroso passando per la cucina. ‘Cosa c’è. Cosa sta accadendo?’, chiedeva mamma. ‘Niente, stai tranquilla. Scendo io un attimo a vedere’. Non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo visto. Sono sceso e sono andato incontro a mio fratello. Ma è stato lui a precedere le mie domande: ‘Mena è morta. L’hanno uccisa’. ‘Ma cosa dici? L’hanno uccisa?’. 

Ricordo che cercavo di raggiungere il posto dov’era il corpo di Mena, correvo verso il cancello della chiesa, venti metri più avanti, ma alcune persone mi impedirono di procedere. Qualcuno aveva già coperto il corpo con un lenzuolo. Non riuscivo a crederci, l’avevo lasciata pochi attimi prima, il tempo di fare cinquanta metri a piedi ed era stata uccisa, un minuto dopo. Sono tornato indietro perché nel frattempo mia mamma era scesa in strada. Sono riuscito a bloccarla per non farla andare sul posto, ma lei aveva capito che era accaduto qualcosa di grave. Non so come ho fatto a trovare la forza di dirle che il corpo di Mena era a terra senza vita. Sembrava tutto così assurdo... Poi ho pensato a papà. Era dal medico e lo studio del medico era cento metri più avanti rispetto al luogo dove avevano ucciso mia sorella: per tornare a casa sarebbe passato da lì. Allora ho pregato un mio amico d’infanzia di andare a prenderlo con una scusa e accompagnarlo a casa facendo un percorso un po’ più lungo, senza passare dal luogo della sparatoria. Nel giro di un quarto d’ora tutta la famiglia era riunita a casa, incredula di quanto accaduto. A volte mi sono chiesto: se l’avessi trattenuta a parlare per qualche altro minuto, forse lei non si sarebbe trovata al centro di una sparatoria tra gruppi camorristici rivali. Tutti dubbi e domande che forse non hanno un senso, ma che da quella sera ho sempre nella mia mente”.


La famiglia Morlando fino a quel momento ha vissuto nella normalità più assoluta, senza grandi problemi, se non quelli quotidiani di tutte le famiglie. La mamma di Mena, Pia Franchini, è originaria di San Leucio, una frazione di Caserta, discende da un ramo della famiglia Landi, proprietaria di un’antica seteria. Insegna a Giugliano, nella scuola elementare che si trova proprio al centro di piazza Gramsci. Gli ultimi dieci anni li ha fatti nella città dove abita. Il papà di Mena, Gennaro, è impiegato alle Poste e lavora nella sede di Giugliano. Mena è la prima figlia, nata nel 1955. Poi, un anno dopo, arriva Marco. Francesco, il terzo fratello, è del 1960 e Angelo, l’ultimo dei figli, nasce esattamente dieci anni dopo Mena, nel 1965. “Ci chiudemmo in casa – ha gli occhi tristi Francesco mentre continua il drammatico racconto – poi dopo un’ora arrivò la Polizia a perquisire l’abitazione, trattandoci quasi come criminali. Perquisirono la stanza dove Mena dormiva, che era la stanza di tutti noi fratelli. C’era l’angolo dove Mena aveva le sue cose: libri, peluche, diari. Non dissero niente, fu una cosa senza alcun garbo. Ci sentivamo violentati, non capivano il nostro dolore. Il giorno dopo i giornali parlarono di delitto passionale. 

E Mena diventò ‘la maestrina’. Un appellativo che autorizzava a pensare di tutto su mia sorella. Accennarono anche a un tentativo di suicidio di Mena avvenuto anni prima, ma tutt’altro che vero. Come non erano veri i motivi addotti dai giornali alla base dell’assassinio di mia sorella. Sul quotidiano Il Mattino era scritto che era stato proprio il camorrista Francesco Bidognetti a sparare a mia sorella. Forse era ferito e scappava. Non so se sia vera la notizia che qualcuno si sia fatto scudo con il corpo di Mena, perché la dinamica dei fatti nessuno mai ce l’ha riferita. Forse non la conoscono nemmeno gli inquirenti. O forse è nelle relazioni allegate all’istruttoria del giudice istruttore Felice Di Persia. Ma non è mai trapelata all’esterno. Abbiamo appreso alcune notizie solo a mezzo stampa e osservando il corpo di Mena quando è stata tumulata”. “Ci vuole poco a infangare la memoria e la reputazione di una persona – fa Francesco – basta un giornalista poco affidabile. Il Mattino inviò un corrispondente da Napoli perché quel giorno non c’era quello locale. Noi tentammo di far passare la verità sui giornali facendo scrivere degli articoli di rettifica. Ma il danno era fatto”.

“Poi Mena, non essendo una persona nota, è caduta nel dimenticatoio. Ogni tanto compariva qualche trafiletto, magari dicevano ‘arrestato tizio, implicato nell’omicidio della maestrina di Giugliano’. Ma non abbiamo mai avuto notizie dirette e non credo che ci sia stata la reale volontà di indagare sulla nostra tragedia, sulla sua morte è caduto l’oblio. Quegli articoli ferirono i miei genitori e tutta la nostra famiglia, è come se, dopo morta, Mena l’avessero uccisa un’altra volta. Le hanno tolto anche la dignità. Una violenza inaudita, che abbiamo dovuto sopportare per anni. In realtà – afferma Francesco – la sparatoria era un regolamento di conti tra Francesco Bidognetti, boss emergente della camorra casalese in soggiorno obbligato a Giugliano, e vecchi esponenti della Nuova Camorra Organizzata, come Battista Marano, che era legato al clan Mallardo, affiliati al boss Raffaele Cutolo.

E Mena si era trovata per puro caso in mezzo a una sparatoria tra bande di camorra rivali. Al commissariato lavorava il mio ex suocero e mi diceva sempre: ‘Sicuramente non è un delitto passionale, ma non si sa com’è accaduto’. Solo mesi dopo fummo convocati dal giudice istruttore, Felice Di Persia, che però non ci chiese nulla. A papà disse solo: ‘In un eventuale giudizio voi volete costituirvi parte civile?’. Papà rispose di sì. E questo è l’unico nostro contatto con la giustizia”. “Una cosa che ogni tanto penso che vorrei fare, è quella di scrivere a Francesco Bidognetti, il boss dei casalesi. Non so se devo passare attraverso il ministero della Giustizia, ma lo farò. Se fosse in un carcere qui vicino, sarei anche disposto ad andare a trovarlo per farmi dire la verità su quella sera. Ma senza spirito di odio o di vendetta. Anche se mi dicesse: ‘Guarda, ho sparato io. È stata una sventura, una disgrazia, s’è trovata lì...’. Insomma, vorrei quella verità che non ho mai saputo. Dopo trent’anni l’accetterei con assoluta serenità”.

Dopo i funerali di mia sorella iniziò una vita triste. Tra dicembre e aprile sono dimagrito di trentasei chili, stavo chiuso in una stanza tutto il giorno, non mangiavo e non uscivo. Dal giorno dopo la morte di Mena, sono sempre tornato a casa alle sei di sera. Sapevo che
in casa c’erano due persone la cui vita si era fermata lì. I miei genitori si trascinavano avanti stancamente: aspettavano il giorno per la notte, la sera per la mattina, per loro la vita non aveva più senso. Nel successivo mese di giugno, mia mamma ebbe un ictus, che la costrinse su una sedia a rotelle. Le fu data la pensione anticipata, a soli 55 anni. Ricordo ancora la diagnosi: ‘emorragia extra cerebrale in zona subaracnoidea’. All’inizio era lucida e così tentammo con la fisioterapia di recuperare la sua autonomia. Lei si impegnava, ma quando capì che non sarebbe tornata come prima, si lasciò andare; è rimasta in quelle condizioni per dieci anni. Il sorriso spento sulle labbra”.

“Tre figli maschi e una donna disabile su una sedia a rotelle: una situazione davvero triste e diffi cile. Ci siamo ritrovati io e mio fratello Marco a lavare mia mamma che, come tutte le donne, era gelosa del proprio corpo e della propria intimità, ci teneva alla discrezione, soprattutto nei confronti dei figli. In quelle condizioni si sentiva ulteriormente umiliata perché noi la dovevamo accudire. Si sentiva violata, senza dignità”.

“Ogni Natale la nostra tragedia si rinnovava. Già dal 15 dicembre in poi, a casa nostra c’era un clima pesante. Natale è il momento in cui le famiglie si riuniscono, stanno insieme, ma quel posto vuoto a tavola, il posto di Mena, non potevi nasconderlo. Da allora il Natale non l’ho più avvertito come una festa. Mia mamma è deceduta nel 1990, a 65 anni. A papà dopo un anno dalla morte di Mena fu diagnosticata una cirrosi epatica; era anche diabetico, ogni due-tre mesi c’era bisogno di trasfusioni di sangue, e all’epoca non era facile trovarne. Così sono diventato donatore. Papà aveva 56 anni, un anno in più di mia madre. Erano entrambi ancora giovani, si potevano godere un altro pezzo della loro vita. Invece non è andata così”. “Andavo al cimitero tutti i fi ne settimana, lì abbiamo una cappella di famiglia. Per me era una gioia andarci, non una sofferenza. Andavo sereno, da solo. Mi chiudevo dentro e parlavo ad alta voce. Ancora adesso lo faccio, è come andare a trovare qualcuno in ospedale che però sta bene e non sta morendo. Io parlo normalmente con mia sorella”.

“La cosa che mi ha ferito di più in questi anni, non è stata tanto non conoscere la verità dei fatti, quanto quegli articoli di giornale che parlavano di delitto passionale: la dignità tolta a mia sorella è la cosa che non ho mai accettato. E soprattutto mi ha dato fastidio il fatto che sia stata dimenticata da tutti. Io ho odiato questo paese, sono scomparso da Giugliano per vent’anni. Ho sempre detto ai miei fi gli: ‘Andate via da qui perché questa è una terra maledetta’. C’è stata omertà da parte di persone che hanno assistito all’omicidio di mia sorella e non hanno voluto mai parlare. Capisco la paura, ma qualcuno poteva inviare anche una lettera anonima, invece niente. Passavo da Giugliano solo per andare al cimitero la domenica. 

Poi sono tornato, e nel 2003 ho aperto lo studio nella casa dove avevo abitato con i miei genitori. Ho impiegato trent’anni per cercare di dare dignità a questa ragazza che troppe persone ricordavano ancora come la ragazza uccisa per motivi passionali. Ho cominciato a pormi questo problema tra il 1997 e il 1998, e dicevo tra me: ‘Come è possibile che mia sorella non debba avere la sua dignità?’. Nonostante il dolore, qualcosa mi spingeva a percorrere questa strada. Le persone intorno mi dicevano: ‘Ma chi te lo fa fare. Vai solo ad aprire una ferita’. Ma io sentivo dentro di me che bisognava aprire un varco nella memoria, per ricordare Mena Morlando. Ho fatto questa battaglia in silenzio, da solo, ed è stata dura, perché Mena non è stata una vittima eccellente, la sua morte non ha colpito l’opinione pubblica”.